La deroga all'art. 2112 c.c. nelle Amministrazioni Straordinarie: le logiche dietro la sentenza n. 10415/2020 della Cassazione
13 Ottobre 2020
Il caso
Una nota società di trasporti aerei aveva irrogato un licenziamento nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo ad un proprio dipendente, il cui rapporto di lavoro, sulla scorta degli accordi raggiunti con le OO.SS. ai sensi dell'art. 47, comma 4-bis della l. n. 428/1990, non era stato trasferito alla cessionaria. Risultando il lavoratore tra quelli rimasti in capo alla cedente e, quindi, tra il personale eccedente, lo stesso era stato licenziato.
Il lavoratore ha impugnato tempestivamente il recesso, e, sia in sede di prime cure che di gravame, gli era stato riconosciuto il diritto alla conservazione del posto di lavoro alle dipendenze della cessionaria (poi posta in Amministrazione Straordinaria ai sensi del d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito in l. 18 febbraio 2004, n. 39), dichiarando giocoforza l'illegittimità del licenziamento in questione.
In particolare la Corte di Appello di Roma, ha interpretato il precetto di cui all'art. 47 comma 4-bis alla luce della direttiva 2001/23/CE, ritenendo che “l'accordo sindacale ivi previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all'impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali”.
La Suprema Corte, come anticipato, si è conformata all'interpretazione del Collegio capitolino, rigettando i ricorsi presentati dalle società ricorrenti (cedente e cessionaria) e condannando le medesime, in solido, al pagamento delle spese. In particolare, i Giudici di legittimità hanno ritenuto “di dover interpretare in senso conforme al diritto dell'Unione il comma 4-bis dell'art. 47 della l. n. 428 del 1990, così come successivamente modificato, nel senso che l'accordo sindacale ivi previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all'impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali”. La questione giuridica
Si discute di una serie di norme a più riprese oggetto sia di intervento da parte del Legislatore che di interpretazione giurisprudenziale, a riprova dell'importanza che rivestono le sorti dei rapporti di lavoro nei casi di cessione di azienda nelle logiche di mercato nazionali, vincolate alla disciplina normativa di cui all'art. 2112 c.c., mentre, su un altro versante, le modalità concrete attraverso le quali devono avvenire dette cessioni sono contenute nell'art. 47 della Legge n. 428 del 1990.
Come noto, detta norma, infatti, è stata anche oggetto di intervento modificativo a seguito dell'emanazione degli articoli 3 e 4 della Direttiva 2001/23/CE, i quali, tra le altre cose, prevedono che “i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario”, e che “il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario”.
Tra la fine degli anni 90 ed i primi anni 2000, le crisi aziendali di alcune grandi imprese (a titolo esemplificativo, quelle riferibili ai gruppi industriali “Cirio” e, non è un caso, “Alitalia”), occupanti migliaia di lavoratori, hanno fornito l'occasione per riflettere sulle problematiche inerenti alle limitazioni dovute al contenuto dell'art. 2112 c.c. per quanto concerne la cessione dell'azienda o di rami di essa da parte di una procedura concorsuale con l'acquisizione obbligata della totalità dei lavoratori (obiettivo spesso difficilmente perseguibile) ovvero il licenziamento della totalità di costoro, con gravissimo pregiudizio in quest'ultima ipotesi della tutela dell'occupazione, senza contare le innumerevoli ripercussioni a livello sociale.
Come detto l'occasione, seppur infausta in termini di costo sociale, è stata propizia o ben augurante ed ha visto il tramutarsi di quel pensiero in un'azione concreta, seppur non attribuibile al nostro Legislatore.
In tal senso, infatti, muove l'art. 5, comma 1, della direttiva 2001/23/CE in base al quale “a meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente”.
Il Legislatore italiano, come spesso accade, non è stato solerte nel recepire la direttiva, tant'è che nel 2009, con la definizione della causa C-561/07, all'esito della procedura di infrazione n. 2005/2433, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha condannato l'Italia per detta violazione, atteso che l'originaria disposizione contenuta nei commi 5-6 dell'art. 47 non risultava conforme alla normativa comunitaria.
Il Legislatore interno, allora, si è visto costretto ad intervenire in due modi: in primis, mediante l'art. 19-quater del d.l. n. 135/2009, conv. in l. 20 novembre 2009, n. 166, che ha introdotto il comma 4-bis dell'art. 47 (le cui lett. b-bis e b-ter sono state invece previste dal d.l. n. 83/2012, conv. in l. n. 134/2012) che disciplina in concreto le ipotesi nelle quali la cessione è possibile con un mantenimento anche solo parziale dell'occupazione in deroga all'art. 2112 c.c. (e su questo profilo focalizzeremo la nostra attenzione). Al contempo, ha modificato il comma 5 del predetto articolo stabilendo la facoltà di derogare sempre all'art. 2112c.c. nei casi di una serie procedure concorsuali aventi finalità di liquidazione (ipso facto, senza prosecuzione dell'attività di impresa).
