Colloqui tra privati e intercettazioni telefoniche: la Cassazione forza i limiti
02 Novembre 2020
Massima
La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l'utilizzo di mezzi propri, anche qualora - ai fini dell'ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale - venga immediatamente girata alle forze dell'ordine già in tal senso previamente allertate dell'iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell'ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell'ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell'ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale. Il caso
Gli imputati, condannati in primo grado all'esito di giudizio abbreviato per i reati di usura ed estorsione aggravata, con pronuncia di colpevolezza confermata in grado d'appello, hanno presentato distinti ricorsi alla Suprema Corte di cassazione deducendo, tra i vari motivi di impugnazione, l'erronea e/o la falsa applicazione di legge e, in particolare, degli artt. 266 e 267 c.p.p., anche in relazione agli artt. 191, 268 e 271 c.p.p. I ricorrenti hanno altresì dedotto la nullità sia del decreto d'urgenza con cui il pubblico ministero aveva disposto l'intercettazione delle utenze telefoniche in uso agli indagati e ad una delle persone offese, sia del successivo decreto di convalida delle intercettazioni emesso dal giudice per le indagini preliminari. Entrambi i decreti, infatti, ad avviso degli impugnanti, erano motivati su un atto di indagine affetto da inutilizzabilità di tipo patologico. Le doglianze de quibus muovevano dal presupposto che la polizia giudiziaria avesse ascoltato e registrato, tramite un'applicazione alla stessa in uso, un colloquio personale intercorso tra uno degli indagati e una delle persone offese, dopo che queste ultime avevano sporto denuncia nei confronti del medesimo soggetto presso la Stazione dei Carabinieri di Ancona, per presunti fatti di usura. Detto colloquio era stato ascoltato in quanto la persona offesa aveva “girato” la telefonata alla polizia giudiziaria sull'utenza telefonica di servizio di un militare appartenente allo stesso Comando, proprio quando il predetto stava raggiungendo gli uffici della Procura della Repubblica di Ancona. A giudizio dei ricorrenti, nel caso di specie l'attività svolta dalle Forze dell'Ordine deve farsi rientrare a buon diritto nella disciplina di cui all'art. 266 e ss. c.p.p.; poiché le operazioni di ascolto (contestuale e remoto) sono state gestite dalla polizia giudiziaria che ha contemporaneamente captato e registrato, in tempo reale, la comunicazione, avvalendosi di apparecchiature alla stessa in uso, senza l'osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 c.p.p., la motivazione della Corte di appello è censurabile avendo considerato utilizzabili i risultati delle captazioni telefoniche, in spregio a quanto disposto dall'art. 271 del codice di rito penale. Altro motivo di doglianza è rappresentato dal fatto che la sentenza della Corte d'appello ha omesso di valutare e di richiamare la circostanza che la conversazione in questione non solo è stata ascoltata “in diretta” e da remoto da parte delle Forze dell'Ordine, ma è stata contestualmente registrata su supporto magnetico, peraltro mediante utilizzo di apparecchiature e di linee telefoniche in uso agli inquirenti, senza che fosse stato in quel momento ancora emesso alcun provvedimento autorizzativo delle intercettazioni da parte dell'autorità giudiziaria. La ricorrente non interlocutrice del colloquio captato e registrato dalle Forze dell'Ordine ha lamentato, inoltre, l'erronea e/o la falsa applicazione dell'art. 267 c.p.p., anche in relazione agli artt. 125, 268 e 271 c.p.p. eccependo come, alla data di emissione del decreto di convalida, il proprio nome non risultasse neppure iscritto nel registro delle notizie di reato con riferimento al procedimento penale per il quale erano state disposte le intercettazioni d'urgenza. Inoltre - sempre a giudizio dell'impugnante estranea al predetto colloquio - anche il provvedimento di convalida del decreto di intercettazione di urgenza era motivato su elementi esclusivamente riferibili al coindagato, oltre che fondato - come già detto - su un atto di indagine affetto da inutilizzabilità patologica. La questione
