Sulla prova del carattere ritorsivo del licenziamento

Enrico Zani
20 Ottobre 2020

L'insussistenza del fatto contestato non è sufficiente per la prova, che spetta al lavoratore, della natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento.Non è sufficiente che il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per qualificarlo come ritorsivo, essendo necessario che il motivo illecito sia stato l'unico determinante, cioè che vi siano indizi, diversi dalla mancanza di giustificazione, anche qualificata, del recesso, che consentano di risalire a un motivo illecito del datore di lavoro.
Massima

L'insussistenza del fatto contestato non è sufficiente per la prova, che spetta al lavoratore, della natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento.

Non è sufficiente che il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per qualificarlo come ritorsivo, essendo necessario che il motivo illecito sia stato l'unico determinante, cioè che vi siano indizi, diversi dalla mancanza di giustificazione, anche qualificata, del recesso, che consentano di risalire a un motivo illecito del datore di lavoro.

Il caso

Un lavoratore adiva il Giudice del Lavoro deducendo di essere stato assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, con orario part time e inquadramento nel settimo livello del CCNL Turismo – Pubblici Esercizi. Il contratto a tempo determinato veniva più volte prorogato, sino alla sua trasformazione in tempo indeterminato.

Pochi giorni dopo la trasformazione del contratto, il dipendente era vittima di un infortunio sul lavoro ed entrava in malattia per circa tre settimane. In occasione del rientro in servizio, il datore di lavoro aveva invitato il proprio lavoratore a prolungare la malattia per altri cinque giorni. Al momento del nuovo rientro al lavoro il lavoratore veniva licenziato, dapprima oralmente quindi per iscritto, per giusta causa.

La questione

Il lavoratore lamentava la natura discriminatoria e/o ritorsiva del licenziamento, alla luce della condotta datoriale che gli aveva impedito di riprendere il servizio una volta terminato il periodo di malattia ed in base alla motivazione solo apparente del recesso medesimo.

La lettera di licenziamento faceva riferimento a assenze ingiustificate ed a una condotta di insubordinazione non meglio precisate, se si eccettuava il riferimento ad una discussione per futili motivi intercorsa tra le parti che il dipendente protestava non essere mai avvenuta; le mancanze predette, inoltre, non erano mai state oggetto di preventiva contestazione.

Merita segnalare che il datore di lavoro si costituiva in giudizio tardivamente, addirittura dopo che l'istruttoria era stata svolta, chiedendo di venire rimesso in termini sulla scorta della lamentata impossibilità di lettura dei files allegati al messaggio di posta elettronica certificata con cui era stato notificato il ricorso introduttivo. Il Tribunale respingeva l'istanza di remissione in termini, dal momento che la parte resistente non aveva dedotto alcun mezzo di prova per dimostrare il presunto malfunzionamento informatico ed una verifica empirica sulla p.e.c. di notifica versata nel fascicolo telematico non aveva evidenziato alcun inconveniente.

Le soluzioni giuridiche

Il Giudice del Lavoro accoglie il ricorso.

L'istruttoria permetteva di apprezzare l'inconsistenza di entrambe le ragioni poste a fondamento del recesso.

Pur tra qualche incertezza, i testi – introdotti dalla sola parte ricorrente, stante la tardività della costituzione da parte del datore di lavoro – non avevano riferito di discussioni tra le parti che avessero trasceso i limiti di un normale confronto, sì da costituire quell'episodio di insubordinazione citato nella lettera di licenziamento e peraltro mai previamente oggetto di contestazione ai sensi dell'art. 7, Statuto dei lavoratori.

Anche sul versante dell'assenza ingiustificata non era stata raggiunta prova. Nella lettera di licenziamento, la stessa veniva collocata dopo l'insubordinazione, a sua volta fatta risalire al momento del primo ritorno al lavoro. Al contrario, il lavoratore ricordava di avere avuto un confronto verbale, comunque civile, con i superiori in occasione della seconda ripresa del servizio. Poiché i testimoni non riuscivano a collocare nel tempo la discussione tra le parti a cui avevano assistito, il Giudice del Lavoro concludeva nel senso di ritenere non adeguatamente dimostrata la seconda mancanza imputata al lavoratore.

