Il difficile rapporto tra impugnazioni dell'ammissione al concordato preventivo e della dichiarazione di fallimento

Beatrice Simonetti
11 Novembre 2020

Quando alla declaratoria di inammissibilità, revoca o non omologazione del concordato segue la dichiarazione di fallimento del debitore, l'impugnazione prevista è unica ed ha per oggetto ..
Massima

Quando alla declaratoria di inammissibilità, revoca o non omologazione del concordato segue la dichiarazione di fallimento del debitore, l'impugnazione prevista è unica ed ha per oggetto sia la dichiarazione di fallimento che il provvedimento negativo sul concordato, ai sensi dagli artt. 162, ultimo comma e 183, ultimo comma, l.fall.

Il caso

L'ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione trae origine dal ricorso proposto dalla socia di una società in accomandita semplice avverso la sentenza della Corte di Appello reiettiva del suo reclamo contro una sentenza del Tribunale in data 21 marzo 2018, n. 43.

Con essa il giudice di prime cure aveva dichiarato la risoluzione del concordato preventivo, concludendo, però, inspiegabilmente per la revoca del medesimo.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, annullando la sentenza del giudice di primo grado del 21 marzo 2018, n. 43 laddove ha disposto la revoca dell'ammissione della società dal beneficio della procedura di concordato preventivo, ferma restando la ivi sancita risoluzione di quel concordato, rimasta incontestata.

Perviene a questo esito sulla scorta del duplice rilievo che la revoca fosse preclusa dall'avvenuta omologazione del concordato ben oltre due anni dall'ammissione, nonché in ragione della diversità di presupposti caratterizzanti la revoca dell'ammissione al concordato - tipicamente la carenza delle condizioni di ammissibilità o il compimento di atti in frode o non autorizzati - e la sua risoluzione, ovvero l'inadempimento degli obblighi concordatari.

La Cassazione afferma conclusivamente che il giudice di secondo grado - dopo aver verificato nuovamente la sola ipotesi dell'inadempimento legittimante la risoluzione - avrebbe dovuto espungere dalla decisione impugnata la statuizione riguardante la revoca dell'ammissione della s.a.s. al concordato preventivo, già risolto.

Rileva, da ultimo, la Corte di legittimità di non potersi pronunciare in relazione alla declaratoria di fallimento atteso che "questa specifica statuizione è rimasta oggi assolutamente priva di censure".

La questione giuridica

La decisione del Supremo Consesso conferma la risoluzione del concordato in luogo della revoca. Detta soluzione appare incontrovertibile, anche solo sulla base del rilievo relativo alla revocabilità dell'ammissione al concordato preventivo esclusivamente nell'intervallo temporale tra l'apertura della procedura e la successiva omologazione.

Merita piuttosto interrogarsi su una questione a monte relativa alla possibilità o meno per il giudice adito di controvertere sul concluso concordato preventivo, pur in presenza di un'avvenuta dichiarazione di fallimento, qualora la relativa sentenza o capo non siano stati oggetto, rispettivamente, di specifica impugnazione o censura.

Nel caso de quo, desta stupore che non una parola abbia speso il Giudice di legittimità e, prima ancora la Corte d'Appello, sull'intervenuto fallimento della società ricorrente.

In particolare, didascalicamente così si esprime la Corte d'Appello: << la reclamante insiste per la riforma della sentenza n. 43/18 aggiungendo, però, la frase non proprio chiara "...e, per quanto occorre, della contestuale sentenza del Tribunale di Como n. 44/18.... con cui è stato dichiarato il fallimento...">>; e ancora << in considerazione del fatto che non può essere demandato alla Corte ("per quanto occorra") la decisione di procedere a riforma di una ulteriore sentenza, che la motivazione del reclamo mai fa riferimento al fallimento della società e della chiara conclusione di pag. 24, la Corte deve ritenere che la domanda della reclamante abbia ad oggetto solo la sentenza n. 43/18 >>.

Ebbene, a parere di chi scrive, la Corte Suprema, investita della questione, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il reclamo per difetto di interesse, atteso che la sentenza di fallimento era ormai passata in giudicato e che, di conseguenza, diveniva del tutto inutile l'eventuale accoglimento del reclamo avverso la sentenza di omologazione del concordato preventivo. Difatti, seppure il reclamo ex art. 183 l. fall. fosse stato accolto, non avrebbe potuto produrre effetti su di una non più contestabile sentenza di fallimento(Cass. Civ. S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521).