La questione sottoposta allo scrutinio della suprema Corte di cassazione può essere sintetizzata nei seguenti termini: qual è il regime di utilizzabilità delle registrazioni di conversazioni eseguite dal privato vittima di condotte estorsive o usurarie? E, soprattutto, si può considerare un discrimine tra prova documentale “pura” e documentazione di attività d'indagine il fatto che la captazione del privato avvenga d'intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchiature da questa fornite? Su quest'ultimo punto, infatti, come precisato dalla decisione in disamina, persiste un mai sopito contrasto interpretativo all'interno della giurisprudenza di legittimità. Un primo orientamento qualifica, invero, come prova documentale utilizzabile in dibattimento e liberamente valutabile dal giudice ai sensi dell'art. 192 c.p.p. - e non come intercettazione “ambientale” - la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, eseguita d'iniziativa da uno dei soggetti che partecipa al colloquio, anche quando essa avvenga su impulso della polizia giudiziaria e/o con strumenti forniti da quest'ultima con la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio (in questi termini Cass. pen., Sez. II, 21 gennaio 2016, n. 3851). Un diverso orientamento, invece, considera la registrazione di conversazioni effettuata da un privato, mediante apparecchio collegato con postazioni ricetrasmittenti attraverso le quali la polizia giudiziaria - soggetto estraneo alla conversazione - procede all'ascolto delle stesse e alla contestuale memorizzazione, quale operazione di intercettazione di conversazioni ad opera di terzi, come tale soggetta alla disciplina autorizzativa dettata dall'art. 266 e ss. c.p.p., con la conseguente inutilizzabilità probatoria di tale registrazione, ove preceduta dalla sola autorizzazione del pubblico ministero (di questo avviso Cass. pen., Sez. III, 23 marzo 2016, n. 39378). Propendono per l'inutilizzabilità delle registrazioni effettuate d'intesa con gli inquirenti, in assenza di un provvedimento motivato di autorizzazione del giudice o di decreto dispositivo del pubblico ministero, ex multis, anche Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084 e Cass. pen., Sez. III, 23 marzo 2016, n. 39378. Le soluzioni giuridiche
Secondo la sentenza in commento, nella fattispecie concreta scrutinata dalla suprema Corte non può esservi spazio per alcun dubbio interpretativo: i Carabinieri non hanno compiuto alcun atto di indagine, non hanno sollecitato la persona offesa a registrare il colloquio intercorso con uno dei due indagati, né le hanno fornito un registratore; le Forze dell'Ordine - a giudizio della Corte di cassazione - si sono limitate a ricevere una telefonata della persona offesa - che le ha coinvolte perché ascoltassero il colloquio in corso con l'indagato e “di cui i Carabinieri nulla sapevano” - e hanno provveduto a registrare detto colloquio. La registrazione de qua, prosegue il supremo Consesso, “va ritenuta come una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione” (così Cass. pen., Sez. II, 6 ottobre 2016, n. 50986; cfr. anche, Cass. pen., Sez. VI, 3 ottobre 2017, n. 1422; Cass. pen., Sez. VI, 5 ottobre 2017, n. 53375; Cass. pen., Sez. V, 11 giugno 2018, n. 41421; Cass. pen., Sez. V, 11 febbraio 2019, n. 13810 e Cass. pen., Sez. VI,17 dicembre 2019, n. 5782). Quale prova di resistenza della propria decisione la Corte ha precisato che nulla sarebbe cambiato qualora i Carabinieri, dopo aver ascoltato (legittimamente) il colloquio, ne avessero verbalizzato il contenuto (pur senza trascriverlo). Da qui l'affermazione del seguente principio di diritto: “La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l'utilizzo di mezzi propri, anche qualora - ai fini dell'ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale - venga immediatamente girata alle forze dell'ordine già in tal senso previamente allertate dell'iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell'ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell'ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell'ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale”. Sulla scorta delle predette argomentazioni la Corte ha dichiarato manifestamente infondati i sopra enunciati motivi di ricorso - dedotti da entrambi gli impugnanti e concernente l'erronea e/o la falsa applicazione degli artt. 266 e 267 c.p.p., anche in relazione agli artt. 191, 268 e 271 c.p.p. - e per l'effetto ha considerato assorbiti gli ulteriori profili di doglianza in ordine alla pretesa illegittimità del decreto di convalida delle intercettazioni e della conseguente inutilizzabilità dei risultati dell'attività di captazione. Osservazioni
