Perpetuatio dell'ufficio di difensore revocato fino a sostituzione

Roberto Masoni
17 Novembre 2020

La Corte ribadisce che il difensore revocato dal mandato professionale continua ad esercitare lo ius postulandi fino a sostituzione con altro difensore, in forza della perpetuatio dell'ufficio difensivo.
Massima

Nè la revoca, né la rinuncia alla procura privano il difensore delle capacità di compiere o ricevere atti processuali. In base all'art. 85 c.p.c., ciò che priva il procuratore della capacità di compiere o ricevere atti non sono la revoca o la rinuncia di per sé sole, bensì il fatto che alla revoca o alla rinuncia si accompagni la sostituzione del difensore.

Il caso

La Corte d'appello aveva denegato la rimessione in termine richiesta a norma dell'art. 153, capoverso, c.p.c. a favore dell'appellante. A fronte di revoca del mandato al difensore, la parte aveva invocato tale istituto nell'ottica di essere rimessa in termine per il deposito della seconda e della terza memoria previste dall'art. 183, comma 6, c.p.c., per precisare la domanda ed avanzare richieste istruttorie.

Sottoposta ad amministrazione di sostegno, la ricorrente aveva richiesto la rimessione in termine per il compimento degli atti processuali in oggetto che aveva omesso di compiere il difensore, adducendo la propria condizione di precaria salute mentale all'epoca dei fatti, di incapacità di intendere e volere, condizione che avrebbe influito sulla decisione di revocare il mandato difensivo.

La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, dichiarandolo inammissibile.

La questione

La ricorrente, sottoposta ad amministrazione di sostegno e quindi in condizioni di incapacità di intendere e volere vulnerata, aveva revocato il mandato al difensore.

Questi, a sua volta, depositata la prima memoria istruttoria, in conseguenza della revoca del mandato, non aveva depositato le successive.

La ricorrente tramite il nuovo difensore aveva richiesto di essere rimessa in termine nel compimento dell'attività processuale omessa, invocando a fondamento una situazione personale inerente il rapporto intercorrente tra sé ed il difensore revocato.

Nel respingere il ricorso per cassazione, la Corte ha evidenziato come la dedotta circostanza non legittimi la remissione in termine, in quanto «l'infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo» concerne un evento estraneo al processo, attinente esclusivamente al «rapporto intercorrente tra la parte sostanziale ed il professionista» che può presentare rilevanza «ai fini di un'azione di responsabilità promossa contro quest'ultimo».

Due sono le questioni che la Corte Regolatrice affronta e risolve.

Da un canto, viene ribadito l'orientamento nomofilattico che esclude la rilevanza di fatti estranei al processo quale presupposto ex art. 153, comma 2, c.p.c., evidenziando l'irrilevanza a questi fini di mere situazioni di difficoltà contingenti, dovendosi invece porre gli stessi in rapporto di causalità col verificarsi della decadenza processuale.

Dall'altro, viene ribadito l'ulteriore principio secondo cui il difensore revocato dal mandato professionale continua ad esercitare lo ius postulandi fino a sostituzione con altro difensore, in forza della perpetuatio dell'ufficio difensivo.

Le soluzioni giuridiche

Le soluzioni offerte dalla Corte ai due quesiti che le sono stati sottoposti trovano preciso ancoraggio nella giurisprudenza della nomofilachia, come infra emergerà.

Osservazioni

Due sono i principi che la pronunzia in rassegna ribadisce.

I. Anzitutto, l'interpretazione dell'istituto della rimessione in termine a norma del capoverso dell'art. 153 c.p.c. («la parte che dimostra di essere incorsa in decadenza per causa a sé non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini»), come pure del principio tradizionale, secondo cui: «la revoca e la rinuncia (della procura) non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finchè non sia avvenuta la sostituzione del difensore» (art. 85 c.p.c.).

Dal primo punto di vista, l'introduzione dell'istituto della rimessione in termini nell'ordinamento processuale civile quale istituto tendenzialmente generale è frutto di recenti riforme.

Il decorso di un termine processuale finale ha l'effetto di determinare la decadenza dal suo compimento, che resta così irrimediabilmente precluso (v. art. 153, comma 1, c.p.c.).

In passato la rimessione in termine rappresentava un istituto eccezionale, essendo previsto solo in ipotesi circoscritte e limitate, in particolare in materia di contumacia (art. 294 c.p.c.) ed impugnazione della sentenza (art. 327, comma 2, c.p.c.).

In passato erano questi gli unici rimedi processuali in grado di superare gli effetti preclusivi ed irreversibili della decadenza, susseguente ad inutile decorso di un termine stabilito per il compimento di un atto processuale, invocabili unicamente in situazioni specifiche e limitate.

In questa situazione la dottrina si era sforzata di evidenziare come la rimessione in termine andasse configurata in termini di istituto dotato di portata generale, chiarendo come l'introduzione dell'istituto fosse ineludibile in quanto funzionale alla garanzia del diritto di difesa, dotato di rilevanza costituzionale (art. 24 Cost.).

Le riforme degli anni 1990 e 2009 hanno rimodellato l'istituto in discorso accogliendo i suggerimenti della scienza processuale per effetto dell'innovazione contenuta nel novellato capoverso dell'art. 153 c.p.c. (e prima nell'art. 184-bis c.p.c.)

Presupposto applicativo dell'istituto si rinviene nella presenza di una «causa non imputabile alla parte».