Nonostante ciò, negli anni più recenti, visto anche il suo costante richiamo negli accordi sindacali raggiunti su alcuni dei più (tristemente) noti tavoli di crisi, il citato comma 4-bis è stato spesso oggetto di critica da parte di numerosi orientamenti dottrinali e, da ultimo, giurisprudenziali come quello che qui ci impegna.
Non si nasconde a chi legge la presente pubblicazione che la ratio legis di cui al comma 4-bis non trova la propria scaturigine puramente in un processo di sistematico coordinamento con l'ordinamento giuridico comunitario. Se Shakespeare nell'Atto IV della Tempesta sosteneva che “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, allora, la “Tempesta” che rischia di abbattersi a posteriori su molteplici procedure concorsuali che hanno richiamato (impropriamente?) negli accordi raggiunti con le OO.SS. il precetto di cui al comma 4-bis si può ricondurre ad una ratio più politica che giuridica, ad obiettivi “fatti della stessa sostanza dei sogni” di restructuring di primari gruppi industriali italiani. E' opinione degli autori che l'esigenza di gestire la crisi in cui versavano quest'ultimi - in un periodo tra l'altro a cavallo della “Grande Recessione”, della crisi globale di cui tuttora stiamo vivendo/pagando le conseguenze sul piano industriale (per giunta aggravate dall'emergenza COVID-19) - abbia spinto il Legislatore a conformarsi alla direttiva 2001/23/CE, ma non del tutto.
Da qui, il pericolo che il precedente de quo sia il primo di una lunga serie di “tuoni” che preannunciano impugnative di licenziamenti intimati da future procedure o il buon esito di quelle già proposte giudizialmente da lavoratori perdenti posto in situazioni analoghe.
Unica nota da mettere sin d'ora in evidenza e che dovrà guidare il ragionamento del lettore da qui in avanti, è che, nella fattispecie in esame, l'accordo raggiunto ai sensi dell'art. 47, comma 4-bis, da Alitalia CAI (in veste di cedente) con Alitalia SAI (in veste di cessionaria) e le OO.SS. non vede nella prima una procedura concorsuale, ma soltanto un'azienda versante in uno stato di difficoltà finanziaria che, pertanto, aveva fatto ricorso alla cassa integrazione guadagni straordinaria per “crisi aziendale” (v. pag. 2, punto 5, accordo del 26 novembre 2014). Di talché, come si può pianamente rinvenire dal testo del comma 4-bis di seguito riportato, ci troviamo nella fattispecie di cui alla lett. a) e non della b): “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione, l'articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell'articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675; b) per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività”.
Ed invero, l'intento della presente pubblicazione non è quello di disconoscere il fondamento del principio di diritto statuito dalla sentenza n. 10415/2020, ma soltanto quello di riportarlo in più giusti confini, poiché non v'è ragione per credere che il corretto metodo d'interpretazione da applicare al comma 4-bis, nel rispetto dei migliori criteri di ermeneutica e sistematicità, possa essere il suo totale annichilimento o, per meglio dire, la sua totale disapplicazione nel rispetto della normativa comunitaria (così negando in toto la possibilità di un trasferimento “anche parziale” dei dipendenti), rispetto ad una sua armonizzazione con quest'ultima. Annichilimento, in ogni caso, destinato a sopraggiungere a fronte dell'articolo 368, comma 4, lettera b), del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (cd. “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza”), come modificato dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla l. 5 giugno 2020, n. 40, che, però, non deve disincentivare l'interprete dal curarsi degli errori del passato (non avendo l'abrogazione efficacia ex tunc, ma ex nunc).