La decisione che si annota muove da un incipit di ampio respiro, evocando anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e ricostruendo la nozione di intercettazione, alla luce di quanto enunciato dalle Sezioni Unite Torcasio (Cass. pen., Sez. Unite, 28 maggio 2003, n. 36747) e del contributo offerto dalla dottrina, considerato che la disciplina positiva del nostro ordinamento interno non fornisce una definizione del mezzo di ricerca della prova in esame. La pronuncia de qua postula, inoltre, che il legislatore, da un lato, e la giurisprudenza, dall'altro, integrino il quadro normativo ed il diritto vivente alla luce del progresso scientifico e tecnologico. Se le premesse della motivazione parrebbero far presagire l'emissione di una pronuncia in linea quantomeno con i diktat della Corte costituzionale enunciati nella sentenza del 4 aprile 1973, n. 34 - secondo cui la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione può essere limitata soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge - in realtà lo (scarno) sviluppo della decisione e, soprattutto, l'approdo ermeneutico cui giunge la suprema Corte, tradiscono le aspettative del lettore. È ben nota la delicatezza della materia in ragione del difficile bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco: l'esigenza investigativa di accertamento dei reati e l'interesse pubblicistico alla non dispersione della prova da una parte, e la tutela dei diritti di personalità, ex art. 2 Cost., e delle libertà fondamentali di cui all'art. 15 Cost. dall'altra parte. Per contemperare detti antitetici interessi è necessario non solo rimettere all'autorità giudiziaria la decisione in ordine alla sussistenza dei presupposti che legittimano il ricorso all'intercettazione, ma anche garantire alla medesima autorità il controllo necessario “ad evitare che gli organi deputati alla esecuzione delle operazioni di intercettazione ed al relativo ascolto possano operare controlli sul traffico telefonico, al di fuori di una specifica e puntuale verifica da parte dell'autorità giudiziaria” (Corte Cost., 29 dicembre 2004, n. 443). Orbene, è certamente vero che il supremo Consesso a Sezioni Unite dopo aver stabilito che le intercettazioni “consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l'intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato”, ha altresì ritenuto “che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa” (in questi esatti termini Cass. pen., Sez. Unite, 28 maggio 2003, n. 36747). È altresì vero, però, che nel caso che ci occupa, la suprema Corte, nel considerare la fattispecie concreta non afferente alla “casistica della documentazione di un atto di indagine, come tale sottoposto al regime autorizzatorio dell'art. 266 c.p.p.”, pare aver risolto la questione troppo frettolosamente e, soprattutto, in modo eccessivamente formalistico. Ed infatti, seppure abbia dato atto dell'attuale contrasto interpretativo in merito alla valenza da attribuire alla registrazione fonografica di captazioni del privato, avvenute d'intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchiature da questa fornite - e cioè se considerarla prova documentale “pura” o documentazione di attività di indagine - la decisione in disamina non ha fatto buon governo dei richiamati principi che regolano la materia delle intercettazioni telefoniche, ma anzi pare aver legittimato l'elusione, o quantomeno l'aggiramento, delle garanzie poste a presidio di diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti. E invero poiché la telefonata tra privati è stata “girata” dalla persona offesa ai Carabinieri affinché la ascoltassero e dagli stessi è stata registrata mediante apposita “app”, nel precisare che “i Carabinieri non effettuarono alcun atto di indagine, né sollecitarono la persona offesa a registrare il colloquio […] né le fornirono alcun registratore”, la suprema Corte ha oltremodo minimizzato la portata dell'ingerenza delle Forze dell'Ordine nel colloquio tra la persona offesa e l'ignaro interlocutore, sottoposto ad indagine. Se non può essere revocato in dubbio che debba