Emergenza Covid: riflessi penali del rischio clinico-organizzativo e responsabilità delle strutture sanitarie

23 Novembre 2020

Indipendentemente dall'oggetto specifico delle diverse responsabilità collegate ai danni derivanti dall'emergenza sanitaria in atto, una delle questioni che si agitano attorno agli effetti dannosi della pandemia da COVID–19 è riferita all'individuazione dei soggetti responsabili ...
I profili generali della responsabilità nell'emergenza Covid e la posizione delle strutture sanitarie

Indipendentemente dall'oggetto specifico delle diverse responsabilità collegate ai danni derivanti dall'emergenza sanitaria in atto, e con precipuo riguardo alla tipologia di responsabilità ipotizzabili (politiche, gestionali, civili, penali, amministrative), una delle questioni che si agitano attorno agli effetti dannosi della pandemia da COVID–19 è riferita all'individuazione dei soggetti responsabili e dei livelli di responsabilità individuabili nell'emersione di tali effetti dannosi.

Tralasciamo in questa sede (non certo per sottovalutazione, ma per strette ragioni di pertinenza) quelli che possiamo definire come effetti indiretti dell'emergenza sanitaria: ossia i danni di tipo economico (a livello individuale o generale), o quelli di tipo psicologico, o più genericamente quelli di tipo sociale (riferiti, ad esempio, al funzionamento di istituzioni, scuole, uffici o servizi pubblici dovuti a carenze di personale e mezzi, ecc.).

Concentriamoci invece sugli effetti dannosi diretti della pandemia: ossia quelli più direttamente collegati alla salute dei cittadini e al pregiudizio che essa riceve, nei singoli casi, a causa del contagio da coronavirus.

Con buona approssimazione sembra potersi parlare di un quadruplice livello di responsabilità ipotizzabili.

In primo luogo si può astrattamente immaginare che a rispondere dei danni collegati al contagio possano essere chiamate le persone che lo abbiano potuto veicolare. Si tratta di soggetti che possono trasmettere il contagio nelle occasioni e per le ragioni più disparate: può trattarsi di parenti o amici, appartenenti alla cerchia ristretta del soggetto che viene contagiato, oppure di persone del suo ambiente di lavoro o, ancora, di soggetti incontrati occasionalmente o perfino casualmente. La carica virale del coronavirus, stando a quanto affermato dagli studi in materia, è spesso molto elevata, specie in determinate condizioni; all'uopo sono state diffuse da tempo elementari regole di comportamento finalizzate a ridurre il rischio di contagio, perché ormai è risaputo che può risultare fatale anche un breve incontro a distanza ravvicinata, soprattutto in caso di mancato impiego di dispositivi individuali di protezione, perché il virus passi da una persona all'altra. Naturalmente, però, in tanto può parlarsi di una qualche responsabilità giuridica di tali categorie di persone in quanto la condizione di soggetto “portatore” del virus, e dunque del contagio, sia nota (quanto meno in termini di ragionevole sicurezza) al soggetto medesimo: è noto che molti sono gli asintomatici che, prima di sottoporsi ad accertamenti circa la positività al contagio, non hanno alcuna ragione di ritenersi positivi al coronavirus, anche quando lo sono; e certo non si può pensare di responsabilizzare indistintamente i cittadini fino al punto da indurli ad osservare le stesse regole di autoisolamento valevoli per chi ha accertato o sta verificando la propria eventuale positività.

In secondo luogo possono venire in considerazione le eventuali responsabilità dei sanitari (medici, infermieri ecc.) che abbiano in cura i soggetti che rimangono contagiati, in special modo – anche se non esclusivamente - quelli ricoverati in strutture sanitarie o RSA. In quest'ultimo caso ci si comincia ad addentrare nel campo d'indagine del presente lavoro, laddove è necessario misurarsi con l'osservanza di regole cautelari, protocolli sanitari e buone pratiche, a fini diagnostico-terapeutici, da parte di chi opera all'interno delle strutture cliniche e nell'ambito della relativa organizzazione.

