Licenziamento per g.m.o.: il manifesto inadempimento dell'obbligo di repêchage datoriale può comportare l'applicazione della tutela reintegratoria
06 Novembre 2020
Massima
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, oltre all'allegazione della causale giustificatrice di base, il datore di lavoro è tenuto a giustificare l'esercizio del suo potere anche mediante la dimostrazione di non aver potuto credibilmente procedere alla ricollocazione del dipendente da estromettere.
Per descrivere meglio la nozione di manifesta insussistenza degli estremi del g.m.o. - ormai pacificamente vagliabile in rapporto ai due fondamentali snodi di cui si esprime quel tipo di prerogativa di recesso – spiccano definizioni, tra le tante, come “evidente e facilmente verificabile” assenza di (almeno uno) dei presupposti giustificativi del recesso e che, al riguardo, non si possa trattare di una evidenza che emerge dagli atti e/o da qualche altro appiglio logico o istruttorio embrionale, come avviene nel caso della giurisdizione cautelare ove basta qualcosa di meno dell'accertamento, come la semplice verosimiglianza, bensì di una risultanza da appurare a cognizione piena anche attraverso l'attività istruttoria, è un dato che si evince dal valore del sistema delle prove nel processo, prove utili, appunto, anche a fare apparire un dato, un fatto oppure una circostanza come evidenti ossia manifesti.
Il caso
Una lavoratrice addetta alle vendite con funzioni di shopkeeper presso una nota società multinazionale, con sedi sparse anche su tutto il territorio italiano, impugna, con ricorso ex art. 1, comma 48, l. n. 92/2012, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comminatole dall'azienda, invocandone, in via principale, la nullità perché sorretto da motivo ritorsivo o illecito ed, in via subordinata, l'illegittimità per manifesta insussistenza del g.m.o. addotto, con conseguente applicazione delle massime tutele previste dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Sostiene, in particolare, la lavoratrice come, con riferimento alla prima censura di nullità, la ritorsività o illiceità del motivo determinante l'operata risoluzione lavorativa andasse rinvenuta nella reazione datoriale al rifiuto, espresso dalla dipendente in sede di colloquio antecedente il comminato licenziamento, di accettare l'uscita dall'azienda con esodo incentivato congiunto ad un'offerta di un outplacement in Milano. Con riferimento, invece, al profilo del giustificato motivo paventato dalla datrice, la ricorrente ne evidenzia la manifesta insussistenza, sia sotto il profilo della lamentata assenza, nel caso sub iudice, della causale riorganizzativa contemplata dall'ultima parte dell'art. 3 l. n. 604 del 1966, sia sotto il profilo del mancato assolvimento dell'obbligo di repechage da parte datoriale, deducendo l'esistenza di diverse posizioni lavorative in seno all'azienda in cui poter essere ricollocata.
il Tribunale di Milano, dunque, con ordinanza emessa sulla base delle risultanze documentali, esclusa l'ipotesi dell'invocata nullità del licenziamento per motivo ritorsivo o illecito, aveva deciso stabilendo la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo per difettoso adempimento aziendale dell'obbligo di repechage, riconducendo quindi il caso a quello contemplato dal secondo periodo del comma 7 dell'art. 18 l. n. 300/70 sotto forma di accertamento della non manifesta insussistenza del fatto posto a base del tipo di recesso adottato dall'azienda e, come tale, sottoposto solo alla forma di tutela indennitaria di cui al comma quinto dell'articolo 18, con conseguente declaratoria di risoluzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna della società a corrispondere un'indennità risarcitoria pari alla misura massima di 24 mensilità retributive oltre ad accessori e con spese di lite a carico dell'impresa.