etichettarsi come “prova documentale” la registrazione della telefonata da parte della persona offesa che consegni alla polizia giudiziaria il supporto (CD/DVD, pen drive o hard disk) contenente il file audio della conversazione di interesse investigativo (in questo senso, ex plurimis, cfr. Cass. pen., Sez. VI, 17 dicembre 2919, n. 5782; Cass. pen., Sez. II, 6 ottobre 2016, n. 50986 e Cass. pen., Sez. V, 29 settembre 2015, n. 4287), non può, invece, a giudizio di chi scrive, giungersi alla medesima conclusione nell'ipotesi in cui l'iniziativa della registrazione fonografica venga adottata dalla polizia giudiziaria. È del tutto evidente, invero, che mentre nel primo caso manchino sia un terzo captante (poiché è lo stesso interlocutore che effettua la registrazione), sia l'impiego di congegni di percezione del suono, in quest'ultima fattispecie si assiste, invece, ad una vera e propria documentazione di attività di indagine, che incide peraltro, come detto, sul diritto alla segretezza delle conversazioni, che è considerato inviolabile dall'art. 15 Cost. e, in quanto tale, è comprimibile solo per atto dell'autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge. Nel caso di specie, nella parte motiva della sentenza la suprema Corte ha dato atto che la registrazione della conversazione è stata eseguita dai Carabinieri e ciò solo pare sufficiente ad escludere che la predetta possa essere legittimamente ritenuta “come una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contento del supporto magnetico contenente la registrazione”. Non può tacersi, inoltre, come il principio di diritto enunciato nella sentenza in commento presuppone che la registrazione di conversazioni sia avvenuta “da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi”, su iniziativa esclusiva dello stesso, mentre è innegabile che nel caso che ci occupa l'iniziativa della registrazione della conversazione sia riconducibile alla polizia giudiziaria, che non si è limitata ad ascoltare la conversazione “giratale” dalla persona offesa, ma ha altresì provveduto prima a registrarne il contenuto e, successivamente, a trascriverlo. Emerge, dunque, un evidente contrasto tra le premesse contenute nel richiamato principio di diritto e la decisione assunta nel caso concreto, atteso che la registrazione da parte del privato deve essere effettuata - secondo quanto testualmente stabilito dalla pronuncia in disamina - “su iniziativa esclusiva, in quanto nè sollecitata nè in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l'utilizzo di mezzi propri”, mentre nel caso di specie la “telefonata veniva ascoltata e registrata da parte della polizia giudiziaria tramite l'applicazione “(OMISSIS”)” alla stessa in uso. Alle predette considerazioni si aggiunge, altresì, la circostanza che la suprema Corte parrebbe voler ricondurre all'alveo delle intercettazioni unicamente le registrazioni eseguite su impulso della polizia giudiziaria, escludendo tutte le altre ipotesi in cui, pur in assenza di autorizzazione del giudice, si registrino le conversazioni avvalendosi di strumenti di captazione predisposti dalla polizia giudiziaria. Detta interpretazione ermeneutica, che considera pienamente utilizzabili le registrazioni siffatte allorquando le Forze dell'Ordine non abbiano specificamente sollecitato la vittima del reato all'irrituale operazione intercettativa, parrebbe legittimare un pericoloso e “surrettizio aggiramento delle regole che impongono strumenti tipici per comprimere la segretezza delle comunicazioni costituzionalmente protetta”, in passato scongiurato dalla stessa giurisprudenza della Cassazione (Cass. pen., Sez. VI, 6 novembre 2008, n. 44128). E ciò senza dire che, nel caso di specie, la polizia giudiziaria ha assunto una posizione di apparente estraneità, considerato che, come si legge nella decisione: la persona offesa aveva già sporto la denuncia per asseriti fatti di usura nanti la Caserma dei Carabinieri a cui afferiva il militare che ha poi effettuato l'ascolto e la registrazione della conversazione intercorsa tra la presunta vittima del reato e l'indagato; la persona offesa conosceva il numero del telefono portatile in uso al predetto militare, tanto è vero che su quel numero specifico gli ha “girato” la conversazione intercorsa tra sé e la persona sottoposta alle indagini; il militare, come detto, non