I presupposti per la revoca della carcerazione preventiva ai tempi del Covid-19
19 Novembre 2020
Massima
L'incompatibilità tra le condizioni di salute del detenuto e il regime carcerario, in considerazione del rischio di contrarre l'infezione da Covid-19, deve risultare da elementi specifici che rivelino fattori di effettivo e concreto pericolo, alla luce anche delle specifiche misure di prevenzione adottate nell'istituto per garantire la distanza di sicurezza tra detenuti “a rischio”, nonché della possibilità che i detenuti che si trovano in condizioni di salute più precarie possano godere del trasferimento presso altri istituti o presso strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario. Il caso
Il persistere della situazione di emergenza sanitaria è foriero di inevitabili risvolti anche sul piano giuridico. Gli operatori del diritto penitenziario, in particolare, sono chiamati a realizzare una delicata opera di bilanciamento tra principi fondamentali del nostro ordinamento: da un lato la tutela del diritto alla salute e, dall'altro, l'esigenza di contenimento della pericolosità sociale dei condannati ovvero dei soggetti in attesa di giudizio, anche in rapporto alla presunzione di non colpevolezza. La sentenza in commento, pronunciata dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione, si iscrive condivisibilmente tra le (oramai maggioritarie) pronunce giurisprudenziali a favore delle istanze legalitarie. La vicenda in esame trae origine dal provvedimento emesso il 14 aprile 2020 dal Tribunale di Roma con cui il Collegio ha disatteso l'istanza difensiva di un imputato – affetto da una grave forma di pancreatite – sottoposto alla custodia cautelare in carcere, volta all'ottenimento della meno contentiva misura degli arresti domiciliari. Avverso tale decisione, i difensori dell'interessato – detenuto presso la casa circondariale di Frosinone per violazione delle normative in materia di sostanze stupefacenti e di armi nonché per ricettazione – hanno presentato appello ai sensi dell'art. 310 c.p.p., che tuttavia è stato rigettato sulla base della non riconosciuta incompatibilità delle condizioni fisichedell'imputato con il regime intramurario e della insussistenza dei presupposti per estendere al predetto gli effetti favorevoli delle decisioni adottate dal giudice del procedimento nei due confronti di due coimputati beneficiari degli arresti in casa. Avverso la summenzionata ordinanza d'appello, l'interessato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, deducendo i vizi di violazione di legge ex artt. 275 e 299 c.p.p. e di difetto di motivazione, per avere il Tribunale di Roma illogicamente disatteso le ragioni d'appello senza tenere adeguatamente conto della storia clinica del detenuto; per non avere ragionevolmente tenuto conto degli esiti delle valutazioni dell'area sanitaria dell'Istituto di pena che aveva concluso nel senso di ritenere sussistente un aumento del pericolo quod vitam in caso di infezione da Covid-19; e, da ultimo, per aver omesso di considerare che i coimputati dell'interessato, pur trovandosi in una posizione sostanzialmente analoga, hanno beneficiato degli arresti domiciliari. La questione
Dall'adozione del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia) sino alla legge 2 luglio 2020, n. 72 di conversione del decreto legge 10 maggio 2020, autorevoli commentatori si sono spesi nel fornire un quadro quanto più possibile chiaro e lucido delle possibilità offerte ai soggetti ristretti di ottenere una misura extramuraria in grado di attenuare il rischio di possibile contagio derivante dalla diffusione del Coronavirus. Del resto, già con raccomandazione del 20 marzo 2020 l'European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) ha invitato gli Stati membri del Consiglio d'Europa a valorizzare, in questa straordinaria emergenza pandemica, l'adozione di tutte le soluzioni alternative alla privazione della libertà, a partire proprio da un «greater use of alternatives to pre-trial detention». Nel dettaglio, per quanto concerne i reclusi sottoposti a misura cautelare, il legislatore – con atteggiamento opposto rispetto a quello dedicato nell'art. 123 d.l. 17 marzo 2020 n. 18 ai detenuti definitivi (disposizione che comunque sconta un difetto di utilità pratica) – non ha previsto alcuna misura di “sfollamento”. In contumacia del Parlamento, assumono particolare rilievo le indicazioni della magistratura requirente, contenuta nel documento del 1° aprile 