In terzo luogo ci si colloca appieno all'interno del nostro ambito di ricerca: si possono infatti ipotizzare responsabilità organizzative o gestionali interne alle strutture sanitarie o, eventualmente, all'organizzazione sul territorio dei servizi sanitari, tali da interferire anche con l'operato dei singoli sanitari e con le loro responsabilità individuali. Il condizionamento che ne deriva può, in certi casi, spostare l'asse della rimproverabilità di eventuali comportamenti che risultino pregiudizievoli per l'utenza.

In quarto luogo, infine, possono ipotizzarsi responsabilità lato sensu politiche. Qui siamo ormai al di fuori del nostro pur ambizioso settore di indagine, sebbene non si possa ignorare la possibilità che effetti perniciosi su vasta scala siano imputabili, quanto meno politicamente, a taluni ritardi, a talune inefficienze o inerzie, o anche a talune iniziative improvvide adottate a livello territoriale locale o nazionale (spesso sulla base di rimpalli di responsabilità o forme di “conflitti negativi” di competenza) o addirittura in ambito sovranazionale.

Possiamo, insomma, tralasciare nelle considerazioni che seguono sia le questioni attinenti al contagio nella vita di tutti i giorni (in famiglia, a scuola, al lavoro o nelle altre normali occasioni di contatto sociale a carattere non sanitario), sia quelle riguardanti le scelte strategiche demandate agli organismi lato sensu politici: questioni che, per quanto detto, fanno parte rispettivamente del primo e del quarto livello di responsabilità; e ci possiamo quindi concentrare sul secondo e (ancor più) sul terzo livello: ossia su quei livelli “intermedi” costituiti dall'attività diagnostica e soprattutto di quella assistenziale e terapeutica (e delle connesse attività organizzative e logistiche) che si svolgono all'interno delle strutture sanitarie e, più in generale, nel circuito dell'organizzazione sanitaria. Ci interessa, in particolar modo, l'interconnessione fra le responsabilità delle strutture sanitarie presenti sul territorio e le responsabilità dei singoli operatori sanitari che vi lavorano; questo anche se, in chiusura, sarà fatto un cenno alle possibili interferenze delle decisioni di più ampio livello sulla gestione, sul funzionamento e sull'organizzazione delle singole strutture sanitarie.

Le diverse forme di responsabilità delle strutture sanitarie rispetto ai pazienti, secondo l'ordinamento giuridico

Nell'analisi che segue, appare necessario preliminarmente focalizzare quali siano le diverse forme di responsabilità giuridica delle strutture sanitarie nei loro rapporti con l'utenza, ossia essenzialmente con i pazienti; ci si riferisce, in primo luogo, alle responsabilità dei nosocomi rispetto ai degenti; ma anche a quelle della più generale categoria delle strutture sanitarie aventi finalità diagnostico-terapeutiche, o assistenziali, o di igiene e profilassi (ambulatori e poliambulatori, RSA ecc.) nei confronti delle rispettive categorie di utenti.

È chiaro che le responsabilità che qui interessano sono riconducibili a eventuali danni che i soggetti che fruiscono delle prestazioni di tali strutture possano riportare come effetto (diretto o indiretto) delle condotte (attive od omissive) poste in essere nell'erogazione delle suddette prestazioni: esemplificando, può trattarsi degli effetti di una diagnosi o di una terapia sbagliata, o di un intervento chirurgico non riuscito; può trattarsi di un farmaco che sortisce effetti indesiderati, oppure delle conseguenze dell'omissione o del ritardo di un comportamento doveroso e necessario; ma anche di un incidente accaduto all'interno delle predette strutture (una caduta dal letto, una scivolata sul pavimento ecc.), o anche, in certi casi, di una malattia iatrogena collegata all'ambiente interno alla struttura (come ad esempio nel caso, particolarmente interessante nell'attuale contesto, di contagi interni al reparto ospedaliero).