Sic et simpliciter, come andremo a illustrare a breve, la disapplicazione della lettera a) non deve comportare la stessa sorte per la lettera b) (ovvero per quelle - rispetto alla lett. b-bis e b-ter - originariamente previste dal Legislatore al momento dell'introduzione del comma 4-bis), poiché, se non v'è dubbio che la prima sia in aperto contrasto con la fonte comunitaria sopra menzionata, la seconda può essere pacificamente interpretata in maniera conforme a quest'ultima e il discrimen tra il seguire questa logica o meno consiste nell'inficiare o meno centinaia di licenziamenti probabilmente sussistenti nelle motivazioni e intimati da soggetti semplicemente e bonariamente affidatisi al tenore testuale della normativa di riferimento. E non è poco. Osservazioni finali
A tirar le fila del discorso, la sentenza in esame fonda le proprie argomentazioni in un'ottica di protezione dei livelli occupazionali in contrapposizione a possibili speculazioni in danno al mercato del lavoro e, in definitiva, delimita la possibilità per l'art. 47, comma 4-bis di operare secondo le logiche autentiche del Legislatore che si ritiene volesse concedere la facoltà di derogare complessivamente all'art. 2112 c.c. e non soltanto legittimare eventuali accordi tra le Parti sociali atte a novare in peius le condizioni contrattuali precedentemente acquisite dai lavoratori.
La volontà del Legislatore era quella di preservare il precetto di una norma speciale quale quella di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. n. 270/99 che, come noto, prevede che: “Nell'ambito delle consultazioni relative al trasferimento d'azienda previste dall'art. 47, l. 29 dicembre 1990, n. 428, il commissario straordinario, l'acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e ulteriori modifiche delle condizioni di lavoro consentite dalle norme vigenti in materia”.
Si torna, allora, al punto di partenza e al “Nodo gordiano” della vicenda, perché, del pari all'art. 63 sopra citato, l'art. 47 stabilisce che, infatti, nel caso di aziende interessate da stati di crisi e poste in Amministrazione Straordinaria, si può concordare un trasferimento “anche parziale” dei lavoratori impiegati nell'azienda (o nel ramo della stessa) in deroga a quanto stabilito dall'art. 2112 c.c..
Su quest'ultimo inciso, però, a parere di chi scrive, i Giudici di legittimità hanno però difficoltà ad esprimersi, da una parte, perché consapevoli che è nato dalla pura necessità di dare seguito ad istanze di carattere politico, dall'altra, perché l'intervento abrogativo del cd. “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza” ha risolto il problema alla radice espungendo quel così scomodo riferimento ad un trasferimento “anche parziale”, di talché tanto vale superare l'inciampo del Legislatore del passato, come messo in evidenza nell'estratto della sentenza qui riportato: “La diversità dei casi disciplinati dai due commi in successione non consente di attribuire all'inciso contenuto in entrambi – “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione” – la medesima valenza semantica, altrimenti non si registrerebbe alcuna differenza tra le ipotesi previste dal comma 4 bis e quelle del comma 5, in contrasto con la ratio della Direttiva e con l'esigenza manifesta di prestare ottemperanza alla condanna della Corte di Giustizia del 2009. Pertanto non si può estrapolare l'inciso “anche parziale” per accreditare l'ipotesi che l'accordo sindacale possa disporre, in senso limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell'impresa cedente, ove si tratti di azienda rientrante nell'ipotesi di cui al comma 4- bis. La suddetta complessiva locuzione esprime piuttosto il contesto di riferimento ed, essendo presente sia nel comma 4-bis sia nel comma 5, risulta in sé non decisiva ai fini interpretativi, laddove il senso qui avversato ponga problemi di conformità al diritto dell'Unione”.
In parole povere, non è possibile fornire un'interpretazione in linea con il diritto comunitario a detto inciso, al limite la possibilità di un trasferimento parziale dei lavoratori è già ricompresa nel comma 5, quindi, si può superare l'ostacolo definendo tale locuzione come “non decisiva” e far finta, come Ponzio Pilato, che non abbia mai trovato ingresso nel nostro ordinamento anziché espressamente disapplicarla.
Ad avviso di chi scrive, però, è più congruo fare un caso a sé stante laddove invece il motivo del licenziamento non sia il trasferimento di per sé stesso, ma l'insostenibilità dei costi aziendali i quali non permettano oltre la prosecuzione dell'attività d'impresa, di talché l'unica soluzione sia la messa in atto di una predeterminata attività di carattere liquidatorio sostanziatasi nella vendita di tutti i compendi aziendali e, infine, nella cessazione delle attività d'impresa della società datrice statuita con decreto ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 73, d.lgs. n. 270/1999, e all'art. 8, d.l. n. 347/2003.
D'altro canto è la stessa direttiva 2001/23 all'art. 4, comma 1 a prevedere che “Il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d'organizzazione che comportano variazioni sul piano dell'occupazione”.