Proponevano, pertanto, opposizione contro l'ordinanza conclusiva della fase sommaria entrambe le parti, invocando rispettivamente: la lavoratrice, la declaratoria di nullità del comminato licenziamento ed, in via gradata, la manifesta infondatezza del g.m.o. con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell'art. 18 l. n. 300/70; l'azienda, invece, il rigetto delle avverse pretese con riconoscimento della correttezza dell'operato datoriale e della sussistenza e validità del giustificato motivo di licenziamento addotto, accompagnata dalla richiesta restitutoria dell'indennità corrisposta ed, in subordine, dall'istanza di contenimento della stessa nel minimo di legge.
Il Tribunale di Milano, tuttavia, respingeva entrambe le opposizioni, confermando la pronuncia assunta nella fase sommaria relativa alla inesistenza dei presupposti integranti l'invocata nullità del licenziamento per ritorsività o illiceità dello stesso, in uno al positivo accertamento dell'insussistenza del giustificato motivo oggettivo, per infruttuoso assolvimento datoriale dell'onere di dimostrare l'impossibilità di repechage della lavoratrice in seno all'organizzazione aziendale.
Avverso tale statuizione presentavano reclamo entrambe le parti, riproponendo sostanzialmente all'attenzione della Corte d'appello di Milano, le medesime censure espresse in sede di opposizione. La questione
La decisione in esame affronta la questione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con particolare riferimento al profilo inerente la manifesta insussistenza dello stesso nella sua doppia connotazione, riguardante sia la ragione causale di natura oggettiva posta a fondamento della scelta risolutiva sia l'obbligo di repechage datoriale, con conseguente individuazione della tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18 della l. n. 300/70 (Statuto dei lavoratori). La soluzione giuridica
La Corte d'appello di Milano ha accolto il reclamo proposto dalla lavoratrice, riconoscendo il manifesto inadempimento dell'obbligo di repechage da parte della datrice di lavoro e l'invocata applicazione della tutela apprestata dal comma 4 dell'art. 18 della l. n. 300/70, con condanna dell'azienda all'immediata reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro ed alla corresponsione, in luogo di quelle stabilite nella pronuncia impugnata, di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, maggiorate di rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme rivalutate dalla data del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione oltre al versamento degli oneri previdenziali e assistenziali presso i competenti enti pubblici.
Secondo la Corte territoriale, invero, se, per un verso, la datrice di lavoro aveva dimostrato l'effettiva attuazione, a livello nazionale e locale, di un processo di organizzazione produttiva coinvolgente anche il posto ricoperto dalla dipendente presso la sede aziendale barese (così ritenendo sussistenti ed integrate le ragioni oggettive poste a fondamento del comminato licenziamento), per altro verso non poteva ritenersi assolto, da parte datoriale, l'onere probatorio circa l'esperimento del obbligo di repechage, una volta rivelati inconsistenti i rilievi difensivi della società sul mancato reperimento, da parte della dipendente, di altra posizione lavorativa tramite il sistema del Job posting, senza che di converso l'impresa avesse dimostrato l'inesistenza, non solo a livello locale, di altre posizioni in cui poter utilmente applicare l'addetta, mediante o senza il citato metodo di selezione.
Pertanto, posto che “nell'ottica di giustificato motivo oggettivo, oltre all'allegazione della causale giustificatrice di base, che si è visto essere stata fondatamente fatta valere, la datrice di lavoro era tenuta (dall'altro lato della medaglia) a giustificare l'esercizio del suo potere anche mediante la dimostrazione di non aver potuto credibilmente procedere alla ricollocazione della dipendente da estromettere", il Giudice di appello ha ritenuto di riconoscere l'operatività della tutela reintegratoria, prevista dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell'art. 18 l. n. 300/70 per i casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». La pronuncia in esame ci consente di operare una complessiva rilettura del requisito del repechage, come componente coessenziale dell'impianto strutturale posto a fondamento della figura del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quale opzione risolutiva del rapporto lavorativo strettamente connessa alla sussistenza di esigenze oggettive inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa.