Ciò posto, il Tribunale ricorda che la mancanza di giustificazione del licenziamento, sub specie di insussistenza dei fatti contestati, non equivale a dimostrazione del carattere discriminatorio o ritorsivo del recesso medesimo, un aspetto la cui prova spetta al lavoratore. Richiamando recenti arresti della Corte di Cassazione, la sentenza in commento puntualizza la necessità di verificare che la motivazione ritorsiva del licenziamento sia stata determinante: in altre parole, occorre che il motivo di ritorsione sia stato l'unica ed esclusiva ragione della decisione di operare il recesso. In tale quadro, il fatto che un licenziamento sia anche palesemente ingiustificato non può dirsi sufficiente, dovendosi al contrario ricercare altri “indizi”, per usare le parole impiegate dal Tribunale di Como, dell'esistenza, presso il datore di lavoro, di un motivo illecito determinante nella scelta di licenziare.

Nel caso di specie, la decisione del Giudice lariano mette in relazione il tempismo dell'immotivato recesso con il rientro al lavoro del dipendente dopo un lungo periodo di malattia che, a sua volta, aveva seguito di pochi giorni la conversione del contratto di lavoro, da tempo determinato a tempo indeterminato. Secondo il Tribunale, il licenziamento ha costituito la reazione dell'azienda al pur incolpevole comportamento del lavoratore, che aveva “tradito” – questo il termine usato dalla decisione – l'affidamento datoriale infortunandosi (e dunque rendendo indisponibili le proprie prestazioni) subito dopo che gli era stata concessa la stabilizzazione del rapporto laburistico.

La sentenza perviene dunque a concludere le proprie argomentazioni. Il licenziamento impugnato appare essere stato determinato dalla ragione ritorsiva appena vista e tale risulta essere stata l'unica e determinante causale del recesso, essendo emersa l'inconsistenza di quelle addotte dall'impresa. Per essere il licenziamento determinato da motivo illecito, il medesimo viene dichiarato nullo ai sensi dell'art. 1345 c.c.; dovendosi applicare l'art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, viene di conseguenza pronunziata la condanna del datore alla reintegra del dipendente ed al versamento in favore di quest'ultimo dell'indennità risarcitoria.

Osservazioni

La sentenza in commento interviene a delineare i tratti distintivi del licenziamento ritorsivo, soffermandosi altresì sulla definizione degli oneri probatori gravanti sul lavoratore che faccia valere in giudizio tale vizio del recesso.

Questa ipotesi di recesso viziato, al pari di quella fondata sul carattere discriminatorio dell'atto datoriale, appare rivestire una rinnovata centralità alla luce degli interventi legislativi del periodo 2012 – 2015, profondamente innovatori della materia dei licenziamenti.

Come noto, tanto la l. n. 92 del 2012, cui si deve la più recente riscrittura dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quanto il d.lgs. n. 23 del 2015, fonte di una regolazione del tema integralmente nuova, possono dirsi ispirati ad una ratio comune: il perseguimento di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Quest'obiettivo è stato preso di mira anche intervenendo sulle conseguenze dei licenziamenti indebiti, rendendo le medesime meno gravose per la parte datoriale, nell'auspicio che ciò potesse costituire un incentivo all'incremento delle assunzioni, anche con rapporti a tempo indeterminato.

Nondimeno, questa strategia non ha interessato tutti i tipi di licenziamenti viziati, eccettuando appunto i licenziamenti discriminatori e ritorsivi: con riferimento ai predetti, le tutele non hanno subìto contrazioni. La particolare severità qui impiegata dal Legislatore è spiegabile ponendo mente alla speciale gravità dei licenziamenti fondati su queste motivazioni, atti che si pongono in radicale contrasto con un principio cardine del nostro ordinamento, quello di uguaglianza. Ancora, la scelta legislativa si pone in coerente continuità con la produzione normativa eurounitaria, a più riprese intervenuta in questa materia: un'attenzione non sorprendente, dal momento che la discriminazione nella sfera del lavoro, al pari di ogni altra ipotesi di immotivata differenziazione di trattamento, è suscettibile di concretizzare la negazione del fondamento stesso dalla costruzione europea: la libertà di circolazione di merci e lavoratori.

