Mansioni superiori del dirigente medico: nell'impiego pubblico contrattualizzato non si applica l'art. 2103 c.c.

16 Novembre 2020

Nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, la sostituzione nell'incarico di dirigente medico ai sensi dell'art. 18 del CCNL dirigenza medica e veterinaria dell'8 giugno 2000 non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l'art. 2103 c.c...
Massima

Nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, la sostituzione nell'incarico di dirigente medico ai sensi dell'art. 18 del CCNL dirigenza medica e veterinaria dell'8 giugno 2000 non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l'art. 2103 c.c.; e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito ma solo la prevista indennità c.d. sostitutiva, senza che rilevi, in senso contrario, la prosecuzione dell'incarico oltre il termine di sei mesi (o di dodici se prorogato) per l'espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l'indennità sostitutiva specificamente prevista dalla disciplina collettiva e, quindi, inapplicabile l'art. 36 Cost.

Il caso

Un medico, con qualifica di dirigente di struttura semplice, conviene in giudizio l'azienda ospedaliera datrice di lavoro esponendo di avere svolto con continuità per quasi sette anni - in forza di un iniziale incarico semestrale motivato da ragioni sostitutive del titolare collocato a riposo, seguito da successive reiterate proroghe disposte in attesa dell'espletamento della procedura selettiva per la copertura del posto vacante - mansioni di direttore di struttura complessa ai sensi dell'art. 18 CCNL 8/6/2000, dirigenza medica e veterinaria.

Il ricorrente, il quale per tutto il suddetto periodo ha ricevuto la sola retribuzione ordinaria maggiorata dell'indennità sostitutiva prevista dalla citata disciplina collettiva, lamenta la mancata corresponsione, quantomeno dopo il primo anno di sostituzione, di un compenso corrispondente alle funzioni superiori effettivamente svolte, appunto di Responsabile di Struttura Complessa.

Il dirigente stesso chiede pertanto che l'azienda convenuta venga condannata a corrispondere le relative differenze retributive, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Resiste l'azienda ospedaliera la quale, pur non contestando in fatto le mansioni svolte dal dirigente, ritiene pienamente legittimo il proprio operato in base alla specifica disciplina legale e contrattuale della fattispecie, concludendo quindi per l'integrale reiezione del ricorso in virtù, in particolare, della non applicabilità al caso dell'art. 2103 c.c.

La questione

L'art. 2103 c.c. disciplina il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del prestatore in base alla c.d. flessibilità interna nella gestione della forza lavoro.

Nel rapporto di lavoro privato la materia è caratterizzata dal principio della contrattualità delle mansioni, secondo il quale il lavoratore deve essere destinato alle mansioni per le quali è stato assunto e queste, costituendo l'oggetto dell'obbligazione lavorativa, devono essere determinate o comunque determinabili al momento dell'assunzione.

Lo ius variandi, pertanto, inteso come facoltà del datore di lavoro di incidere in via unilaterale sulla posizione del lavoratore, si esplica essenzialmente nella possibilità di assegnare il medesimo allo svolgimento di mansioni “equivalenti", mantenendo immutata la retribuzione e salva l'attribuzione di mansioni superiori con conseguente diritto al correlativo trattamento economico.

A tale ultimo riguardo, difatti, il comma 7 del citato art. 2103 c.c. prevede che, in caso di assegnazione di mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e che l'assegnazione diviene definitiva dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Si pone questione circa l'estensione dei principi suddetti al lavoro pubblico contrattualizzato.

In tale settore, invero, la generale regola dell'equivalenza delle mansioni è elemento di contrapposizione rispetto al lavoro privato: essendo quest'ultimo, come detto, incentrato sulla disciplina contenuta nell'art. 2103 c.c., riferita alle mansioni da ultimo svolte dal lavoratore; mentre il lavoro pubblico, per contro, è regolato dall'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, rubricato «disciplina delle mansioni», nella versione oggi risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 62, d.lgs. n. 150/2009 (riforma Brunetta), norma che in materia demanda ampiamente alla disciplina dettata dalla contrattazione collettiva.