In questo senso, la norma di cui all'art. 47, comma 4-bis, lett. b) si fa anticipatrice di quanto previsto al successivo comma 5, estendendo il suo ambito di applicazione alle A.S. (ivi richiamate genericamente) “Prodi-bis” e “Marzano” che sono di origine successiva. Andando a riassumere: (i) la lett. a) del comma 4-bis consente una deroga soltanto parziale al precetto di cui all'art. 2112 c.c., sicché è imprescindibile il passaggio automatico dell'intero complesso dei lavoratori al cessionario; (ii) il combinato disposto di cui al comma 4-bis, lett. b) e comma 5 permette di derogare in toto all'art. 2112 c.c. laddove sussistano concretamente i requisiti previsti dalla normativa comunitaria (ovvero la più volte citata finalità liquidatoria della procedura concorsuale).
Bisogna a questo punto separare il caso “Alitalia”, ove la cedente era pur sempre in bonis e non fallita, da molteplici altre A.S. caratterizzate dall'accertamento del proprio stato d'insolvenza da parte di un magistrato del Tribunale competente per territorio e dalla sottoposizione alla vigilanza del MISE, il quale ha provveduto alla nomina di pubblici ufficiali con funzioni di Commissari Straordinari (ovvero coloro i quali redigono il piano industriale soggetto ad autorizzazione ministeriale), esautorando la vecchia proprietà e il precedente CdA dalla gestione dell'impresa.
Probabilmente, chi ha sostenuto, leggendo la sentenza in esame, che l'art. 47, comma 4-bis, sia stato parzialmente svuotato della sua funzione precettiva, ha confuso la disciplina della cd. Legge Marzano con quella di cui all'art. 2, L. n. 675/1977 (norma quest'ultima richiamata dal comma 4-bis, lett. a), ma è di pronto riscontro la differenza tra le due disposizioni, laddove la seconda si sostanziava nella attestazione da parte del CIPI (ormai soppresso) di una situazione di insolvenza volta a far accedere la relativa impresa alla cassa integrazione guadagni e nulla più (non era previsto alcun controllo diretto o ingerenza delle istituzioni nella gestione dell'impresa); in pratica proprio quanto accaduto per Alitalia CAI (salvo l'intervento del Ministero del Lavoro al posto del CIPI).
Si ribadisce, la soluzione più opportuna è quella che vuole che il comma 4-bis, lett. b) possa essere raccordato con il successivo comma 5 e letto nel senso che le Amministrazioni Straordinarie con finalità meramente liquidatoria possono derogare all'art. 2112 c.c. mentre la fattispecie in esame esula dal suo campo di applicazione tanto quanto da quello della direttiva che ne è all'origine.
Più nello specifico, per fare ciò è sufficiente disapplicare l'inciso di cui alla lett. b) “in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività”, facendo così in modo che la nozione di “Amministrazione Straordinaria” genericamente richiamata dal comma 5, che, si ricorda, è norma antecedente a quelle che disciplinano le A.S. cd. “Prodi-bis” [1999] e “Marzano” [2003], ricomprenda anche quest'ultime.
Ed invero, a quel punto, l'anello di congiunzione tra i due commi diventa il passaggio in cui si fa riferimento all'ipotesi in cui “nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione”, permettendo così una legittimazione effettiva della citata locuzione “anche parziale”, non più scomoda, ma atta ad anticipare la possibilità che nei casi di cui alla lett. b) la deroga al 2112 c.c. possa essere senza limiti.
In tal senso muove anche l'art. 5, comma 1, della direttiva 2001/23 in base al quale “A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autotità pubblica competente”.
E' bene evidenziare come, d'altronde, l'art. 56 del d.lgs. n. 270/1999 (alla cui disciplina generale rimanda in larga parte la cd. “Legge Marzano”) stabilisca che il programma dei Commissari Straordinari, soprattutto laddove non sia orientato alla “ristrutturazione dell'azienda” ma sia volto al diverso “indirizzo della cessione dei complessi aziendali”, debba “indicare le modalità della cessione, segnalando le offerte pervenute o acquisite, nonché le previsioni in ordine alla soddisfazione dei creditori” (cfr. comma 2).
D'altro canto, la Suprema Corte di Cassazione ha già avuto modo di riconoscere in passato la legittimità dell'interpretazione resa da chi scrive in un caso del tutto analogo a quello illustrato a titolo di esercizio intellettuale, enunciando il seguente principio di diritto: “Nell'ipotesi di cessione d'azienda, ai sensi del d.lgs. n. 270 del 1999, art. 63, e l. n. 428 del 1990, art. 47, con trasferimento parziale dei lavoratori dipendenti al cessionario, la rinuncia alla sua solidarietà per le obbligazioni anteriori ad esso quale condizione per la prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario, oggetto di previsione dell'accordo concluso ai sensi della l. n. 428 del 1990, art. 47, costituisce deroga consentita all'art. 2112 c.c.” (cfr. Cass. 4 novembre 2014, n. 23473).