Per converso, le censure contro il decreto avrebbero dovuto dedursi con reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento ai sensi dell'art. 18 l. fall..

Osservazioni

Alla luce di quanto detto, si palesa il problema processuale circa la sorte del provvedimento di diniego dell'omologazione o di risoluzione del concordato preventivo nel caso in cui sia stata emessa sentenza di fallimento contestualmente o successivamente.

Qualora si ritenga che il decreto di diniego di omologazione o di inammissibilità del concordato sia autonomamente impugnabile, sarebbe necessario chiarire il rapporto tra tale giudizio di impugnazione e quello distintamente proposto per censurare la dichiarazione di fallimento.

Per contro, qualora si sostenesse la non autonoma impugnabilità del provvedimento di inammissibilità del concordato, occorrerebbe stabilire la sorte del relativo ricorso proposto nelle more del fallimento ovvero (presentato) prima della sopraggiunta dichiarazione di fallimento.

Sul punto sono intervenute più volte le Sezioni Unite con pronunce emesse a distanza di poco tempo l'una dall'altra e, cionondimeno, convergenti (Cass.S.U., 21 gennaio 2013, n. 1521; Cass.S.U., 15 maggio 2015, n.9936; Cass. S.U., 28 dicembre 2016, n. 27073; Cass. S.U., 10 aprile 2017, n. 9146) a riprova dell'importanza e dell'attualità della suesposta questione di rito.

Per ben comprendere l'intreccio tra le impugnazioni, occorre una breve analisi del rapporto involgente sentenza di fallimento e diniego di omologazione dinanzi al giudice di prime cure.

Sottesa alla soluzione della questioneè l'esigenza di un coordinamento – soprattutto sul piano processuale - tra procedura fallimentare e concordato in termini di parità o di c.d. prevenzione.

In passato, di indubbia prevalenza era il principio di prevenzione della domanda di concordato rispetto al fallimento secondo il tenore testuale - nel testo anteriore al 2005 - dell'art. 160 l. fall. secondo cui "l'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza, fino a che il suo fallimento non è dichiarato, può proporre ai creditori un concordato preventivo".

La primazia del principio di prevenzione permane anche dopo la riforma del 2005.

Ciò si ricava, in primis, dalla funzione ontologicamente immanente al concordato preventivo, intesa come “prevenzione” del fallimento attraverso una soluzione alternativa fondata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei creditori. Tale funzione preventiva comporta che, prima della dichiarazione di fallimento, sia esaminata la domanda di concordato presentata dal debitore, dovendosi procedere alla declaratoria di fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore.

Inoltre, da una lettura sistematica delle norme contenute nella legge fallimentare emerge che, una volta aperta la procedura concordataria ai sensi dell'art. 163 l. fall., il fallimento non possa essere dichiarato sino alla conclusione del concordato in senso negativo, che ricorre, a seconda dei casi, per la mancata approvazione ai sensi dell'art. 179, per il rigetto della omologazione ai sensi dell'art. 180, ult. comma e per la revoca dell'ammissione ai sensi dell'art. 173 l. fall.

Tuttavia, la Corte di legittimità ricostruisce il rapporto tra le procedure non già in termini di pregiudizialità tecnica, ma di continenza “per specularità” (così Cass., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 9936).

Manca, infatti, un nesso di pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico tra le due domande tale da legittimare la sospensione del processo prevista dall'art. 295 c.p.c. A ragion del vero, essa ricorre soltanto allorché la situazione sostanziale dedotta nel processo pregiudicante (concordatario) rappresenti il fatto costitutivo di quella dedotta nella causa pregiudicata (fallimentare), il che non accade nel caso di specie.

Ne discende l'impossibilità di rinvenire una consequenzialità procedimentale tra procedura fallimentare e soluzione pattizia della crisi, bensì emerge in forma, per così dire, logica; è la c.d. continenza.

In questa direzione, le Sezioni Unite - prima nel 2015 e poi nel 2017 - hanno rilevato tre elementi lato sensu di comunanza: (i) la parziale identità dei soggetti, quando l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento venga assunta dai creditori; (ii) la coincidenza della causa petendi, rappresentata dallo stato di insolvenza della società; (iii) infine, la parziale coincidenza del petitum, individuato nella regolazione della crisi.

Con particolare riguardo al secondo di tali elementi, si precisa come la riforma del 2005 abbia differenziato il titolo delle due procedure, che per l'ammissione al concordato si identifica con il più ampio concetto di stato di crisi rispetto alla generica insolvenza.