Perciò, nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, pur mancando, quantomeno per la generalità degli impiegati e funzionari, un'esplicita esclusione dell'applicazione dell'art. 2103 c.c., l'art. 52, d.lgs. n. 165/2001 (T.U.P.I.) e la contrattazione collettiva di comparto rappresentano i principali referenti nelle questioni concernenti mansioni, inquadramento e professionalità del lavoratore, con conseguente disciplina del tutto peculiare ed autonoma rispetto al regime vigente nel settore privato.

In particolare, con riferimento alla questione dello svolgimento di mansioni superiori, può osservarsi come le disposizioni sulla promozione automatica e sul riconoscimento del diritto all'ottenimento delle differenze economiche previste dalla disciplina privatistica contrastino con le norme in tema di progressione, di attribuzione di incarichi e copertura degli organici nonché con i principi costituzionali di legalità, buon andamento ed imparzialità che devono ispirare l'azione della pubblica amministrazione.

Ragion per cui, lo stesso art. 52 al comma 2, lett. a) e b), d.lgs. n. 165/2001, prevede che, giusta l'art. 97 Cost, nell'assenza di una procedura di concorso il prestatore di lavoro non possa essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore se non per «obiettive esigenze di servizio» e per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabili per un periodo complessivamente non superiore ad un anno, qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti o quando ciò si renda necessario per sostituire altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione delle ferie.

Il successivo comma 5 dispone poi che l'assegnazione di mansioni superiori, al di fuori delle ipotesi descritte, è nulla, con responsabilità erariale del dirigente che tale assegnazione abbia disposto. Cionondimeno, la nullità non esclude il riconoscimento del diritto del dipendente al trattamento economico corrispondente alle mansioni effettivamente esercitate.

Si tratta, in sostanza, di un'applicazione del principio espresso dall'art. 2126 c.c. (in ordine allo svolgimento di una prestazione di fatto svolta in violazione di legge), onde evitare che la pronunzia giurisdizionale di nullità del contratto possa incidere sulla prestazione già resa, ma escludendo ogni pretesa del lavoratore ad una continuazione del rapporto per il futuro.

Viene così garantita sia la tutela del dipendente a non veder oltremodo utilizzata la propria professionalità in nome di incerte e superiori esigenze delle amministrazioni, sia quella di queste ultime a ricorrere alle risorse interne ogni qual volta se ne presenti un'eccezionale e temporanea necessità.

In detto contesto, come detto, la contrattazione collettiva diviene per la giurisprudenza il principale punto di riferimento.

In altre parole, nel settore pubblico assurge a regola ciò che nel lavoro privato costituisce un'eccezione: la legge, rinviando all'area (contrattuale) di inquadramento (comma 1, art. 52 cit.), rende la fonte collettiva prioritaria per valutare l'equivalenza professionale nell'ambito dei livelli di inquadramento, sottraendo al giudice il ruolo di primo piano che nel sindacare il legittimo esercizio dello jus variandi invece riveste nel settore privato.

In tal modo, però, l'indagine giudiziale rischia di limitarsi all'accertamento della oggettiva riconducibilità, sulla base delle previsioni collettive, delle nuove e vecchie mansioni alla medesima area di inquadramento, senza attribuire il dovuto rilievo al contenuto delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente.

Discorso a parte va fatto per la categoria dei dirigenti.

Nell'impiego privato, i contratti collettivi non prevedono per tali lavoratori una differenziazione nei livelli di inquadramento. Il limite resta quello della categoria, per cui il datore di lavoro può adibire il dirigente a qualunque mansione purché appunto di contenuto dirigenziale.

In effetti, il diritto soggettivo del lavoratore a essere promosso ad una categoria, grado o classe superiore presuppone una disciplina collettiva che garantisca l'avanzamento come effetto immediato di determinate condizioni di fatto, delle quali sia accertata l'esistenza prescindendo da ogni indagine valutativa del datore di lavoro (cfr. Cass. 5 aprile 2012, n. 5477).

Nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, gli incarichi di funzioni dirigenziali sono specificamente regolati dall'art. 19 del Testo Unico, al cui primo comma, secondo periodo, si prevede: “Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'art. 2103 c.c.”.

Gli incarichi, difatti, vengono conferiti sempre a tempo determinato, per un periodo compreso tra i due e i sette anni e con facoltà di rinnovo sulla base “dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza”.