In primo luogo può parlarsi di responsabilità di natura civilistica, la cui disciplina è stata recentemente ridisegnata dalla nota legge Gelli - Bianco (l. n. 24/2017).

È noto che la tradizionale qualificazione della relazione terapeutica come tipica di un rapporto contrattuale di prestazione d'opera induceva a considerare anche la responsabilità del sanitario come di tipo contrattuale; analogo schema si adottava anche ricorrendo alla nozione di responsabilità da contatto sociale: si affermava che, pur in assenza di un contratto, la responsabilità del sanitario verso il paziente fosse assimilabile a quella contrattuale, con conseguente adozione del riparto di oneri probatori tipico delle obbligazioni da contratto. Natura contrattuale aveva anche il rapporto intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria: si affermava che tale rapporto avesse la sua fonte in un «atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto» (Cass. civ., Sez. III, n. 13953/2007; in senso analogo Cass. civ., Sez. III, n. 8826/2007).

Con la già citata legge Gelli-Bianco vi è stato un cambio di prospettiva, nel senso che l'art. 7 della legge ha introdotto una distinzione nella qualificazione della responsabilità del sanitario (ricondotta, di regola, alla nozione di responsabilità extracontrattuale, facendo però salva l'obbligazione contrattuale assunta direttamente dal medico con il paziente) rispetto alla responsabilità della struttura sanitaria (che invece è sempre di natura contrattuale e viene ricondotta nel c.d. contratto di spedalità di cui si sono già visti i fondamenti: con ciò che ne consegue in termini di oneri probatori e di prescrizione del diritto azionabile dal danneggiato, modulati sulle previsioni comuni alla responsabilità contrattuale in ambito civile).

Da tale precisazione appare evidente che il contenuto della prestazione medica e la stessa relazione sanitaria si differenziano alquanto a seconda che il rapporto fra medico e paziente sia, contemporaneamente, di tipo fiduciario ed esclusivo (medico di famiglia, specialista di fiducia ecc.), ovvero si collochi all'interno di una prestazione ospedaliera (anche laddove sia compresente un rapporto di fiducia con il paziente): nel primo caso, i compiti del medico sono rapportati in via sostanzialmente esclusiva ai suoi doveri terapeutici verso il paziente che a lui si è affidato; nel secondo caso, la prestazione sanitaria non si esaurisce nei doveri terapeutici, ma spesso abbraccia anche profili di tipo organizzativo e logistico, connessi alla fruizione delle strutture ospedaliere, ai turni di servizio, al coordinamento con altri reparti o servizi e con il personale infermieristico. Naturalmente questi profili hanno una funzione strumentale rispetto allo scopo principale dell'attività medica, ossia la tutela della vita e della salute del paziente; ma tale scopo, all'interno di una struttura ospedaliera, viene assolto nei confronti di una molteplicità di pazienti e, dunque, entrano in gioco esigenze di coordinamento e organizzazione che interferiscono o possono interferire con una pluralità di posizioni di garanzia.

È chiaro che, in tempi di epidemia da coronavirus, l'operatività dei diversi reparti di una struttura ospedaliera, come pure quella propria di residenze assistenziali ove i degenti siano persone in età avanzata e spesso affetti da altre patologie anche serie, è foriera di non trascurabili profili di rischio e di responsabilità connesse: profili di rischio e responsabilità che, certo, nella prima fase della pandemia non potevano essere conosciuti e fronteggiati consapevolmente come oggi. Ma a ben vedere lo stesso è a dirsi per ambulatori, poliambulatori, laboratori di analisi ecc., in cui, pur senza la presenza continuativa di soggetti esterni, vi è il quotidiano afflusso di utenti che fruiscono delle relative prestazioni e che, non di rado, si rivolgono a tali strutture in relazione a necessità diagnostico – terapeutiche in varia misura connesse al contagio, attuale o potenziale. Questo naturalmente chiama in causa una serie di fattori, da quello organizzativo/logistico a quello più strettamente riferito alle finalità di diagnosi, di terapia ecc., ai quali possono ricollegarsi le più varie tipologie di conseguenze dannose a carico di soggetti esterni, non tutte dipendenti dall'attività del personale sanitario.