2020, a firma del Procuratore generale della Corte di cassazione,Giovanni Salvi. Più approfonditamente, detto documento, mosso dall'espresso intento di stimolare un alleggerimento delle presenze carcerarie non necessarie, con riguardo al flusso in entrata negli istituti, ha invitato i pubblici ministeri a privilegiare la richiesta di arresti domiciliari, ove necessario anche con il braccialetto elettronico (ad eccezione dei casi di rilevante gravità e di assoluta incompatibilità). Con riguardo invece al flusso in uscita dal carcere, il documento ha intesto incentivare i P.M. nella richiesta di revoca o attenuazione delle misure cautelari già disposte. In altri termini, nella costante verifica dei presupposti in ordine alle eventuali sopravvenienze incidenti sulla proporzionalità della custodia in carcere (in relazione alla entità del fatto o alla sanzione irroganda), il P.M. viene chiamato a valutare se l'affievolimento delle esigenze cautelari ovvero lo stato di salute dei detenuti (laddove le patologie pregresse, sia pure ritenute compatibili con la detenzione intramuraria, potrebbero comportare un pericolo quod vitam) possano consigliare la sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, in tutti i casi in cui la disponibilità di un alloggio lo consenta, con l'applicazione del braccialetto elettronico, laddove disponibile. La questione attinente alla pronuncia in commento si iscrive, quindi, nel dibattito circa l'inquadramento del fenomeno pandemico provocato da Covid-19 tra i criteri valutativi rilevanti in una logica presuntiva oppure alla stregua di una prognosi postuma rispetto alla verifica della pericolosità cautelare dell'imputato. Le soluzioni giuridiche
La richiamata inettitudine del legislatore in ordine all'integrazione dei presupposti utili alla concessione delle misure custodiali extramurarie ex art. 275, commi 4-bis e 4-ter,c.p.p., unitamente ai vizi sostanziali propri dell'impugnazione presentata dall'interessato, hanno condotto gli ermellini a dichiarare inammissibile il ricorso.
In primis, la Sesta Sezione ne evidenzia il difetto di genericità, assunto che le censure avanzate dai legali del recluso avverso l'impugnata decisione del Tribunale di Roma non poggiano su precisi elementi di fatto e di diritto ma, al contrario, si risolvono nella ripetizione più o meno sintetica dei motivi già dedotti in sede d'appello ex art. 310 c.p.p. e motivatamente respinti. Nondimeno, il ricorso ha finito per criticare l'approccio "ideologico" al problema seguito dal Tribunale romano, sollecitando il rispetto di valori fondamentali definiti dalla Costituzione e da convenzioni internazionali. Oltretutto – osserva la Cassazione – i Giudici dell'appello cautelare risultano aver compiutamente argomentato il provvedimento gravato, avendo esposto che:
In secondo luogo, la Suprema Corte prende posizione sul contenuto del comma 4-bis dell'art. 275 c.p.p., affermando che la disposizione richiede una situazione di concreta ed effettiva, non anche di ipotetica o potenziale, incompatibilità tra le condizioni di salute del recluso e il suo stato di detenzione, se del caso valutate come tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. In tale ottica, la verifica della specifica realtà della casa circondariale di Frosinone, ove il ricorrente si trova ristretto, ha consentito già ai giudici di merito di accertare la bontà delle misure precauzionali adottate per garantire un adeguato rispetto del distanziamento sociale tra i detenuti a rischio, nonché la possibilità per i reclusi che si trovano in condizioni di salute più precarie di godere del trasferimento presso altri istituti o presso strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario. In altri termini, pur riconoscendo che la patologica situazione di sovraffollamento in cui versano le carceri italiane possa costituire un fattore di agevolazione della diffusione del virus, la Sesta Sezione ha ritenuto – nel rispetto del principio di separazione dei poteri – di non poter innovare il dettato legislativo, e quindi di non poter creare un nuovo criterio di scelta nell'applicazione delle misure cautelari. Il comma 4-bis dell'art. 275 c.p.p., nel riferirsi ad una “malattia particolarmente grave, per effetto della quale le condizioni di salute [dell'imputato] risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere”, non legittima quindi l'interprete a disporre la misura custodiale meno contenitiva sulla base di mero giudizio prognostico ipotetico.