In definitiva, è consentito: 1) il trasferimento parziale dei lavoratori in caso di A.S. purchè con finalità liquidatoria; 2) che sia prevista l'accettazione di condizioni peggiorative del rapporto di lavoro per il trasferimento alla cessionaria.
Né può sposarsi l'orientamento di alcuni secondo i quali sussisterebbe un'antinomia tra l'art. 63, comma 4, d.lgs. n. 270/1999 e l'art. 47, comma 4-bis, l. n. 428/1990 nonché di un'abrogazione implicita della prima norma in quanto previgente alla seconda e da questa superata in termini di volontà del Legislatore (comunitariamente orientato).
Intanto, è di pronto riscontro che, tra le due, la norma speciale è il richiamato art. 63, comma 4, che prevede la possibilità di derogare al disposto dell'art. 2112 c.c. espressamente nei casi di Amministrazione Straordinaria (sia “Prodi-bis” che “Marzano”) mentre l'art. 47, comma 4-bis, rinvia in maniera più ampia ad una serie di ipotesi (ivi compresa quella ex d.lgs. n. 270/1999) indicate alle lettere a, b, b-bis, b-ter (di talché, in base al brocardo lex specialis derogat generali sarebbe quest'ultima norma a cadere).
Che poi l'art. 63, comma 4, sia antecedente all'introduzione dell'art. 47, comma 4-bis, è questione di scarso rilievo, poiché si coordinava con l'originaria novella di cui all'art. 47, comma 5, la quale consentiva una deroga dell'art. 2112 c.c. a tutti i casi di “crisi d'impresa” anziché a quelli ora più specificatamente individuati.
Non si fa mistero che è un'opera interpretativa faticosa, ma meglio una soluzione complessa ad una non soluzione.
Pur a voler prescindere da quanto sopra, v'è da chiedersi se l'alternativa rispetto “al trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente” (cit. art. 63, d.lgs. n. 270/1999) possa ritenersi veramente più favorevole per l'intera platea di lavoratori, perché detta alternativa (ovvero all'accordo raggiunto con le OO.SS. ex artt. 47, l. n. 428/1990 e 63, d.lgs. n. 270/1990 se ritenuto illegittimo) è spesso e volentieri il licenziamento di tutta la forza lavoro in essere.
Si aggiunga che se anche il Legislatore Europeo (e non è così) volesse veramente vietare in fattispecie analoghe a quella de qua il trasferimento parziale di lavoratori come stabilito dal citato art. 63, d.lgs. n. 270/1999, in forza del cd. “principio dei controlimiti” (cfr. C. cost. n. 238 del 2014) il Giudice italiano avrebbe l'obbligo di far prevalere la normativa interna in quanto altrimenti si violerebbe il precetto di cui all'art. 4, comma 1, Cost. che sancisce: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Nessuna normativa internazionale, infatti, può avere ingresso nell'ordinamento giuridico italiano o essere interpretata in senso contrastante con i Principi Fondamentali della nostra Costituzione ed una lettura che vuole la disapplicazione dell'art. 63, d.lgs. n. 270/1999 e come uniche alternative o il trasferimento di tutti i lavoratori o il loro complessivo licenziamento pur in presenza di offerte di acquirenti che potrebbero comportare una parziale salvaguardia occupazionale non è sicuramente fedele al contenuto di cui all'art. 4 poc'anzi richiamato.
Ad ogni modo, si ribadisce, non sussistono ipotesi di conflitti normativi nel caso di specie, poiché il Legislatore comunitario ha voluto espressamente consentire il trasferimento parziale dei lavoratori (e, quindi, la deroga all'art. 2112 c.c.) per procedura concorsuali quali le A.S. proprio per evitare che l'unica alternativa al trasferimento complessivo di tutto il personale dipendente sia il licenziamento di quest'ultimo nelle more della liquidazione del patrimonio della società.
In conclusione, nell'attesa che entri in scena il nuovo “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza” si ritiene che la prospettazione qui offerta abbia fatto “ordine nell'ordine” che già la Corte di Cassazione auspicava di aver fatto, ma, a dire il vero, il compito di quest'ultima stavolta era alquanto arduo, perché questa vexata quaestio non è frutto di auliche teorie dottrinali e giurisprudenziali in opposizione, quanto della goffaggine del Legislatore del passato nel separare e distinguere gli ambiti di competenza del Giudice del lavoro e di quello fallimentare laddove vi siano profili giuridici tangenti.
E così, è proprio il caso di dirlo: ai posteri l'ardua sentenza. |