Come è noto, invero, i presupposti di legittimità del recesso in commento non si esauriscono nella necessaria ed imprescindibile verifica preliminare della effettività e non pretestuosità del giustificato motivo oggettivo che determina il ricorso alla fattispecie risolutoria, ma ineriscono, a pieno titolo, anche alla valutazione del puntuale assolvimento, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di ricercare la possibilità di concreta ricollocazione occupazionale endoaziendale del dipendente, così che la scelta di estromissione possa qualificarsi, a ragione, come l'unico esito possibile della vicenda lavorativa in essere tra le parti.
Ciò perché se, per un verso, il licenziamento, quale extrema ratio, presuppone l'inesistenza di soluzioni alternative comunque coerenti con le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa che hanno indotto il datore di lavoro ad optare per il rimedio risolutivo del rapporto, per altro verso è indubbio che la sussistenza di un nesso causale diretto tra l'esigenza oggettiva e la concreta posizione occupazionale rivestita dal lavoratore in azienda assurga ad elemento dimostrativo dell'obiettiva incidenza della scelta datoriale sulla specifica posizione lavorativa del soggetto attinto dalla decisione interruttiva del rapporto.
In tal senso, dunque, l'indirizzo che ritiene come, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento riguardi entrambi i presupposti di legittimità del recesso (e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di repechage del lavoratore), affonda le proprie radici argomentative sul dato letterale dell'art. 3, l. n. 604/1966, per cui in assenza di una limitazione testuale alle sole «ragioni» della impresa, la valutazione de qua deve necessariamente ricomprendere l'intero «fatto giuridico» e, dunque, la complessiva nozione di giustificato motivo oggettivo nella sua doppia componente, come risultante dagli interventi di conio ed elaborazione giurisprudenziale.
Il problema, a questo punto, ricade allora sulla tipologia di tutela applicabile per le ipotesi di accertata violazione dell'obbligo di repechage datoriale (e, peraltro, a caduta, anche sul connesso profilo di rinvenuta carenza sostanziale piuttosto che probatoria), con particolare riferimento all'operatività della tutela reintegratoria, prevista dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell' articolo 18 per i casi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo», ovvero della sola previsione indennitaria disposta per gli «altri casi» in cui «non ricorrono gli estremi del giustificato motivo».
Il nodo gordiano risiede, dunque, nella concreta individuazione delle ipotesi in cui la violazione dell'obbligo di repechage possa dirsi “manifesta”.
In passato, infatti, si è spesso sostenuto che, nei casi di insufficienza probatoria in ordine al positivo adempimento dell'obbligo di repechage datoriale (sia per l'ipotesi di assenza assoluta di prova, sia per il caso di prova dubbia, sia infine per l'ipotesi di acquisizione della prova positiva contraria), il licenziamento, pur risultando certamente illegittimo a causa del mancato assolvimento dell'onere posto a carico del datore di lavoro (come previsto dall'art. 5 l. n. 604/1966), non arrivasse in ogni caso ad integrare la forma della «manifesta insussistenza del fatto», con conseguente applicabilità della sola tutela indennitaria.
Oggi, invece, la giurisprudenza sembra voler allargare, di molto, il campo di operatività della previsione in parola, evidenziando come la tutela reintegratoria debba essere applicata a fronte di «una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso» ed è proprio in tale solco che si inscrive la pronuncia in commento.
La Corte di appello di Milano, infatti, dopo aver riconosciuto l'intervenuta dimostrazione datoriale dell'effettiva attuazione, a livello nazionale e locale, di un processo di organizzazione produttiva coinvolgente anche il posto ricoperto dalla dipendente presso la sede aziendale barese (così assolvendo al proprio onere probatorio in merito alla sussistenza delle ragioni oggettive del licenziamento), ha per converso stigmatizzato il mancato assolvimento da parte datoriale dell'onere probatorio circa l'effettivo esperimento del obbligo di repechage, evidenziando al contrario la pacifica emersione di diverse posizioni lavorative in cui la datrice avrebbe potuto ricollocare la dipendente, a dimostrazione della chiara e manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, per carenza del requisito in menzione.