Da ultimo, i Giudici affrontano la questione attinente alla lamentata disparità di trattamento tra il ricorrente e i coimputati, questi ultimi beneficiari degli arresti domiciliari. Sul punto, peraltro, occorre premettere che l'impugnante nulla ha provato in merito alla diversità del contributo eziologico alla consumazione dei delitti ovvero al differente profilo cautelare soggettivo proprio di ciascun coimputato, sul presupposto che sia compito del giudice di merito verificare tali circostanze. A tal proposito, quindi, la Corte richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale – adottato, da ultimo, da Cass. pen., Sez. III, 28 gennaio 2020, n. 7784, Mazza – secondo cui, in tema di esigenze cautelari, la posizione processuale di ciascun coindagato o coimputato è autonoma, in quanto la valutazione da esprimere si fonda, oltre che sulla diversa entità del contributo materiale e/o morale assicurato alla realizzazione dell'illecito da ognuno dei concorrenti, anche su profili strettamente attinenti alla personalità del singolo, sicché può risultare giustificata l'adozione di regimi difformi pur a fronte della contestazione di un medesimo fatto di reato.
Come anticipato, per quanto sopra esposto, la Suprema Corte ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso. Osservazioni
A causa della crisi sanitaria, gli interpreti del diritto penitenziario sono chiamati ad affrontare quella che si è già avuto modo di definire l'ermeneutica dell'emergenza. È doveroso premettere che la portata fondamentale del diritto alla salute non può essere pregiudicata dall'ingresso nell'ambiente carcerario. In questo senso, lerisposte alle necessità di cura del soggetto ristretto non sono legittimamente diversificabili rispetto alle soluzioni fornite al resto della collettività. Ne è riprova la scomparsa della sanità penitenziaria e la sua riconduzione alla sanità generale, ovvero a quella regionale.
In ogni caso, le norme messe a disposizione dal legislatore a favore dei reclusi, nonostante l'emergenza in atto, sono quelle che tutti noi conosciamo, niente di più e niente di meno. Le norme esistenti, in altri termini, non hanno una geometria variabile. E (anche) su queste norme, gradite o meno che siano, deve basarsi il l'assoggettamento del giudice alla legge. Anzi, si può pure dire che esse costituiscono l'indipendenza stessa del magistrato, fermo restando – come noto – l'obbligo di interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme (nonché di disapplicazione delle norme interne contrastanti con il diritto UE). Oramai è chiaro che il moderno diritto penale si basa su giudizi di bilanciamento fra principi inevitabilmente in conflitto. L'imparzialità del giudice, in questo contesto, non può divenire indifferenza rispetto ai valori confliggenti ma neppure può rivelarsi strumento teleologicamente diretto alla manipolazione degli stessi. In ciò si fonda il divieto di analogia delle norme di cui si discute.
Nel dettaglio, poi, l'analisi dell'art. 275, commi 4-bis e 4-ter, c.p.p. (così come degli artt. 684, comma secondo, c.p.p. e 147 c.p. in relazione ai soggetti condannati in via definitiva) fa emergere con chiarezza quanto sino ad ora sostenuto. Il co. 4-bis testualmente sancisce che non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l'imputato è persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2, ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere; il comma 4-ter, invece, con riferimento all'ipotesi richiamata dal comma precedente prevede che, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Sul punto, non può che ritenersi condivisibile il tradizionale orientamento della giurisprudenza secondo cui l'impossibilità di disporre la custodia cautelare in carcere - o la necessità di revocare quella disposta - in presenza di condizioni di salute particolarmente gravi va valutata in relazione allo stato clinico attuale del detenuto e non sussiste nel caso di una patologia che presenti ipotesi meramente eventuali di eventi acuti, ma non prospetti pericolo attuale e concreto di esiti infausti e possa facilmente trattarsi con una terapia farmacologica praticabile e praticata all'interno del carcere (Cass. pen., Sez. VI, 28 giugno 1995, n. 2629, Audino, Rv. 202442; Cass. pen., Sez. V, 15 dicembre 1994, n. 5167, Iannace, Rv. 200463).