Per ciascun incarico vengono quindi definiti contrattualmente, la durata, gli obiettivi da perseguire ed il trattamento economico.

Da ciò discende la peculiarità della qualifica dirigenziale nel pubblico impiego che, nel nuovo assetto, non esprime più una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del soggetto a ricoprire un incarico dirigenziale, necessariamente a termine, conferito con atto datoriale gestionale, distinto dal contratto di lavoro a tempo indeterminato (cfr. Cass. 22 febbraio 2017, n. 4621; Cass. 20 luglio 2018, n. 19442).

L'esclusione dell'applicazione dell'art. 2103 c.c., da un lato, comporta la possibilità che il dirigente possa essere spostato da un incarico di livello più elevato ad uno di livello inferiore senza incorrere nel divieto di demansionamento posto dal codice civile; sul fronte opposto, il fatto che anche per i dirigenti pubblici, come per gli impiegati, permane il divieto di definitivo inquadramento nelle mansioni superiori eventualmente affidate in via temporanea, seppur per un prolungato periodo di tempo.

Con specifico riferimento all'area della dirigenza sanitaria, l'impossibilità di applicare la disciplina dettata dall'art. 2103 c.c. è ulteriormente ribadita dall'art. 15-ter d.lgs. n. 502/1992, nonché dall'art. 28, comma 6, CCNL 8 giugno 2000 (Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali), secondo cui “nel conferimento degli incarichi e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse le aziende tengono conto [...] che data l'equivalenza delle mansioni dirigenziali non si applica l'art. 2103, comma 1, del c.c.”.

La soluzione giuridica

Il Tribunale di Alessandria, con la pronuncia in commento, sent. 17 luglio 2020, n. 66, conferma il più recente orientamento della giurisprudenza sul tema delle rivendicazioni retributive conseguenti al passaggio a mansioni diverse e superiori da parte dei dirigenti sanitari di strutture pubbliche.

In particolare, il giudice, pur considerando incontroversa la circostanza di fatto del prolungato e continuato incarico sostitutivo affidato al ricorrente, dirigente di struttura semplice, afferma che il conseguente espletamento da parte di questi delle funzioni di dirigente di struttura complessa non è comunque valso ad integrare la fattispecie dello svolgimento di mansioni superiori.

Nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico, infatti, la dirigenza sanitaria è collocata in un ruolo unico, distinto per profili professionali, ed in un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali (art. 15 d.lgs. n.502/1992).

Ne consegue l'inapplicabilità dell'art. 2103 c.c., sia riguardo al mutamento delle mansioni che allo svolgimento di funzioni superiori, anche a titolo di reggenza, come pure con riferimento al mantenimento della pregressa retribuzione, secondo l'espressa previsione delle disposizioni di legge e collettive sopra richiamate (art. 19 comma 1 d.lgs. n. 165/2001; art.15-ter, comma 5, d.lgs. n. 502/1992; art. 28, comma 6, CCNL cit.).

Il Tribunale, richiamando in proposito anche la recente pronuncia di Cassazione n.33136 del 16 dicembre 2019, ricorda che nel settore della dirigenza sanitaria la specifica materia delle sostituzioni è stata espressamente disciplinata dalle parti collettive le quali, con l'art. 18, comma 7, del predetto CCNL 8 giugno 2000 hanno ribadito che “le sostituzioni […] non si configurano come mansioni superiori in quanto avvengono nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria”. In altre parole, esse devono considerarsi insite nelle funzioni normalmente attribuibili al dirigente.

Le stesse parti sociali, in proposito, hanno previsto una speciale indennità in favore del dirigente sostituto, da corrispondersi peraltro solo in caso di incarichi che si protraggano oltre i sessanta giorni, indennità rapportata al livello di complessità della struttura diretta.

L'indennità medesima è da considerarsi adeguatamente remunerativa, senza possibilità di invocare al riguardo l'art. 36 Cost. (cfr. Cass. 3 agosto 2015, n. 16299; Cass. 15 gennaio 2016, n. 584; Cass. 19 aprile 2017, n. 9879; Cass. n. 28030 del 2018).