Dunque, in disparte ogni considerazione riguardante l'ambito di operatività dello ius variandi datoriale come modificato dal novellato art. 2103 c.c. (che pur meriterebbe una trattazione a sé ma che, per ragioni di contenimento, si rimanda ad altro commento), la sentenza in esame ha il pregio di affrontare anche il profilo inerente il riparto dell'onere probatorio in materia di repechage, specie con riferimento alla posizione del lavoratore interessato dalla decisione risolutiva.
Secondo un orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, invero, l'onere di provare di avere adempiuto all'obbligo di ricollocazione a carico del datore di lavoro presupponeva il preventivo assolvimento, da parte del lavoratore, di un contributo quantomeno deduttivo circa la possibilità del repechage anche attraverso l'allegazione dei posti concretamente disponibili ; (vedasi ex multis: Cass. 10 maggio 2016, n. 9467; Cass. 8 agosto 2015, n. 16512; Cass. 15 luglio 2015, n. 14807 ed altri numerosi arresti).
Con il tempo, invece, si è sempre più consolidato l'orientamento per cui è sufficiente che il lavoratore deduca l'illegittimità del comminato licenziamento evidenziandone l'assenza di giusta causa o giustificato motivo, perché sorga l'onere del datore di lavoro di dimostrare il «fatto estintivo» rappresentato dalla sussistenza del giustificato motivo oggettivo, nella sua doppia componente comprensiva anche del requisito dell'impossibilità del cd. repechage (in tal senso vedasi ex multis: Cass. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 11 ottobre 2016, n. 20436; Cass 13 giugno 2016, n. 12101; Cass., sez. lav., 22 novembre 2017, n. 27792 ed altre).
Nondimeno, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, anche di recente, come seppure non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda, gravando la prova dell'impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, è altresì vero che, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, contribuisca a corroborare in modo sostanziale il quadro probatorio delineatosi (vedasi Cass. 23 maggio 2018, n. 12794).
Nel caso in commento, dunque, la Corte d'appello di Milano, ponendosi nel solco della giurisprudenza appena richiamata, ha ritenuto inconsistenti i rilievi difensivi del datore di lavoro sul mancato reperimento, da parte della dipendente, di altra posizione lavorativa tramite il sistema del Job posting diffuso all'interno dell'azienda (rimarcandone l'inconcludenza ai fini probatori e decisori) ed ha quindi riconosciuto il manifesto inadempimento dell'obbligo di repechage da parte dell'azienda, optando per l'applicazione della tutela reintegratoria apprestata dal comma 4 dell'art. 18, l. n. 300/70.
Ecco, allora, che, in chiusura, merita di essere accennato un ulteriore, profilo analitico, connesso alla disamina del caso in commento.
Come, invero, emerge dalla semplice lettura del disposto del comma 7 dell'art. 18, l. n. 300/70 (che richiama l'applicabilità della tutela di cui al superiore comma 4 del medesimo articolo) l'accertamento giudiziale in tema di g.m.o. non si esaurisce nel momento della verifica della illegittimità del recesso e della manifesta insussistenza del fatto, ma viene espressamente esteso anche alla valutazione sulla «possibilità» di applicare la tutela reintegratoria, mediante la previsione di un fondamentale potere discrezionale in capo al Giudicante.
Recita, infatti, il comma de quo che il Giudice “Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo".
Ne deriva, che la manifesta insussistenza del fatto consente soltanto l'accesso «teorico» alla «restitutio in integrum» e non la applicazione automatica di tale tutela, rimessa, invece, alla scelta giudiziale, da condurre sulla base del canone ermeneutico dettato dall'art. 2058 c.c., secondo cui la tutela in forma specifica può essere esclusa se risulta eccessivamente onerosa per il debitore ovvero, in questo caso, per il datore di lavoro.
Ma su tale argomento, si tornerà in altra sede. |