Ciononostante, si riscontra una parziale identità di causa petendi tra le due domande, ove si osservi che ogni ipotesi di insolvenza integra a fortiori la fattispecie dello stato di crisi rilevante ai fini dell'ammissione alla procedura di concordato. Perciò, la causa petendi di quest'ultima domanda “contiene” quella della domanda di fallimento.

Alla luce delle considerazioni che precedono, le Sezioni Unite hanno individuato lo strumento di raccordo tra la procedura concordataria e l'istruttoria prefallimentare nell'istituto della continenza, che impone la loro riunione a norma dell'art.39, comma 2, c.p.c.

Così chiarita siffatta relazione, si circoscrive la questione al solo rapporto tra il giudizio di impugnazione del decreto di rigetto della domanda di omologazione del concordato ed il giudizio di impugnazione della sopravvenuta sentenza di fallimento.

Qui occorre dunque valutare la soluzione cui è pervenuti la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte.

Invero anche in fase impugnatoria si pone l'esigenza di coordinamento tra le dette procedure, ma non più in termini di prevenzione del concordato sul fallimento (e semmai opposti).

In tal senso, si richiama l'art. 162, comma 3, l. fall. laddove prevede la reclamabilità della sentenza che dichiara il fallimento, precisando che con il reclamo possono farsi valere anche i motivi attinenti all'ammissibilità della proposta di concordato.

In altre parole, qualora i motivi di impugnazione proposti in relazione al rigetto della domanda di concordato preventivo siano riproposti nel giudizio di reclamo exart. 18 l. fall., il giudice chiamato a decidere sul reclamo avverso la dichiarazione di fallimento dovrà pronunciarsi anche sulla proposta di concordato in virtù dell'effetto devolutivo pieno che lo caratterizza.

Nello specifico, nel caso in cui confermi la dichiarazione di fallimento, ribadirà, implicitamente, la non omologabilità del concordato; mentre nel caso di revoca della dichiarazione di fallimento, non sarà obbligato, per ciò solo, ad omologare l'altro.

È, dunque, oramai pacifico che la sopravvenuta dichiarazione di fallimento renda inammissibile, e se già presentata, improponibile, l'impugnazione della sentenza di rigetto della domanda di omologazione del concordato. Per meglio dire, in caso di declaratoria di fallimento, il giudizio di impugnazione sul diniego di omologa diventerebbe improseguibile; nel caso di contestualità tra le due pronunce, l'impugnazione autonomamente proposta avverso il solo decreto di rigetto dell'omologa si presenterebbe come inammissibile.

Tutto ciò posto, non si spiega l'esito interpretativo cui perviene la Cassazione nell'ordinanza n. 19005 del 2020 che, confermando la risoluzione del concordato pur in presenza di un intervenuto fallimento, sembra porsi in antitesi rispetto alla granitica giurisprudenza sedimentatasi fino ad oggi.

Difatti, in presenza del chiaro errore in cui sarebbe incorso ab origine il giudice d'appello – che non ha dichiarato inammissibile il reclamo proposto esclusivamente contro la sentenza di risoluzione/revoca del concordato preventivo (e non contro quella di fallimento ex art. 18 l. fall.) – la Corte di Cassazione avrebbe forse potuto sostenere l'inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse, atteso l'avvenuto passaggio in giudicato del fallimento.

Minimi riferimenti bibliografici

D. CAPEZZERA, Rapporti tra sentenza di fallimento e diniego di omologazione del concordato preventivo, in Giust. Civ.com, 30 ottobre 2017;

D. DE FILIPPIS, Ancora sul rapporto tra procedimento per la dichiarazione di fallimento e quello per l'ammissione al concordato preventivo, in Giust.Civ.com, 24 gennaio 2018;

D. TURRONI, Il concorso a «progressione asimmetrica» tra concordato preventivo e istruttoria prefallimentare, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 264 ss.;

F. DE SANTIS, Ancora sui rapporti tra istruttoria prefallimentare e procedura concordata di soluzione della crisi d'impresa, in Fall., 2011, 1201 ss.;

G. COSTANTINO, Sui rapporti tra dichiarazione di fallimento e concordato con riserva, in Foro it., 2013, parte I, col. 1534;

G. PARISI, Sulle modalità di coordinamento tra procedimento concordatario e istruttoria prefallimentare, in Giust. Civ.com, 29 luglio 2020;

I. PAGNI, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare, in Fall., 2013, 1075 ss.;

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