La ragione di tale speciale disciplina, osserva il Tribunale, ulteriormente richiamando recenti pronunce di legittimità, si fonda sulla peculiarità della qualifica dirigenziale nel pubblico impiego privatizzato: qualifica che non esprime una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, ma esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, del relativo incarico (cfr. Cass. n. 4621 del 2017; Cass. n. 19442 del 2018; Cass. 20 febbraio 2007, n. 3929).

In definitiva, l'unicità della qualifica e il suo esclusivo collegamento all'idoneità professionale comportano che il conferimento degli incarichi dirigenziali e il passaggio ad incarichi diversi in tale ambito non sono compatibili con le garanzie assicurate al prestatore di lavoro dall'art. 2103 c.c., sia nella parte in cui la norma attribuisce al lavoratore il diritto ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, sia in quella che ne impedisce la destinazione a compiti non equivalenti agli ultimi espletati e vieta in ogni caso diminuzioni della retribuzione sia, infine, sotto il profilo che preclude l'assegnazione di compiti totalmente estranei al patrimonio professionale posseduto dal dipendente.

Osservazioni

Riassumendo, nel pubblico impiego contrattualizzato la fattispecie dello svolgimento di mansioni superiori non trova la propria disciplina nei principi fissati dal codice civile dovendosi invece avere riguardo a quanto disposto dalla legislazione speciale e dalla contrattazione collettiva. Ne consegue, in particolare, l'inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 2103, comma 7, c.c. circa il diritto al trattamento retributivo corrispondente all'attività svolta.

La sentenza alessandrina, relativa allo specifico settore della dirigenza sanitaria, si inserisce nella nutrita produzione giurisprudenziale del periodo, approdata, pare, ad un profilo di stabilità tanto in sede di legittimità che di merito (quanto alla S.C., da ultime, Cass. n. 33136/2019; n. 26618/2019; n. 21565/2018; n. 28030/2018; nella giurisprudenza di merito, App. Catanzaro 20 dicembre 2019, n. 1282; App. Reggio Calabria 27 novembre 2019, n. 788; Trib. Ferrara 8 aprile 2019, n. 28; App. Bari 17 gennaio 2019).

D'altro canto, si osserva, le attuali ricorrenti pronunce giurisdizionali, di per sé, sono specchio di una diffusa condizione di inefficienza nel funzionamento della “macchina” amministrativa pubblica, con particolare riferimento alla gestione ed al rinnovo degli incarichi dirigenziali, facendosi cioè troppo spesso ricorso, nelle more dell'espletamento della procedura di concorso per la copertura dei posti vacanti, a reiterati temporanei incarichi sostitutivi in ambito interno in capo a dirigenti di strutture di minore complessità.

Ma poiché, come si sa, nulla è più definitivo del provvisorio (il n'y a que le provisoire qui dure), l'andazzo deve aver finito per spazientire molti sostituti.

Chiamati all'assunzione di maggiori responsabilità, ben oltre i compiti di ordinaria amministrazione e sovente sine die (basti pensare che, in questo come in molti altri casi portati all'attenzione del giudice, l'incarico “provvisorio” si è protratto per diversi anni senza soluzione di continuità, sino al pensionamento dell'interessato!), i dirigenti stessi non hanno evidentemente accettato il fatto che, per tali delicate funzioni sostitutive, non venissero loro riconosciuti né la progressione nell'inquadramento professionale né il trattamento retributivo riservato ai dirigenti titolari della struttura assegnata; come pure il fatto che le conseguenze della violazione da parte della P.A. datrice di lavoro dell'onere di attivare tempestivamente le procedure di concorso dovessero irragionevolmente gravare sul ligio lavoratore.

In alcuni casi, perlomeno fino a pochi anni fa, il giudice ha riconosciuto le loro ragioni, finanche in sede di legittimità (Cass.,sez. lav., 6 luglio 2015, n. 13809; conformi Trib. Campobasso 2 febbraio 2016, n. 36; App. Roma 8 maggio 2018, n. 4082).