Proprio il fatto che i licenziamenti discriminatori e ritorsivi siano ancora oggi puniti con rimedi particolarmente appetibili per i lavoratori (qual è, su tutti, la reintegrazione nel posto di lavoro) è all'origine del rinnovato interesse per tali fattispecie. Se in passato, infatti, il ripristino del rapporto di lavoro era ottenibile lamentando più vizi del recesso (e naturalmente provandone l'esistenza), tra i quali se ne annoveravano alcuni più facilmente dimostrabili rispetto ad un'ipotesi di discriminazione nella scelta di licenziare, oggigiorno il “catalogo” risulta drasticamente ridotto. In questo quadro, l'allegazione e la dimostrazione della causale discriminatoria o ritorsiva del licenziamento costituisce una delle strategie processuali più tutelanti per il prestatore di lavoro.

La maggiore attenzione per queste fattispecie di licenziamento contra legem ha poi recato con sé, quasi necessariamente, l'emersione presso la giurisprudenza di maggiori sforzi interpretativi, volti a meglio definire gli istituti in parola. La sentenza in commento si pone in tale filone, esprimendosi in sostanziale conformità alle più recenti pronunzie intervenute sul tema.

In primis, la decisione del Tribunale di Como si sofferma sui caratteri distintivi del licenziamento ritorsivo, categoria che si è visto essere vicina (anche nel trattamento sanzionatorio) ma non sovrapponibile a quella del licenziamento discriminatorio. Proprio in ciò risiede il fondamento dell'affermazione per cui – come ricorda il Giudice lariano – se il licenziamento discriminatorio rimane illecito anche quando a tale causale se ne affianca una legittima, altrettanto non può dirsi per il licenziamento ritorsivo. Per quanto riguarda la ritorsione, la rilevanza di tale causale è stata tradizionalmente argomentata sulla base dei principi generali in materia di contratto. Nella specie, la norma chiave risulta essere l'art. 1345 c.c., oggetto di specifico richiamo da parte dell'art. 18 Stat. lav. e ora implicitamente evocato – si veda l'inciso “casi di nullità espressamente previsti dalla legge” – dall'art. 2, d.lgs. n. 23 del 2015. In forza di tali disposizioni si afferma la nullità del licenziamento dipeso da motivo illecito determinante e la causale di recesso ritorsiva viene appunto ritenuta una motivazione illecita, suscettibile di giustificare, ove esclusiva, una sanzione di nullità dell'atto sotteso.

La sentenza in commento non si sofferma a fornire alcuna definizione di che cosa si possa intendere per motivazione ritorsiva del licenziamento. E' probabile che ciò sia stato considerato superfluo, o comunque implicitamente emergente dalla descrizione della condotta posta in essere dal datore di lavoro nel caso di specie. In effetti, la fattispecie oggetto della decisione si pone in stretta aderenza con le descrizioni dell'istituto fornite dalla giurisprudenza, secondo le quali il licenziamento per ritorsione consiste in una arbitraria ed ingiusta reazione ad un comportamento lecito del lavoratore. Con termine molto eloquente, la Corte di cassazione, con la sentenza 8 agosto 2011, n°17087, paragona questo tipo di recesso ad una “ingiustificata vendetta” del datore di lavoro: l'espressione rende quanto mai efficacemente l'essenza della ritorsione quale replica diretta, immediata ad un comportamento legittimo posto in essere dal lavoratore.

Il Tribunale di Como dedica poi la sua attenzione al profilo della dimostrazione della ritorsività del licenziamento. Si tratta di profilo strettamente connesso alla definizione della fattispecie medesima, dato che, come si è appena visto, il recesso “per vendetta” diventa giuridicamente rilevante quando la ritorsione costituisce l'unica e decisiva ragione della decisione datoriale: dunque si può dire che la tipologia di licenziamento in esame si definisce proprio attraverso la dimostrazione dell'inesistenza di altre possibili cause che possano giustificare la scelta operata dal datore di lavoro.