Analogamente,l'art. 684, comma secondo, c.p.p. (norma riservata ai detenuti che stanno espiando in carcere una condanna definitiva), affidando al magistrato di sorveglianza la valutazione prognostica della valutazione di rinvio dell'esecuzione della pena riservata al tribunale, laddove menziona il grave pregiudizio per il condannato derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, non fa di certo riferimento ex se al rischio da contagio né, tantomeno, alla carenza trattamentale – peraltro destinata (quantomeno) prioritariamente ai cd. definitivi – che l'attuale emergenza sanitaria determina all'interno delle carceri. Il requisito della malattia fisica particolarmente grave di cui agli artt. 275, comma 4-bis, c.p.p. e 147 c.p., infatti, presuppone la presenza di una significativa patologia fisica in essere che, scientificamente, in relazione ad un comprovato rischio – maggiore di quello extramurario – abbia l'attitudine attuale a divenire, di per sé, grave o irreparabile nel caso in cui scattasse il contagio. Com'è già stato autorevolmente notato, in tutti gli altri casi, compreso quello del detenuto che abbia contratto il coronavirus ma sia asintomatico nonché privo di altre rilevanti patologie e pertanto, nel concreto momento, compatibile con la condizione carceraria, l'unico rimedio è costituito dall'isolamento intramurario. Significativo, in tal senso, è notare che i dati ad oggi relativi alla diffusione della pandemia confermano che le scelte normative ed amministrative adottate sono state utili al contenimento del contagio negli ambienti detentivi: in carcere la diffusione del virus COVID 19 è stata - per quanto consta dalle notizie diffuse dagli enti competenti - inferiore tendenzialmente a quella di altri ambienti di contatto necessario, come le Residenze per Anziani e, a volte, gli stessi Ospedali (Cass. pen., Sez. VI, 15 settembre 2020, n. 27775). A quanti criticano questa presa di posizione valorizzando l'oggettiva difficoltà delle strutture penitenziarie di attuare il disposto di cui all'art. 11, comma undicesimo, ord. penit. soccorre un noto brocardo: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Concludendo, quindi, la tutela del diritto alla salute – non irragionevolmente ritenuto prevalente rispetto al contenimento della pericolosità cautelare e al dovere di esecuzione della pena detentiva – nelle ipotesi di non attualità del grave pregiudizio fisico del singolo detenuto esige, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore (al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione) –, il rafforzamento della risposta amministrativa e la predisposizione di ulteriori spazi carcerari deputati all'isolamento sanitario.
Per quanto attiene, infine, alle impugnazioni avverso pronunce ex art. 310 c.p.p., occorre sottolineare che la motivazione del provvedimento che si muove in ambito cautelare e coercitivo, è censurabile in sede di legittimità solo quando sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito o talmente priva di coordinazione e carente dei necessari passaggi logici da far risultare incomprensibili le ragioni che hanno giustificato l'applicazione della misura, sfociando nella categoria della "manifesta illogicità" (ex multis, Cass. pen., Sez. VI, 12 novembre 2015, n. 49153, Mascolo, Rv. 265244; Cass. pen., Sez. I, 7 dicembre 1999, n. 6972, Alberti, Rv. 215331). A tale regola è poi associato l'onere dell'interessato - a pena di aspecificità ex art. 581 c.p.p. dei motivi, e quindi d'inammissibilità del ricorso - di indicare, nel momento stesso in cui impugna un provvedimento, i motivi di gravame che intenda formulare. In questo senso, anche la giurisprudenza più recente ritiene che non può ammettersi una interpretazione d'ufficio della sua volontà in ipotesi inespressa o non chiara, in considerazione del fatto che i motivi hanno la funzione di precisare i limiti della devoluzione (Cass. pen., Sez. VI, 15 settembre 2020, n. 27775). Prendendo le mosse dal caso di specie, quindi, emerge come sia onere del ricorrente provare:
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