Nella sentenza Cass. n. 13809/2015, ad esempio, in aperto contrasto con il surriferito orientamento oggi dominante, la S.C. ha riconosciuto che quando viene superato l'ambito temporale definito dalla previsione contrattuale collettiva (nella specie, lo stesso art. 18 CCNL cit.) l'assegnazione delle mansioni dirigenziali in sostituzione cessa di rientrare tra le prestazioni normalmente esigibili dal dirigente e si configura invece come espletamento di mansioni superiori, con diritto alla corrispondente retribuzione, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost.

Se è vero infatti - precisa la sentenza, richiamando a sostegno numerose pronunce della Corte costituzionale (sentenze C. cost. n. 57 del 1989, C. cost. n. 296 del 1990, C. cost. n. 101 del 1995; ordinanze C. cost. n. 408 del 1990, C. cost. n. 337 del 1993, C. cost. n. 347 del 1996) - che l'art. 2103 c.c. contiene disposizioni incompatibili con l'impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, costituisce tuttavia principio condiviso e consolidato anche in tale settore quello della necessaria corrispondenza tra mansioni svolte e retribuzione percepita; ed il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori allo scopo previsto dall'art. 52, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva (cfr. Cass. n. 6530/2014).

Del resto, osserviamo, il riferito orientamento attualmente dominante in materia di esercizio di mansioni “superiori” da parte del dirigente pubblico mal si concilia, quantomeno sul piano della c.d. giustizia sostanziale, con la consolidata giurisprudenza relativa al più generale tema della reggenza dei pubblici uffici sprovvisti temporaneamente del dirigente titolare.

Le mansioni superiori del dipendente pubblico non dirigente, infatti, sono disciplinate dal solo art. 52, comma 2, T.U.P.I. (valendo il già citato art. 19 del testo unico unicamente per i dirigenti) che, per lo specifico caso della “vacanza di posto in organico”, a temporanea copertura del medesimo e previo avvio della procedura di concorso per la destinazione di un nuovo titolare prevede l'adibizione alle relative mansioni del prestatore di lavoro avente qualifica immediatamente inferiore, per il periodo di non più di sei mesi prorogabili fino a dodici.

Orbene, per tali ipotesi la giurisprudenza della Corte di cassazione (nonché della Corte costituzionale, cfr. C. cost. n. 37/2015) ha sempre sottolineato, tuttora continuando a farlo, che la reggenza deve essere contrassegnata dalla straordinarietà e temporaneità.

In particolare, si precisa che alla stessa può farsi luogo, senza che si producano gli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura.

Al di fuori di tale ipotesi, la reggenza concreta svolgimento di mansioni superiori ed il lavoratore ha diritto a percepire l'intero trattamento economico riservato al dirigente, ivi compresi gli elementi retributivi accessori (cfr. Cass. S.U. n. 3814/2011 e Cass. S.U. n. 4963/2011; Cass. n. 11332/2018, Cass. n. 3317/2018; Cass. n. 10628/2017, Cass. n. 12434/2016; da ultima Cass. 5 dicembre 2019, n. 31842).

Il delineato quadro normativo e giurisprudenziale, evidentemente privo di adeguato coordinamento, comporta allora che nei casi in cui, quale quello qui esaminato, la reggenza si riferisca ad un ufficio dirigenziale possono determinarsi le seguenti sperequate conseguenze:

- qualorala sostituzione venga affidata ad un funzionario non appartenente al ruolo dirigenziale, il lavoratore stesso - senza dover superare alcun concorso per ricoprire il posto vacante e, prima ancora, senza nessun conferimento nei suoi confronti della funzione dirigenziale in conformità alle regole di cui all'art. 19 T.U.P.I. - maturerà quale reggente il diritto a percepire l'intero trattamento economico riservato al dirigente titolare;

- qualora invece il sostituto sia individuato in altro dirigente di fascia inferiore, quest'ultimo dipendente, che già dirigente è, per lo svolgimento delle più complesse funzioni con relative maggiori responsabilità si dovrà accontentare - sempre che la stessa sia, come per la dirigenza sanitaria, prevista dalla contrattazione collettiva - della sola indennità sostitutiva mensile, di importo notevolmente inferiore.

Per porre rimedio a tali incoerenze dell'ordinamento, quanto mai opportuno sarebbe l'intervento della giurisprudenza se non del legislatore.