Anche qui la pronunzia in esame muove da posizioni interpretative consolidate, esprimendo che la prova della natura ritorsiva del licenziamento, che deve essere fornita dal lavoratore, non può consistere nella sola dimostrazione dell'inconsistenza delle ragioni formalmente addotte dalla parte datoriale a giustificazione della decisione di recedere. La ragione è evidente, la semplice mancanza di un reale motivo per licenziare costituisce già di per sé un diverso vizio del licenziamento, peraltro ora sanzionato in maniera molto più lieve rispetto all'ipotesi della ritorsione. Insomma, la prova della mancanza di valida giustificazione costituisce un passaggio necessario per il lavoratore che voglia dimostrare la natura ritorsiva del recesso: del resto si è ripetuto che la rilevanza della ritorsione si lega alla natura di esclusivo antecedente della medesima, sì che l'esclusione di altre concause della decisione assunta dall'impresa costituisce un'operazione indispensabile per ritenere concretizzata la premessa di questa tipologia di recessi.

Tanto posto, si chiede al lavoratore di andare oltre e di individuare e dimostrare il vero, unico e determinante motivo ritorsivo alla base delle scelte della controparte aziendale. La sentenza in commento puntualizza utilmente che tale operazione non può risolversi in una prova negativa, affermando letteralmente la ineludibilità della ricerca di “indizi, diversi dalla mancanza di giustificazione, anche qualificata del recesso, che consentano di risalire a un motivo illecito del datore di lavoro”.

Si tratta di una precisazione indubbiamente condivisibile, con la quale si chiarisce come la mancanza, anche palese ed evidente, di giustificazione valga certamente a colorare d'illiceità il licenziamento ma al tempo stesso costituisca una circostanza di valore neutro allo specifico fine di provare la ritorsività del recesso medesimo.

Giunti sin qui, si potrebbe avere l'impressione che al lavoratore chiamato a dare dimostrazione della sussistenza di un licenziamento ritorsivo tocchi un compito probatorio davvero molto arduo, scomposto in due fasi: prova dell'insussistenza delle causali addotte dal datore di lavoro e prova della ricorrenza di una motivazione ritorsiva, oltretutto avente significato unico e determinante nelle scelte della controparte datoriale.

Tale conclusione sarebbe però affrettata. Proprio l'impiego del termine “indizi”, cui si è fatto riferimento poco sopra, appare segnalare l'adesione della decisione in commento ad una posizione interpretativa – invero affermatasi a proposito del licenziamento discriminatorio – volta ad alleggerire alquanto l'onere probatorio del lavoratore, ammettendo largamente il ricorso a presunzioni. Ed in effetti la lettura della motivazione della decisione lariana chiarisce che l'elemento considerato decisivo nel senso di ritenere ricorrente la causale ritorsiva non è stato un fatto in senso stretto, quanto piuttosto la sequenza temporale dei fatti esposti dal ricorrente. In altre parole, è stata la deduzione di uno stretto rapporto cronologico tra le circostanze dedotte dal lavoratore (la trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo determinato; la caduta in malattia; il rientro al lavoro; il licenziamento senza reale giustificazione: il tutto nel volgere di circa un mese e mezzo) a rappresentare l'argomento chiave per individuare nel recesso in esame un atto vendicativo da parte del datore di lavoro. La vendetta, precisa ancora la sentenza, risulta giunta quale reazione ad un supposto “tradimento” attuato dal prestatore di lavoro, il quale invero si era limitato ad esercitare il proprio diritto di astenersi dal lavoro durante il periodo di malattia.

Come si è accennato, ricorre presso la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, una robusta corrente interpretativa propensa a riconoscere al lavoratore che alleghi la ricorrenza di un licenziamento ritorsivo una serie di agevolazioni nello svolgimento del compito probatorio gravante sul medesimo. Da qui, ne discende l'ammissione del ricorso alle presunzioni, pur rimanendo sulla parte ricorrente l'onere di indicare e provare gli specifici profili da cui far discendere l'intento di rappresaglia del comportamento datoriale.