Più problematico è invece il profilo delle cosiddette responsabilità amministrative derivanti da reato, di cui al d.lgs. 231/2001.

In primo luogo va tenuto presente che l'articolo 1 del decreto esclude dall'applicazione dello stesso alcune categorie di enti pubblici: vi si afferma infatti che il decreto non si applica “allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

Si ricorda che la Relazione Ministeriale al d.lgs. 231/2001 così recita, a tale proposito: «(…) la locuzione "enti pubblici che esercitano pubblici poteri" lascia residuare ampie zone d'ombra. Costituisce infatti un dato acquisito che da tale nozione esulano, accanto agli enti pubblici economici, numerosi altri enti pubblici. Alcuni di questi (pochi) sono enti pubblici associativi, dotati sostanzialmente di una disciplina negoziale, ma a cui le leggi speciali hanno assegnato natura pubblicistica per ragioni contingenti (ACI, CRI, ecc.). Ma la categoria più significativa concerne gli enti pubblici che erogano un pubblico servizio, tra cui le Istituzioni di assistenza e, soprattutto, le Aziende ospedaliere, le scuole e le Università pubbliche, ecc. (...) Non si può nascondere infatti che, a prima vista, il dettato della delega sembrerebbe imporre l'inclusione di tutti questi enti nel novero dei destinatari delle disposizioni del decreto legislativo; il dato testuale parrebbe cioè prevedere l'assoggettamento alla disciplina sanzionatoria come la regola: rispetto ad essa, le eccezioni andrebbero contenute nei limiti dello stretto indispensabile. Quanto agli enti associativi, tuttavia, essi sono oggi soggetti ad una forte tendenza alla privatizzazione che presumibilmente ne comporterà l'estinzione entro breve termine. Pertanto - e salvo pure quanto verrà aggiunto di seguito - l'estensione della responsabilità a questi soggetti avrebbe comportato un costo probabilmente non compensato da adeguati benefici: il che risulta evidente ove si consideri che la dottrina pubblicistica non è affatto concorde nel tracciare la linea di distinzione tra questa categoria e gli enti pubblici associativi c.d. istituzionali (come gli Ordini e i collegi professionali), per i quali valgono considerazioni analoghe a quelle che saranno esposte immediatamente di seguito per gli enti pubblici esercenti un pubblico servizio. (...) consentono di ritenere con ragionevole certezza che il legislatore delegante avesse di mira la repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente economica, e cioè assistite da fini di profitto. Con la conseguenza di escludere tutti quegli enti pubblici che, seppure sprovvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici prescindendo da finalità lucrative.».

Dunque la scelta del legislatore è stata quella di escludere le aziende ospedaliere che operano in regime pubblicistico e, più in generale, le strutture che erogano un pubblico servizio anche di tipo assistenziale. Ciò, naturalmente, non vale per le non poche strutture sanitarie a carattere privato, che quindi sono soggette alla disciplina prevista dal decreto legislativo. Si è peraltro visto che la ragione dell'esclusione delle strutture pubbliche ospedaliere e di assistenza è riferita ai costi che un'inclusione di tali strutture nell'ambito di applicazione del d.lgs. 231/2001 avrebbe comportato: e, dunque, a una scelta del legislatore a presidio di una valutazione di opportunità e di convenienza. Una valutazione incentrata sugli enti di natura pubblicistica, alla quale sono estranee le strutture private, in relazione alle quali evidentemente le nozioni di “interesse” e di “vantaggio” (di cui all'art. 5 del decreto) assumono tutt'altro significato.

