Licenziamento “indotto” dal lavoratore e trattenuta del contributo “Naspi”

Riccardo Maraga
04 Novembre 2020

Nell'ipotesi in cui il lavoratore, anziché dimettersi, mette il datore di lavoro nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo, è legittima la compensazione a-tecnica operata dal datore di lavoro che trattiene dalle competenze di fine rapporto spettanti al lavoratore l'importo erogato all'Inps a titolo di “contributo Naspi”.
Massima

Nell'ipotesi in cui il lavoratore, anziché dimettersi, mette il datore di lavoro nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo, è legittima la compensazione a-tecnica operata dal datore di lavoro che trattiene dalle competenze di fine rapporto spettanti al lavoratore l'importo erogato all'Inps a titolo di “contributo Naspi”.

Il caso

Il Tribunale di Udine, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, ha recentemente affrontato il caso di un lavoratore che, di fronte al rifiuto del datore di lavoro di licenziarlo – come da lui richiesto – per poter accedere all'indennità di disoccupazione Naspi, si è deliberatamente assentato dal lavoro senza giustificazione al fine di ottenere un provvedimento di licenziamento per giusta causa.

Nel caso de quo il datore di lavoro, operando una compensazione a-tecnica o impropria, aveva trattenuto dalle spettanze di fine rapporto maturate dal lavoratore un importo a titolo di risarcimento del danno subito.

In particolare, secondo il datore di lavoro, il lavoratore, con la sua condotta, gli aveva determinato un danno patrimoniale, pari agli importi erogati all'Inps per il pagamento del c.d. “contributo Naspi” ed al consulente del lavoro per l'attività di assistenza svolta nella gestione del licenziamento disciplinare del dipendente.

Inoltre, il datore di lavoro lamentava anche la causazione, da parte del lavoratore, di ulteriori danni cagionati dalla negligenza con cui era stata data esecuzione alla prestazione lavorativa.

La questione giuridica

Il caso sottoposto all'attenzione del Tribunale di Udine è di particolare interesse in quanto analizza una fattispecie che si verifica sovente nell'ambito dei rapporti di lavoro.

L'indennità di disoccupazione Naspi (artt. 1 ss., d.lgs. n. 22/2015), come noto, non spetta in tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro ma solo in caso di perdita involontaria del lavoro. Ne consegue che le dimissioni volontarie del lavoratore (salvo il caso delle dimissioni rese dalla lavoratrice madre nel periodo protetto di maternità di cui all'art. 54, d.lgs. n. 151/2001) non danno diritto al predetto emolumento.

La volontà di accedere al trattamento economico di disoccupazione spinge, talvolta, i lavoratori a cercare di ottenere dal datore di lavoro una modalità di cessazione del rapporto di lavoro che consenta l'ottenimento della Naspi, talvolta forzando la reale dinamica che conduce alla conclusione del contratto di lavoro.

Non vi è dubbio che uno degli escamotage più utilizzati per pervenire all'obiettivo di ottenere la Naspi sia la prolungata assenza ingiustificata del lavoratore. Capita, a volte, che il dipendente interrompa bruscamente la propria presenza al lavoro, senza lasciare alcuna traccia di sé.

In tali ipotesi al datore di lavoro non resta che avviare un procedimento disciplinare a carico del lavoratore (art. 7, l. n. 300/1970) con il quale viene contestata al dipendente la propria condotta e, in particolare, il protrarsi dell'assenza ingiustificata per un certo numero di giorni. Terminato l'iter disciplinare il datore di lavoro procede al licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. del lavoratore.

Non vi è dubbio che una simile condotta del dipendente, gravemente lesiva dei più elementari obblighi di correttezza e buona fede che devono sempre informare l'esecuzione del contratto di lavoro, possa potenzialmente produrre un danno al datore di lavoro.

Con riferimento al danno patrimoniale, in particolare, l'essere stato di fatto indotto ad assumere un provvedimento espulsivo (nonostante, di fatto, la scelta di cessare il rapporto di lavoro sia da ricondurre alla esclusiva volontà del lavoratore) rende necessario, per il datore di lavoro, il pagamento del c.d. “contributo Naspi”.

Si tratta di un contributo che deve essere erogato dal datore di lavoro all'Inps in ogni ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro in cui sia assente la volontà del lavoratore.

Per l'anno 2020, il “ticket Naspi” è pari a 503,30 euro (41% di 1.227,55 euro) per ogni anno di lavoro effettuato, fino ad un massimo di 3 anni (l'importo massimo del contributo è pari a 1.509,90 euro – arrotondato alle 2 cifre – per rapporti di lavoro di durata pari o superiore a 36 mesi).

Il contributo deve essere calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale e senza operare alcuna distinzione tra tempo pieno e part-time. Infine, vanno calcolati i mesi superiori a 15 giorni: la quota mensile è pari a 41,94 euro/mese (503,30/12).

Il contributo va versato, in un'unica soluzione, entro il giorno 16 del secondo mese successivo al licenziamento.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Udine ha giudicato corretto il comportamento tenuto dal datore di lavoro che, essendo stato di fatto obbligato a licenziare il dipendente per giusta causa a fronte della sua deliberata decisione di non presentarsi più al lavoro, aveva trattenuto dalle spettanze finali dovute al lavoratore i danni provocati dall'illegittimo comportamento di quest'ultimo e, in particolare, l'esborso effettuato a favore dell'Inps a titolo di “ticket Naspi”.

Secondo il Tribunale friulano, infatti, una volta provato che il lavoratore ha deciso di non presentarsi al lavoro per perseguire lo scopo specifico di farsi licenziare ed ottenere, così, la Naspi "le spese sostenute da [...] per dare (involontariamente) corso alla decisione di recesso assunta dal lavoratore non possono che essere addossate a quest'ultimo e, nello specifico, il [...] sarà tenuto a corrispondere alla ricorrente le somme da questa spese a titolo di cd. ticket licenziamento (Euro 1.469,00). Il cd. ticket per il licenziamento è infatti un onere che la [...] ha dovuto sopportate esclusivamente perché il [...], anziché dimettersi, senza costi per l'azienda, l'ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo”.

Il Tribunale ha considerato legittimo anche il modus operandi seguito dalla Società, ossia, l'operazione di compensazione a-tecnica effettuata direttamente in busta paga tra crediti retributivi del dipendente e credito del datore di lavoro per il danno subito. Secondo il giudice, infatti, aderendo ad un orientamento diffuso anche presso la Corte di cassazione (cfr. da ultimo, Cass. 26 aprile 2018, n. 10132). “È noto infatti che è configurabile tale forma di compensazione qualora reciproci crediti e controcrediti accertati trovino origine in un unico rapporto, quale, nella specie, il rapporto lavorativo intercorso tra [...] e [...] S.r.l.”.

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