In particolare, l'applicabilità del rimedio presuppone la presenza di un fatto esterno alla sfera della parte o del suo difensore, improvviso ed imprevedibile (Cass. civ., 19 ottobre 2018, n. 26.535), che presenti i caratteri dell'assolutezza e non della mera difficoltà (Cass. civ., 23 giugno 2020, n. 12.249); senza che tale presupposto possa essere riferito ad un evento esterno al processo (Cass. civ., 13 dicembre 2019, n. 32.779).

La “causa non imputabile” non è, invece, riferibile alla mancanza di diligenza (Cass. civ., 10 gennaio 2017, n. 363) o alla mera difficoltà di esercizio di un potere processuale (Cass. civ., 17 maggio 2019, n. 13.455).

Alla stregua di questi approdi interpretativi, si comprende il principio affermato dalla pronunzia in rassegna, che ha ribadito la correttezza della pronunzia gravata, di diniego della rimessione in termini.

Se l'istituto in esame è applicabile solo in presenza di un fatto impeditivo estraneo alla sfera di volontà della parte o del difensore, è evidente che l'atto di parte con cui la prima revoca il mandato al secondo, il quale ultimo in forza di ciò ometta di depositare le memorie istruttorie di cui all'art. 183 c.p.c., non presenta tali caratteri; dato che tale condotta omissiva si risolve piuttosto in assenza di diligenza nell'espletamento del mandato, suscettibile di valutazione in termini di responsabilità professionale.

II. Col secondo principio ribadito dalla pronunzia la Corte afferma che al ricorrente non competeva diritto alla rimessione in termine. Dato che il difensore revocato dall'incarico, in forza dell'art. 85 c.p.c. e del principio in esso consacrato, doveva continuare nell'espletamento dell'incarico professionale fino a sostituzione del nuovo difensore («la revoca e la rinuncia (della procura) non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finchè non sia avvenuta la sostituzione del difensore»).

In esordio la pronunzia nomofilattica ha richiamato la ben nota distinzione intercorrente tra procura ad negotia e procura processuale.

Mentre mediante procura sostanziale chi ha conferito il potere può sempre revocare il mandato con efficacia immediata, invece, col conferimento di poteri di natura processuale al difensore, «nè la revoca né la rinuncia privano, di per sé, il difensore della capacità di compiere o di ricevere gli atti» (su cui già Cass. civ., 29 ottobre 1997, n. 10643). Dato che, in tal caso, i poteri attribuiti dalla legge processuale al difensore, come quelli in cui si «concreta lo ius postulandi, sono attribuiti dalla legge al procuratore che la parte si limita a designare».

La permanenza in carica del difensore revocato o rinunziante sino a quando non sia stato sostituito con altro difensore costituirebbe logica conseguenza del «carattere pubblicistico delle funzioni, le quali impongono che l'ufficio sia sempre coperto» (Andrioli).

I poteri del difensore con procura, anziché essere determinati dalla volontà del cliente, «sono determinati dalla legge, in maniera indipendente dalla volontà di questi». Dato che si tratta di una forma di «rappresentanza volontaria quanto al conferimento (o alla revoca: art. 85 c.p.c.), ma legale quanto al modo di esercitarla» (Calamandrei). Mentre, secondo altri processualisti, la procura di cui all'art. 83 c.p.c. consisterebbe in realtà in una «semplice designazione e non in un conferimento di poteri» (conferimento che sarebbe in realtà compiuto direttamente dalla legge (Mandrioli).

A conforto della natura para-pubblicistica dell'attività esplicata dal difensore nel processo civile, in più luoghi del capo II, del libro I (dei difensori) (artt. 82, 83 e 84 c.p.c.) il codice di rito si riferisce all'attività difensiva valendosi dell'espressione “ministero”, che lessicalmente, indica «l'assunzione di un ufficio inteso come dovere», ovvero, richiamandosi all'«ufficio di difensore» (art. 86 c.p.c.).

Come emerge trasparente, la disciplina codicistica dettata per il difensore si giustifica “per ragioni di interesse pubblico”.

In particolare, come ha precisato la Corte Suprema, essa è conformata nell'ottica di «evitare la paralisi del processo ed i possibili pregiudizi a carico dell'una come dell'altra parte», per «impedire che questo abbia ad arrestarsi per effetto della revoca o della rinuncia» e, ancora, onde «evitare una vacatio dello ius postulandi» (Cass. civ., 9 dicembre 1992).

Il principio di diritto concernente la perpetuatio dell'ufficio del difensore rinunciante o revocato trova riscontro non solo nella regola enunciata nell'art. 85 c.p.c., ma pure in quella che impedisce di dichiarare l'interruzione del processo in presenza di tali atti (art. 301 c.p.c.).

In ogni caso, la rinuncia e la revoca della procura processuale, se non riverberano effetti sulla funzionalità obiettiva del processo, determinano tuttavia un effetto immediato nei rapporti interni tra difensore ed assistito nell'ambito del contratto di patrocinio, che si interrompe.

Riferimenti
  • Andrioli, Commento al codice di procedura civile, 1964, Napoli, III° ed., I, 241-242;
  • Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1943, parte seconda, 260;
  • Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011, VI° ed., I, 227;
  • Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, 2019, Torino, XXVII° ed., I. 464 e segg.;
  • Punzi, Il processo civile, sistema e problematiche, Torino, 2010, II° ed., I, 354;
  • Verde, Diritto processuale civile, 2010, Bologna, II° ed, I, 259-261.