Ciò posto, va sottolineato che i profili di esposizione delle strutture sanitarie private a responsabilità amministrativa da reato non possono, in generale, ricollegarsi a delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose direttamente conseguenti all'esercizio dell'attività sanitaria propriamente detta. Ed invero, l'articolo 25-septies del d.lgs. 231/2001 (aggiunto dalla l. 3 agosto 2007, n. 123 e poi modificato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) ha bensì esteso l'applicazione della responsabilità amministrativa degli enti ai casi di omicidio colposo o lesioni colpose gravi o gravissime, ma solo qualora tali reati siano commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro: il che, in linea di massima, esclude dal campo di applicazione del decreto legislativo i fatti aventi conseguenze lesive o letali commessi con violazione delle leges artis proprie dell'attività degli operatori sanitari.

Viceversa la responsabilità amministrativa da reato è certamente ipotizzabile a carico degli enti ospedalieri privati e,in generale, delle strutture sanitarie e assistenziali private per quanto concerne le condizioni di lavoro dei propri addetti (atteso il richiamo della normativa prevenzionistica di riferimento al caso dell'esposizione dei lavoratori a “rischi biologici di cui all'articolo 268, comma 1, lettere C e D”, tra cui certamente rientra anche il virus Sars-CoV-2: sul punto v. GARGANI), laddove il rischio di contagio non sia debitamente previsto e prevenuto in relazione ai protocolli operativi applicabili, e semprechè siano configurabili le altre condizioni legittimanti l'applicazione del decreto legislativo 231/2001 (a cominciare dalla configurabilità dell'interesse o del vantaggio dell'ente – ad esempio mediante risparmio di spesa - in relazione alle condotte, attive od omissive, imputabili ai soggetti apicali; proseguendo poi con l'ipotizzabilità della colpa di organizzazione).

Del resto non è un caso che l'art. 42 del d.l. 17 marzo2020 n.18 abbia equiparato l'infezione da COVID-19 in occasione di lavoro all'infortunio sul lavoro: tant'è che è stato sottoscritto tra le parti sociali il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, successivamente richiamato dall'art.2,comma10,delD.P.C.M.10aprile2020 e aggiornato con Protocollo del 24 aprile a sua volta recepito dal D.P.C.M. del 26 aprile: scopo di tali protocolli è la predisposizione, da parte del datore di lavoro, di misure anti Covid-19 aventi ad oggetto l'informativa dei lavoratori, il controllo degli accessi sui luoghi di lavoro, l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (cd. D.P.I.), la pulizia e la sanificazione dei locali, l'uso degli spazi comuni, la riduzione degli spostamenti e la gestione di eventuali casi sintomatici; ciò ha evidenti ricadute sul contenuto degli obblighi datoriali in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui alla disciplina contenuta nel d.lgs. 81/2008 (PAGANI).

Può, infine, osservarsi che le disposizioni a tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro possono trovare applicazione anche in riferimento a danni patiti da soggetti estranei all'attività lavorativa (e dunque, nel caso delle strutture sanitarie o assistenziali, anche dai terzi che fruiscano delle prestazioni erogate da tali strutture, o da altri soggetti ivi presenti), a condizione che l'evento realizzatosi concretizzi il rischio che la regola cautelare violata mirava a prevenire, con la conseguenza che ove la persona offesa dal reato non sia un lavoratore ma un terzo, la circostanza è ravvisabile solo se la regola prevenzionistica sia dettata a tutela di qualsiasi soggetto che entri in contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione (cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 51142/2019).

Resta da affrontare il tema delle altre ipotesi di responsabilità di tali strutture a seguito della commissione di reati di omicidio colposo o di lesioni colpose strettamente connessi all'attività sanitaria.