Non mancano poi posizioni esegetiche ancora più avanzate, foriere di un sostanziale ribaltamento degli oneri probatori. Ci si intende riferire a quelle sentenze, tra cui si può citare la decisione della Corte di cassazione 7 novembre 2018, n. 28453, per cui l'allegazione della causale ritorsiva del licenziamento, effettuata dal lavoratore, non esime la controparte aziendale dalla prova della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con la conseguenza che solo nel caso in cui tale ultima prova sia fornita toccherà allora di nuovo al lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo. In tal modo, quello del prestatore di lavoro risulta essere un onere di prova successivo, per usare l'eloquente formulazione impiegata da una sentenza di merito (Tribunale Parma 1° febbraio 2018, n. 21) collocata nel filone interpretativo allo studio.

E' dubbio se la sentenza del Tribunale di Como in commento aderisca a tale esegesi: la particolarità della vicenda alla base della pronunzia, che ha visto la tardiva costituzione della parte datoriale, ha probabilmente impedito al Giudice di prendere posizione sul punto.

Va aggiunto che la corrente interpretativa che si è definita come più attenta a semplificare l'onere probatorio del lavoratore sembra ispirata a quelle pronunzie che hanno riconosciuto simili agevolazioni con riguardo alla prova del licenziamento discriminatorio. Questa assimilazione non appare però pienamente convincente.

In primo luogo, con riferimento al licenziamento discriminatorio, l'affermazione di una prassi conforme a quella testé descritta è stata favorita, se non proprio necessitata, da una pluralità di interventi legislativi (si pensi per esempio ai decreti legislativi nn. 215 e 216 del 2003 ed al Codice delle pari opportunità del 2006) diretti a facilitare il compito probatorio del lavoratore che assuma di essere stato discriminato, ciò in armonia con la produzione normativa eurounitaria dedicata a questo tema. Viceversa, nessun addentellato normativo simile è riscontrabile con riguardo al licenziamento ritorsivo. Di qui, discende anche la possibilità di suscitare una certa confusione tra le due ipotesi di licenziamento, così ponendo a rischio gli sforzi definitori di un'altra pregevole sentenza della Corte di cassazione, la n. 6575 del 5 aprile 2016. In quell'occasione, la Suprema Corte aveva chiarito la distinzione tra le fattispecie, affermando come il recesso discriminatorio sia espressione della violazione a divieti di discriminazione tipizzati e, proprio per tale ragione, da disciplinarsi sulla esclusiva base delle norme che tali divieti esprimono: una puntualizzazione avente riflessi altresì sul piano probatorio, in quanto da essa si desumeva la possibilità per il discriminato di limitare i propri compiti probatori alla dimostrazione di un trattamento differenziato e deteriore rispetto alla posizione di altro soggetto non portatore del medesimo fattore di differenziazione tipizzato dalla norma. Di nuovo, l'assimilazione pratica, quanto al regime della prova, tra recesso discriminatorio e ritorsivo sembra suscettibile di essere foriera di un'assimilazione altresì sul piano teorico tra i due vizi del licenziamento.

Guida all'approfondimento

In Giurisprudenza:

Corte di cassazione, Sezione Lavoro, 17 giugno 2020, n. 11705;

Corte d'appello di Roma, Sezione Lavoro, 19 febbraio 2020, n. 667;

Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, 11 febbraio 2019, n. 281;

Corte di cassazione, Sezione Lavoro, 7 novembre 2018, n. 28453;

Tribunale di Parma, Sezione Lavoro, 1° febbraio 2018, n. 21;

Corte di cassazione, Sezione Lavoro, 5 aprile 2016, n. 6575.

In dottrina:

AMOROSO, DI CERBO, MARESCA, Diritto del lavoro. Lo Statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti, V edizione, Milano, 2017;

CROTTI, Licenziamento della lavoratrice che si sottopone al procedimento di fecondazione assistita: la discriminazione opera obiettivamente, in Riv. it. rel. ind., 2016, pp. 855 ss.;

MARINELLI, Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito?, in Riv. it. dir. lav., 2017, pp. 735 ss.

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