solo ha ascoltato la conversazione, ma ha anche provveduto alla registrazione della stessa tramite apposita “app” installata sul proprio cellulare. Ciò parrebbe escludere che l'iniziativa della registrazione sia riconducibile in via esclusiva alla persona offesa, potendo in realtà supporsi che la stessa sia stata assunta di concerto con la polizia giudiziaria, anche se - è innegabile - attribuire l'onere della prova di una simile circostanza alla difesa dell'imputato si tradurrebbe francamente in una probatio diabolica. Del resto il fatto che, come riconosciuto dalla sentenza, le Forze dell'Ordine siano state previamente allertate dell'iniziativa conferma che si era innescata una dinamica investigativa, volta a percepire il contenuto di flussi di comunicazioni riservate in via immediata e contestuale e tanto vale ad attribuire un'impronta genetica (oltre che la regia) dell'operazione alla polizia giudiziaria. Si ripropongono quindi, mutatis mutandis, i dubbi sorti in passato e legati alla legittimità o meno della registrazione di una conversazione riservata, eseguita da un c.d. “agente segreto attrezzato per il suono”. Anche nel caso che ci occupa, infatti, l'atto è strumentale a fini investigativi e il ruolo in concreto svolto dalle Forze dell'Ordine influisce (rectius condiziona) l'alternativa dell'indagato tra esercitare il diritto al silenzio o rendere dichiarazioni. Per questo motivo, a giudizio di chi scrive, la registrazione così acquisita non può considerarsi “documento”, ma rappresenta piuttosto la documentazione di un'attività di indagine. Le norme sui documenti contenute nel codice di rito fanno esclusivamente riferimento, infatti, ai documenti nati fuori dal procedimento e comunque a quelli che non siano formati in vista ed in funzione di esso, come chiarito dalle Sezioni Unite nel precisare la differenza tra la nozione di “documento” e quella di “atto del procedimento” (Cass. pen., Sez. Unite, 28 marzo 2006, n. 26795). Da ciò consegue che la registrazione dovrebbe considerarsi inutilizzabile, sia perché viola il divieto di ingerenza della pubblica autorità nella vita privata, sancito dall'art. 8 della CEDU, sia perché è elusiva delle norme processuali del nostro ordinamento interno, poste a presidio della tutela della libertà morale del cittadino di fronte a tecniche di subdola persuasione (tra cui si annoverano sia l'art. 188 c.p.p., che vieta «metodi e tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione», sia l'art. 62 c.p.p., che esclude che possano formare oggetto di testimonianza «le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini». Il rischio concreto è che, in assenza di un deciso cambio di rotta della giurisprudenza di legittimità, si sottovaluti l'inarrestabile evoluzione del progresso scientifico e, soprattutto si minimizzino i rischi legati all'insidioso utilizzo, a fini processuali, di software ed apparati smart dalle elevate potenzialità intrusive nella sfera privata,con buona pace sia dei diritti - tutelati non solo a livello nazionale, ma anche sovranazionale - sia delle garanzie. A. BARGI, voce Intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, in Dig. disc. pen., III, Agg., t. I, Torino, 2005, 788 ss.; A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996; F. DECAROLI, Revirement sulle registrazioni con mezzi forniti dalla polizia giudiziaria, in Dir. pen. e proc., 2009, 1274 ss.; P. GAETA, Per utilizzare registrazioni tra presenti fatte dalla Pg è sufficiente un decreto del pubblico ministero. E' minore l'intrusione nella vita privata rispetto alla pura attività intercettativa, in Guida dir., 2010, 38, 75 ss.; G. LEO, Necessario il provvedimento autorizzativo dell'Autorità giudiziaria per il ricorso al cd. «agente segreto attrezzato per il suono», in Dir. pen. e contemporaneo, 2012, 1, 163 ss.;L. FILIPPI, L'intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997; ID., Le Sezioni unite decretano la morte dell'agente segreto “attrezzato per il suono”, in Cass. pen., 2004, 2094 ss.; ID., voce Intercettazioni telefoniche (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. VI, Agg., Milano 2002, 565 ss.
Il presente lavoro è frutto di una ricerca dal titolo “L'Inutilizzabilità della prova nel processo penale”, finanziata dalla Fondazione Banco di Sardegna.
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