Non può parlarsi, ovviamente, di responsabilità penali con diretto riguardo alla struttura sanitaria considerata quale soggetto giuridico autonomo, avuto riguardo al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Cost.). Tuttavia ben può accadere che le responsabilità dei singoli trovino la loro ragion d'essere nel ruolo che gli stessi hanno avuto nell'organizzazione del funzionamento generale o delle prestazioni particolari della struttura sanitaria (si parla, a tal proposito, delle cosiddette responsabilità “di secondo livello”, che attingono i vertici organizzativi delle strutture); ma ancor più numerosi sono i casi in cui carenze organizzative o logistiche della struttura (o particolari condizioni di difficoltà operativa), che riverberano effetti sulla singola attività terapeutica, rendono necessario verificare la responsabilità penale del singolo operatore sanitario (medico o infermiere) alla luce di quanto emerge circa i profili problematici dell'organizzazione e del funzionamento della struttura sanitaria di riferimento. Se ne parlerà nei paragrafi che seguono, sia sul piano generale, sia in rapporto all'emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da coronavirus.

Ciò che si può dire fin da ora è che l'emergenza COVID-19 ha sollecitato l'attenzione di giuristi e operatori del diritto su una serie di problemi del tutto nuovi e peculiari per l'approccio penalistico al problema della responsabilità in ambito sanitario, tali da porre in discussione e da far vedere sotto nuova luce alcuni principi fondamentali in tema di colpa medica.

Le responsabilità penali di “secondo livello” nell'organizzazione e nel funzionamento della struttura sanitaria, in generale e nell'emergenza da Coronavirus

Il rilievo delle responsabilità penali in ambito sanitario anche a livello organizzativo e gestionale forma da tempo oggetto di studi e riflessioni da parte della dottrina, presso la quale si è radicata la consapevolezza che il modulo aziendalistico ha ormai preso piede da molto tempo nell'ambito delle strutture sanitarie; e che, con esso, anche nell'accertamento delle responsabilità penali si pongono problemi strettamente connessi con i profili organizzativi e funzionali di ospedali, cliniche, ambulatori o strutture residenziali/assistenziali.

Si è parlato, da parte di alcuni (CALETTI), di responsabilità sanitarie di “secondo livello”, ad indicare quelle ricollegabili all'organizzazione della struttura sanitaria, anche al livello di management e dunque di dirigenza della struttura stessa, nella convinzione che la ricerca del responsabile penale delle vicende di malpractice sanitaria spesso non può esaurirsi nella valutazione degli addebiti a carico del personale medico o infermieristico che vi opera a diretto contatto con il paziente, ma va sovente ricercata in disfunzioni a livello organizzativo o logistico, imputabili ad altri soggetti di livello superiore e sulle quali il personale sanitario “di reparto” non ha nessuna possibilità di governo del rischio.

Viceversa, la giurisprudenza penale ha avuto per lungo tempo un atteggiamento di scarsa attenzione alle responsabilità organizzative in ambito sanitario nel verificarsi di eventi letali o lesivi ai danni dei pazienti.

Di solito, infatti, mentre le carenze gestionali e organizzative in ambito ospedaliero o nelle strutture sanitarie di tipo non nosocomiale hanno da sempre un rilievo notevole nell'accertamento delle responsabilità di tipo civilistico o amministrativo, tale rilevanza è stata spesso trascurata nell'ambito dei giudizi penali, ove invece l'individuazione delle posizioni di garanzia e delle connesse responsabilità ha tradizionalmente condotto ad attribuire ad esercenti le professioni sanitarie, nella diretta esplicazione di attività diagnostico – terapeutica, la colpa dei reati di omicidio e lesioni colpose a carico dei pazienti. Al più, l'attribuzione degli addebiti penali a livello plurisoggettivo avviene di regola nell'ambito delle ipotesi di cooperazione colposa (art. 113 c.p.) con l'accertamento delle singole responsabilità nel lavoro di équipe, specie in ambito chirurgico, oppure nell'ambito della successione (soprattutto diacronica) delle posizioni di garanzia (es. medici che si succedono nel turno, medico di pronto soccorso che “dirotta” il paziente verso il reparto di pertinenza, ecc.).

