Licenziamento collettivo: le risoluzioni consensuali “indotte” rientrano nel computo dei licenziamenti al fine della operatività della disciplina

13 Novembre 2020

Alla luce di una corretta interpretazione dell'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo.
Abstract

Alla luce di una corretta interpretazione dell'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo.

Il caso

Un lavoratore impugnava un licenziamento individuale formalmente intimatogli “per soppressione del posto di lavoro in conseguenza di esternalizzazione dell'attività di gestione e manutenzione del parco automezzi”, ritenendolo illegittimo per una serie di ragioni fra cui la violazione della legge n. 223/1991, ossia la normativa in materia di licenziamenti collettivi.

La Corte d'appello competente, in conferma dell'ordinanza del Tribunale, aveva rigettato il reclamo anche in ragione del fatto che la legge n. 223/1991 era ritenuta inapplicabile in quanto non era stata raggiunta la prova del licenziamento di un numero di dipendenti superiori a cinque nell'arco di centoventi giorni.

Contro tale pronuncia il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, sulla base di sei motivi e, in particolare, deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 24 l. n. 223/1991, ritenendo errata la pronuncia circa la mancanza di prova del licenziamento di un numero di dipendenti superiore a cinque nell'arco di centoventi giorni. Ciò in quanto riteneva errata la valutazione operata dalla Corte territoriale in relazione della cessazione dell'ex collega X, il cui rapporto di lavoro era stato risolto entro l'arco temporale di centoventi giorni per “risoluzione consensuale” cui si era addivenuti a seguito del rifiuto di X di accettare il trasferimento impostogli dalla Società datrice, per asserite comprovate ragioni organizzative.

La questione giuridica

La questione in commento emerge chiaramente dalla semplice narrazione dei fatti di causa. Essa riguarda l'ampiezza della nozione di “licenziamento” ai fini dell'operatività della disciplina dei licenziamenti collettivi e – segnatamente – la sua estensione a fattispecie tecnicamente differenti dalla risoluzione disposta dal datore di lavoro (risoluzioni consensuali, prepensionamenti) ove tuttavia la scelta del lavoratore sia riconducibile alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza di lavoro giustificante il ricorso ai licenziamenti.

Si pensi al caso di specie: il lavoratore X aveva rifiutato un trasferimento determinato dalla stessa causa che aveva determinato il licenziamento del ricorrente (l'esternalizzazione dell'attività).

Tale rifiuto, come spesso accade, non aveva condotto ad un licenziamento (presumibilmente solo) perché X e la parte datoriale avevano raggiunto un accordo di risoluzione consensuale, evidentemente vantaggioso per entrambe le parti.

Il fatto che il (certo presumibile ma solo ipotetico) licenziamento sia stato evitato in ragione dell'accordo raggiunto è sufficiente a svincolare la fattispecie de qua dal disposto dell'art. 24 l. n. 223/1991?

Va ricordato che esso, sul punto dell'applicabilità della normativa in materia di licenziamenti collettivi, così recita: “le disposizioni […] si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia”.

Le soluzioni giuridiche

Sino alla pronuncia in commento affermare che la giurisprudenza fosse granitica nell'escludere le ipotesi come quella in commento dal computo dei “cinque licenziamenti” utili, era un eufemismo.

La stessa pronuncia in commento ne è perfettamente consapevole là dove afferma, senza mezzi termini, di voler superare il precedente orientamento in materia, in forza della disciplina eurounitaria applicabile alla materia.

La direttiva n. 98/59/CE, all'art. 1 par. 1, primo comma, in effetti così dispone: “per il calcolo del numero dei licenziamenti previsti nel primo comma, lettera a), sono assimilate ai licenziamenti le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque”.

Ebbene, tale disposto non è mai sfuggito alla giurisprudenza nostrana, che tuttavia riteneva che: “la l. n. 233 del 1991, nel dare attuazione alle direttive comunitarie sui licenziamenti collettivi, ha realizzato una tutela più ampia di quella minima richiesta, prevedendo il requisito numerico di almeno cinque licenziamenti nell'arco di 120 giorni invece che di dieci (o più, a seconda del periodo di riferimento e delle dimensioni occupazionali dell'impresa),” pertanto la disposizione appena citata “in concreto non influisce - benché il contesto normativo comunitario costituisca parametro vincolante per l'interpretazione della normativa nazionale - sull'integrazione del requisito” (così Cass. n. 14079/2000; ma in senso conforme si veda ad es., Cass. n. 13714/2001; Cass. n. 3866/2006; Cass. n. 1334/2007; Cass. 7519/2010).

Insomma, poiché la normativa italiana era ritenuta più favorevole, non poteva operare un criterio indicato per il computo di un numero maggiore di lavoratori.

Su tale assunto ha tuttavia avuto modo di intervenire, seppur indirettamente, la Corte di giustizia nel 2015 (C. giust. UE 11 novembre 2015, C-422/14).

La Corte di Giustizia, pronunciandosi su un caso (afferente il diritto spagnolo) di dimissioni cagionate da una unilaterale riduzione della retribuzone, ha chiarito come non siano ammissibili interpretazioni restrittive della direttiva n. 98/59/CE.

Nell'interpretazione della direttiva, la Corte ha affermato che essa, da un lato tutela il lavoratore ma, dall'altro, tende all'armonizzazione dei sistemi nazionali. Sotto questo punto di vista non sono ipotizzabili interpretazioni differenziate della nozione di “licenziamento” da utilizzare ai fini dell'operatività della disciplina disposta dalla direttiva stessa.

E' sulla base di tale pronuncia europea che la Suprema Corte è stata, in certa misura, costretta a rivedere il proprio orientamento sino ad affermare, con la pronuncia in esame, che “rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, a una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo”.

Osservazioni

La pronuncia in commento sembra così allinearsi alla recente giurisprudenza europea.

Tuttavia, tale allineamento è effettuato acriticamente, senza una reale motivazione. Sostanzialmente si applicata la massima della pronuncia della Corte di Giustizia del 2015 al caso di specie, senza alcun approfondimento.

Proprio in ragione di ciò ha, la pronuncia in commento lascia qualche perplessità.

Nei primi commenti è stato sottolineato che la normativa spagnola è differente da quella italiana, non solo ad es. la normativa in tema di licenziamento collettivo si applica in presenza di almeno 10 licenziamenti, ma tutto il quadro legislativo appare meno favorevole al lavoratore di quanto non sia la l. n. 223/1991. Con la conseguenza che, secondo alcuni, non potrebbe dirsi adeguatamente superato il precedente orientamento italiano, sopra richiamato.

Seppure la pronuncia mostra tali debolezze, e il superamento di un orientamento consolidato e granitico meriterebbe indubbiamente un approfondimento maggiore, non può comunque essere negata la sua portata innovativa, consistente nell'introduzione nel sistema italiano di una interpretazione indubbiamente più in linea con lo spirito della direttiva n. 98/59/CE.

Minime note bibliografiche

A. Poso, Le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro che derivano da modifiche unilaterali sostanziali di condizioni essenziali del contratto di lavoro? Tu chiamale se vuoi… Licenziamenti, in www.rivistalabor.it.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.