Gli amministratori di fatto e di diritto sono solidalmente responsabili

15 Ottobre 2020

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21730/20 depositata l'8 ottobre, si è espressa sull'azione di responsabilità avviata da un curatore nei confronti dei cessati amministratori di fatto e di diritto di una società fallita.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21730/20 depositata l'8 ottobre, si è espressa sull'azione di responsabilità avviata da un curatore nei confronti dei cessati amministratori di fatto e di diritto di una società fallita.

La disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche al c.d. amministratore di fatto, cioè a colui che, pur in assenza di una qualsivoglia investitura formale, abbia esercitato sotto il profilo sostanziale nell'ambito sociale un'influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto; una correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio dato dall'intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza.

Il caso. Il curatore di una società dichiarata fallita conveniva innanzi al Tribunale di Cosenza i due cessati amministratori “di diritto” unitamente ai due amministratori “di fatto” della stessa chiedendone la condanna al risarcimento del danno causato per oltre euro 2.000.000. Il curatore assumeva in giudizio che, dalle informazioni assunte, i due amministratori di fatto avevano sempre detenuto le scritture contabili e svolto l'attività gestoria.
Il Tribunale di Cosenza accoglieva la domanda condannando, però, al risarcimento richiesto i soli amministratori di diritto della società.
La Corte d'Appello di Catanzaro, decidendo sul gravame proposto dal curatore, riformava la sentenza di primo grado e disponeva la condanna in solido di tutti gli amministratori di diritto e di fatto della società alla minor somma di circa euro 1.400.000 corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare.
Uno degli amministratori di fatto ricorreva per cassazione formulando due motivi di impugnazione: a) violazione e falsa applicazione degli artt. 2392 e 2476 c.c. nonché dell'art. 146 l.fall. nella parte in cui il secondo giudice aveva ritenuto provata la sua qualità di amministratore di fatto; b) violazione degli artt. 1223, 1226 e 2043 c.c., nella parte in cui il secondo giudice lo aveva condannato a risarcire il danno nella differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare.
La Suprema Corte di Cassazione respinge il ricorso ritenendo entrambi i motivi infondati.

Sulla prova dell'amministrazione di fatto della società. Ricorda, in primo luogo, la Suprema Corte che la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche a coloro che si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il c.d. amministratore di fatto (cfr. Cass. 12 marzo 2008 n. 6719); cioè quel soggetto che, pur privo di un'investitura formale, eserciti sotto il profilo sostanziale nell'ambito sociale un'influenza che trascende la titolarità delle funzioni, con poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, sicché può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l'omissione di atti di gestione (cfr. Cass. 18 settembre 2017, n. 21567). Sulla base di siffatto presupposto osservano i Giudici di legittimità che la Corte di Appello ha correttamente accertato la qualità di amministratore di fatto in capo al ricorrente risultando in atti la sua ingerenza nella gestione della società – attraverso le direttive e il condizionamento della scelte operative – non esauritasi nel mero compimento di atti eterogenei ed occasionali, ma avendo avuto caratteri di sistematicità e completezza specie nella conduzione dei rapporti contrattuale e con i dipendenti (cfr. Cass. 1° marzo 2016, n. 4045).

Sulla quantificazione del danno arrecato alla massa concorsuale. Chiarito quanto sopra, ritengono poi i Giudici di legittimità che la Corte di Appello di Catanzaro abbia correttamente quantificato anche l'ammontare dei danni subiti dal fallimento nella differenza tra passivo e attivo fallimentare sulla scorta dei principi di cui alla Cass. S.U. 6 maggio 2015, n. 9199. A mente di quest'ultima nell'azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo.
Osservano al riguardo i Giudici di legittimità che una correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall'intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza.
Nella fattispecie, la Corte d'Appello di Catanzaro aveva, ad avviso degli Ermellini, correttamente quantificato il pregiudizio patrimoniale considerando due elementi: i) il depauperamento del patrimonio societario determinato dalla condotta dolosa o gravemente colposa degli amministratori (in relazione soprattutto al mancato incasso dei crediti e al conseguente mancato reimpiego degli stessi a beneficio della società); ii) il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai dipendenti, che avrebbe potuto essere evitato con la messa in liquidazione della società o con la risoluzione dei rapporti in essere con i dipendenti stessi. Ritiene pertanto la Corte di Cassazione che il criterio di liquidazione adottato prescinde dall'apprezzamento della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare: il danno è infatti stato commisurato per una parte all'accertata colpevole dispersione di elementi dell'attivo patrimoniale, per altra al colpevole protrarsi di un attività produttiva implicante l'assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l'importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia stato poi ridotto a una minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere.