Non sono tuttavia mancati di recente – ed anzi tendono a crescere di numero e di importanza - casi in cui l'addebito di responsabilità penali per reati di omicidio o lesioni colpose in danno di pazienti o di utenti di prestazioni sanitarie è stato mosso o ipotizzato nei riguardi di soggetti apicali, depositari non già di funzioni operative in campo sanitario, ma di poteri gestionali e organizzativi.

Tra le fattispecie più significative si può ricordare il caso dell'attribuzione di responsabilità penale per omicidio colposo nei confronti del direttore sanitario di una clinica, in relazione al decesso per shock emorragico di una paziente avviata a parto cesareo gemellare, risultata anemica: la struttura sanitaria era priva di emoteca e quindi inidonea alla gestione di un simile intervento. Al direttore sanitario, titolare di specifiche responsabilità di tipo manageriale, venne mosso il rimprovero di non avere verificato l'appropriatezza delle prestazioni erogate dalla clinica in relazione alla mancanza di un'emoteca e dei requisiti strutturali per la gestione delle possibili complicanze post partum nei termini stabiliti dalla Raccomandazione n. 6 del Ministero della Salute del 31 marzo 2008, ed in base ai compiti assegnati al direttore sanitario dal D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128. All'esito del giudizio di legittimità, susseguente alla condanna del direttore sanitario (nonché dell'anestesista e del primario ostetrico) nei due gradi di merito, la Cassazione, ravvisata l'attribuibilità della colpa al predetto soggetto apicale per carente predisposizione di scorte di sangue adeguate, mancanza di fissazione di protocolli e modalità con cui contattare ospedali pubblici o strutture più idonee in situazioni emergenziali, ha affermato il principio secondo cui, in tema di reati colposi, il direttore sanitario di una casa di cura privata è titolare, in virtù dei poteri di gestione e organizzazione della struttura a lui spettanti, di una posizione di garanzia giuridicamente rilevante, tale da consentire di configurare una responsabilità colposa per fatto omissivo per mancata o inadeguata organizzazione (c.d. "colpa da organizzazione"), derivante dall'inottemperanza all'obbligo di adottare le cautele organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di reati, sempre che questi non siano ascrivibili esclusivamente al medico e/o ad altri operatori della struttura (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 32477 del 19/02/2019, con nota di C. ALTOMARE).

Interessante è pure il caso del decesso di una paziente a seguito di un'operazione di appendicectomia, durante la quale vi era stata un'interruzione di energia elettrica che aveva interrotto temporaneamente il funzionamento del respiratore automatico. Nonostante le manovre apparentemente salvifiche dei medici in sala operatoria, dopo qualche giorno la paziente moriva a causa di un danno anossico cerebrale. Nel corso del procedimento era emerso che la sala operatoria era stata ristrutturata senza il rispetto della normativa di settore; di tale aspetto si era occupato direttamente il direttore generale dell'ASL competente, la cui condanna – al pari di quella di numerosi altri coimputati – veniva confermata dalla Suprema Corte; la diretta ingerenza gestionale del direttore generale sollevava in quel caso da responsabilità il direttore sanitario: al riguardo la Corte di legittimità affermava che al direttore sanitario della A.S.L., quale ausiliario del direttore generale, spettano poteri e doveri di vigilanza ed organizzazione tecnico-sanitaria, ivi compresi quelli relativi alla tutela dei lavoratori che svolgono la propria prestazione nei luoghi della struttura aziendale, potendosi escludere la sua responsabilità solo nel caso in cui il direttore generale eserciti direttamente compiti di gestione, adottando i relativi atti amministrativi, così da ingerirsi nell'attività propria del direttore sanitario (Cass. pen., Sez. IV, n. 7597/2013).

