Ai dipendenti della Pubblica Amministrazione collocati in smart working non spettano i buoni pasto: la decisione del Tribunale di Venezia

Marta Rossi Doria
30 Ottobre 2020

Poiché non rientranti nella nozione di “trattamento economico e normativo” che, ai sensi dell'art. 20, l. n. 81/2017, deve essere riconosciuto in regime di smart working, i buoni pasto non spettano ai dipendenti di enti locali che svolgono la propria prestazione in modalità di lavoro agile, caratterizzandosi quest'ultima per un'assenza di predeterminazioni orarie ed organizzative che la rende incompatibile con l'avverarsi dei presupposti necessari alla maturazione del beneficio.
Massima

Poiché non rientranti nella nozione di “trattamento economico e normativo” che, ai sensi dell'art. 20, l. n. 81/2017, deve essere riconosciuto in regime di smart working, i buoni pasto non spettano ai dipendenti di enti locali che svolgono la propria prestazione in modalità di lavoro agile, caratterizzandosi quest'ultima per un'assenza di predeterminazioni orarie ed organizzative che la rende incompatibile con l'avverarsi dei presupposti necessari alla maturazione del beneficio. Con tali argomentazioni il Tribunale di Venezia ha ritenuto non lesivo delle prerogative sindacali il comportamento dell'amministrazione comunale che aveva sospeso l'erogazione dei buoni pasto senza intavolare un confronto con le rappresentanze dei lavoratori.

Il caso

In ottemperanza alla legislazione di emergenza varata per far fronte all'epidemia da Covid-19, il Comune di Venezia ha collocato i propri dipendenti in lavoro agile (c.d. smart working), disponendo lo svolgimento della prestazione dal domicilio del lavoratore. Il medesimo Comune non ha peraltro ritenuto tale modalità di lavoro compatibile con il godimento dei buoni pasto, interrompendone la corresponsione senza previa contrattazione con le Organizzazioni Sindacali: tale comportamento è stato censurato dalla Federazione metropolitana della FP CGIL di Venezia che, ritenendo lese le prerogative sindacali, ha proposto ricorso ex art. 28 l. n. 300/1970 di fronte al Tribunale di Venezia domandando la condanna dell'ente datore convenuto a porre fine alla suddetta condotta.

La questione giuridica

Il caso sottoposto all'esame del Tribunale di Venezia richiede un duplice livello d'analisi: preliminare alla decisione sulla natura asseritamente antisindacale della condotta adottata dall'Ente, infatti, è una ricognizione tanto della normativa quanto delle pronunce di legittimità esistenti in tema di lavoro agilee buoni pasto, volta ad appurare la natura di questi ultimi ed i limiti connaturati alla debenza degli stessi. Procediamo dunque ad una sintetica analisi del quadro normativo di riferimento.

Il lavoro agile, che è stato da ultimo imposto come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni dall'art. 87, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 (recante “misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”), ha ottenuto riconoscimento giuridico in Italia solo in tempi recenti, con la l. n. 81 del 2017, il cui art. 20 ha riconosciuto ai lavoratori posti in smart working il diritto ad un “trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori i quali svolgono le medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda”.

Per quanto concerne i buoni pasto, il diritto alla loro fruizione da parte dei lavoratori degli Enti Locali è regolato dalla contrattazione collettiva, che ne subordina la maturazione a determinati requisiti di durata giornaliera della prestazione. In particolare, l'art. 26 del CCNL comparto Funzioni Locali dispone, al comma 1, che “qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui agli artt. 45 e 46 del CCNL del 14 settembre 2000”, i quali a loro volta stabiliscono che la possibilità di usufruire di mensa e buoni pasto spetti a quei dipendenti che prestano “attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti”, e chiariscono che il pasto vada consumato al di fuori dell'orario di servizio.

Venendo infine alla giurisprudenza di legittimità, fin da tempo risalente la Suprema Corte è intervenuta a chiarire la natura dei buoni pasto, escludendo che essi costituiscano elemento “normale” della retribuzione: il valore dei pasti, di cui il lavoratore può fruire in una mensa aziendale o presso esercizi convenzionati, rappresenta una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. n. 12168 del 1998, Cass. n. 11212 del 2003, Cass. n. 14290 del 2012, Cass. n. 16135 del 2020), non rientrante dunque nel trattamento retributivo in senso stretto (Cass. n. 10354 del 2016, Cass. n. 23303 del 2019, Cass. n. 16135 del 2020). Trattasi di un beneficio legato non alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma alle modalità concrete del suo svolgimento orario e quindi alla relativa organizzazione, essendo diretto a consentire il recupero delle energie psico-fisiche dei lavoratori con una pausa a ciò finalizzata: l'effettuazione della pausa pranzo è allora condizione per l'attribuzione del buono pasto, e tale effettuazione, a sua volta, come regola generale presuppone che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, sicché la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni (Cass. n. 31137 del 2019).