Alcune osservazioni sulla figura dell'amministratore di fatto. La giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che «le norme che disciplinano l'attività degli amministratori di una società di capitali dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell'amministrazione della società, sono applicabili non solo ai soggetti nominati nelle forme stabilite dalla legge alla carica di amministratore, ma anche a coloro che si siano di fatto ingeriti nella gestione della società pur in assenza di qualsivoglia investitura sia pur irregolare o implicita da parte dell'assemblea» (Cass., 12 marzo 2008, n. 6719). La medesima giurisprudenza ha altresì chiarito che ai fini dell'estensione delle responsabilità da mala gestio «è sufficiente l'accertamento dell'avvenuto inserimento nella gestione dell'impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società» (ancora Cass., 12 marzo 2008, n. 6719, ove si ritiene congruamente motivata – e insindacabile in sede di legittimità – l'attribuzione della qualifica di amministratore di fatto operata dal giudice di merito «sulla base di un triplice ordine di considerazioni, individuate: a) nella relazione del curatore; b) nelle dichiarazioni di alcuni dipendenti, da cui sarebbe risultato il ruolo attivo svolto dal [convenuto] nella gestione societaria, pur dopo la cessazione della carica di amministratore unico della società; c) nel consistente apporto economico da lui prestato in favore dei dipendenti, interpretato come sintomo di un suo diretto interesse nella gestione societaria»; cfr. anche Cass., 6 marzo 1999, n. 1925; Cass., 14 settembre 1999, n. 9795; nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, v. App. Milano, 4 maggio 2001, in Giur. it., 2002, 419, App. Milano 26 settembre 2000 in Giur. comm., 2000, II, 562; Trib. Milano, 8 marzo 2007, in Giur. it., 2008, 1441; Trib. Torino, 15 aprile 2005, in Giur. it., 2005, 1858; Trib. Torino, 6 maggio 2005, ibidem; Trib. Milano, 11 settembre 2003, in Dir. prat. soc., 2003, 23, p. 74; Trib. Torino, 30 maggio 2000, in Fall., 2000, 1301. Più recentemente, cfr. Trib. Modena 10 settembre 2020, n. 949: «ancorché la qualifica di amministratore formale non comporti un automatico giudizio di colpevolezza per violazioni compiute da altri, è comunque pacifico che, a fronte di una investitura formale, sono ricollegabili oneri, obblighi ed attività di gestione che gravavo sull'amministratore. L'accettazione della carica di amministratore comporta necessariamente l'obbligo, in capo al medesimo, di vigilare sul soggetto che di fatto ha gestito la società»; App. Torino 14 maggio 2020, n. 506: «l'amministratore di fatto è responsabile delle condotte commissive e omissive dell'amministratore di diritto essendo tenuto ad impedire, ex art. 40, comma 2, c.p., le condotte illecite riguardanti l'amministrazione della società o a pretendere l'esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge. (Nel caso di specie, nell'atto di appello l'amministratore di diritto aveva escluso che potesse essere ritenuto responsabile per fatti antecedenti alla sua nomina formale mentre la Corte confermava la decisione del Tribunale ritenendo che alcuna apprezzabile differenza vi era stata tra i periodi nei quali era privo di incarico, quelli in cui aveva conseguito incarichi di amministrazione limitati e quelli nei quali aveva avuto incarichi con poteri più ampi, sino a quando non era divenuto amministratore unico)»; Trib. Milano 10 febbraio 2020, n. 1144: «in tema di società, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza. A costoro sono applicabili le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori delle società di capitali»; (in DeJure). In argomento, in dottrina, ABRIANI, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano, 1998; CASTAGNAZZO, Voce Amministratore di fatto, in Digesto Commerciale, Aggiornamento, Torino, 2012, 23 ss.

(Fonte: DirittoeGiustizia.it)

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.