Le soluzioni giuridiche

Prendendo le mosse dalle disposizioni di cui all'art. 45 CCNL di comparto, che subordina l'esigibilità del buono ad un'organizzazione del lavoro secondo specifiche scadenze orarie ed alla consumazione del pasto al di fuori dell'orario di servizio, il giudice veneziano dichiara la radicale incompatibilità tra fruizione dei buoni pasto e modalità di lavoro agile. La libertà, riconosciuta al lavoratore, di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale fa infatti venir meno i presupposti necessari alla maturazione del beneficio. Per altro verso, a nulla può valere l'invocazione del diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le proprie mansioni all'interno dell'azienda se, come abbiamo visto, al buono pasto non è riconosciuta natura retributiva.

A difesa della propria tesi parte ricorrente aveva prospettato un ulteriore argomento, a contrario, rilevando come l'art. 87 del d.l. n. 18 del 2020, nel suo comma 3, disciplinando la diversa fattispecie dell'esenzione dal servizio (da disporsi nell'impossibilità di ricorrere al lavoro agile e di utilizzare gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti), avesse espressamente escluso la corresponsione dell'indennità sostitutiva di mensa: se ne deduceva che, in mancanza di analoga espressa esclusione dei buoni pasto, questi fossero senz'altro dovuti. Nella – del tutto condivisibile – argomentazione del Tribunale, tuttavia, dinnanzi alla prospettata incompatibilità logica, prima ancora che giuridica, tra buoni pasto e lavoro agile, il silenzio del legislatore non è sufficiente per consentire una differente ricostruzione.

Se, dunque, i buoni pasto non sono dovuti al dipendente di ente locale posto in smart working, la mancata corresponsione degli stessi non può essere oggetto di un obbligo di confronto con le sigle sindacali. Obbligo che, si noti, non impone e non può imporre il Ministero della Pubblica Amministrazione, il quale con circolare n. 2 del 1° aprile 2020 aveva fornito contrastanti indicazioni secondo cui “il personale in smart working non ha un automatico diritto al buono pasto”, ma “ciascuna P.A. assume le determinazioni di competenza in materia, previo confronto con le organizzazioni sindacali”. Oltre a non essere giuridicamente vincolante, il Tribunale di Venezia ha ritenuto tale ultima indicazione comunque priva di qualunque utilità, non potendosi neppure ipotizzare che si giunga a soluzioni differenti a seconda dell'esito del confronto sindacale.

In definitiva, non si è in presenza di un atto discrezionale del datore di lavoro in materia di organizzazione degli uffici, ma dell'applicazione del dettato normativo, che impone di ritenere incompatibile la fruizione del buono pasto con il lavoro del dipendente svolto dal proprio domicilio: in presenza di un atto “necessitato”, quale è la sospensione dell'erogazione del beneficio, nessun obbligo di informativa alle – né, tanto meno, di confronto con le – Organizzazioni Sindacali può utilmente configurarsi. Il comportamento antisindacale è dunque escluso, ed il ricorso respinto.

Osservazioni

È appena il caso di evidenziare che la nozione di “buono pasto” è cosa totalmente differente da quella di “indennità sostitutiva di mensa”, di cui il ricorrente si serve per proporre una improbabile argomentazione che, muovendo dall'esclusione di una specifica categoria – quella dei lavoratori esentati dal servizio – dal godimento della seconda, pretende di giungere ad un generale riconoscimento di spettanza dei primi. L'indennità sostitutiva di mensa è infatti un corrispettivo in denaro erogato direttamente in busta paga ad integrazione della retribuzione ordinaria (in quanto tale, di regola, interamente soggetto a tassazione e concorrente alla determinazione del reddito da lavoro dipendente del percettore), che il datore di lavoro può riconoscere ai propri dipendenti, alternativamente ai buoni pasto, laddove non sia presente un servizio di mensa aziendale. Tale possibilità di scelta è tuttavia preclusa ai dirigenti di Enti Locali, poiché l'art. 45 del CCNL di comparto del 14 settembre 2000, nel disciplinare il servizio mensa, esclude, al comma 6, ogni forma di monetizzazione indennizzante. Risulta pertanto di tutta evidenza come il richiamo alla circolare ministeriale (destinata alla Pubblica Amministrazione in generale) non sia confacente al caso di cui trattasi.

Altra confusione di concetti può facilmente aversi tra lavoro agile e telelavoro. Se con quest'ultimo le medesime responsabilità che si avrebbero sul posto di lavoro vengono permanentemente trasferite a casa del dipendente (o in altro luogo dal medesimo scelto per lo svolgimento in pianta stabile della propria attività), la l. n. 81/2017 ha viceversa introdotto una modalità lavorativa caratterizzata da assenza di vincoli a livello di orario e di spazio. Lo smart working è infatti descritto come una forma di organizzazione “per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”, nell'ambito della quale la prestazione è svolta “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18). Il c.d. diritto alla disconnessione, seppur non sancito in quanto tale (ovvero come garanzia della libertà del lavoratore di non essere permanentemente contattabile tramite gli strumenti tecnologici con cui opera), è pur sempre ventilato dall'art. 19, ove si stabilisce che l'accordo con cui dipendente e datore optano per il ricorso al lavoro agile debba individuare “i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Questa, la teoria. Il quadro normativo, specie in un contesto emergenziale che ha reso impossibile la stipula preventiva di tali accordi contrattuali, permetterebbe dunque al lavoratore di fruire della pausa pranzo in un arco temporale di propria elezione, di durata variabile, purché sia assicurato il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

La pratica deve tuttavia fare i conti con uno scenario caratterizzato da estrema urgenza e forte incertezza, che numerosi ostacoli ha posto all'attuazione dei buoni propositi di cui alla l. 81/2017. Non pochi sono stati i datori che, tradendo il dettato normativo, nell'affrettarsi a ricorrere al lavoro agile durante la fase emergenziale lo hanno interpretato quale una forma forzata di telelavoro, seguitando ad imporre rigidità orarie ed organizzative tali da rendere la prestazione svolta da casa perfettamente parificabile a quella che aveva luogo in sede. Ci si chiede, allora, fermi restando la natura non retributiva del buono pasto ed il carattere non vincolante delle indicazioni giunte da Palazzo Vidoni, se in un contesto del genere sia avveduto motivare il rigetto sostenendo che “quando la prestazione è resa in modalità di lavoro agile” i presupposti necessari per la maturazione del buono pasto (costituiti, come abbiamo visto, dall'organizzazione del lavoro secondo specifiche scadenze orarie e dalla consumazione del pasto al di fuori dell'orario di servizio) “non sussistono, proprio perché il lavoratore è libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale”.

Ulteriori perplessità genera la caustica affermazione con cui, in chiusura di provvedimento, il Tribunale di Venezia giudica “privo di qualunque utilità” l'invito del Ministero della P.A. ad assumere le determinazioni di competenza in materia previo confronto con le organizzazioni sindacali, “non potendosi neppure ipotizzare che si giunga a soluzioni differenti a seconda dell'esito del confronto sindacale”: l'asserzione pare quantomeno discutibile, se si tiene presente che in più d'un caso in cui confronto sul punto v'è stato le determinazioni cui esso ha condotto sono di segno opposto (ne è esempio l'accordo raggiunto tra l'amministrazione capitolina e le organizzazioni sindacali della funzione pubblica il 14 maggio 2020, con cui è stata riconosciuta ai dipendenti del Comune la regolare erogazione dei buoni pasto).

Il principio di diritto esposto nel decreto in commento è di particolare importanza poiché, prestandosi ad essere in futuro invocato anche dagli attori del settore privato, interessa un'altissima percentuale di rapporti lavorativi. Non è questa la sede adatta a fornire indicazioni sulle possibili ricadute che una sua applicazione generalizzata potrebbe implicare, esasperando il malcontento di quelle fasce di lavoratori, già fortemente provate in termini economici e di soddisfazione personale, la cui posizione professionale è stata più duramente colpita dagli avvenimenti degli ultimi mesi; ciò che ci si augura è che a questa prima, isolata pronuncia possano seguirne di ulteriori, per mezzo delle quali l'Autorità Giudiziaria si curi di approfondire, trattandola con maggior precisione, una materia tanto delicata.

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