In altre vicende giudiziarie hanno invece assunto rilevanza i compiti e le responsabilità organizzative, di direzione, coordinamento e controllo del dirigente medico in posizione apicale nell'ambito di strutture sanitarie complesse, rispetto al quale si è posto il problema dell'assunzione di una posizione di garanzia per eventi lesivi o letali occorsi a pazienti curati da altro personale medico operante in tali strutture. In siffatte ipotesi si è affermato che il medico in posizione apicale che abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo, non risponde dell'evento lesivo conseguente alla condotta colposa del medico di livello funzionale inferiore a cui abbia trasferito la cura del singolo paziente, altrimenti configurandosi una responsabilità di posizione, in contrasto col principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (Cass. pen., Sez. IV, n. 18334/2017, con note di G. FIORINELLI e di E. GRECO).

Scenari nuovi e interessanti, ma irti di complessità e problematicità, si aprono con riguardo all'impatto dell'emergenza da coronavirussulla posizione e sulle responsabilità della dirigenza, sia sanitaria che organizzativa, della struttura ospedaliera o assistenziale. Qui, il profilo del funzionamento, dell'organizzazione e della gestione della struttura si misura con la necessità di tutelare sia i pazienti e i fruitori delle prestazioni sanitarie e assistenziali, sia il personale (sanitario e non) che vi lavora, dal rischio – contagio: un rischio immanente e per certi versi inafferrabile (non tutto è ancora noto e pacifico nella lotta al Sars-CoV-2 e nella prevenzione del contagio), ma di fronte al quale si sono presto consolidate alcune fondamentali regole di cautela (dal distanziamento dei malati, all'istituzione separata di “reparti COVID” distinti da quelli “COVID-free”, alle varie operazioni di sanificazione e disinfezione, alle necessità di beni di consumo come mascherine, guanti, tute ecc.). Purtroppo, però, alla conoscenza di tali regole di cautela spesso non si accompagna la disponibilità di strumenti, attrezzature e dispositivi idonei a darne attuazione: è nota e diffusa la condizione di shortage di alcune dotazioni strumentali finalizzate all'adozione di misure preventive (al pari di quanto accade per alcuni indispensabili strumenti diagnostici, come i reagenti per i monitoraggi mediante tampone, che in molte strutture scarseggiano); anche il costo di talune operazioni non è sempre agevolmente sostenibile.

Ora, è chiaro in relazione a quanto si è finora detto che vi è un'esposizione (anche) della dirigenza delle strutture sanitarie (ma anche di quelle assistenziali: si pensi ad esempio alle RSA) a responsabilità penali, oltre alle già citate responsabilità amministrative dell'ente, per delitti di omicidio o lesioni colpose causati da contagio da coronavirus. Tanto più che i rischi di contagio ben possono concretizzarsi a causa di carenze negli approvvigionamenti di dispositivi e di strumenti indispensabili nella lotta al COVID-19. Il problema è che spesso tali carenze non risalgono a scelte finalizzate a risparmi funzionali all'ottenimento di profitti maggiori, ma all'oggettiva indisponibilità di determinati beni o all'altrettanto oggettiva carenza di risorse finanziarie, spesso riconducibile a sua volta a un livello ancora superiore (quello lato sensu politico, o di alto livello amministrativo - finanziario, caratterizzato da scelte discrezionali) rispetto al quale le decisioni gestionali risultano fortemente condizionate e finiscono per sottrarsi a possibili addebiti (DI LANDRO).

Questo senza contare che le difficoltà operative nel contrasto al virus, l'estrema problematicità dell'accertamento delle serie causali in una condizione così pervasiva di contagio e i forti margini di dubbio tuttora persistenti su alcune acquisizioni scientifiche riverberano necessariamente i loro effetti (anche) sull'accertamento di responsabilità gestionali e organizzative, e non solo di quelle più strettamente operativo – sanitarie. Ulteriori, non trascurabili difficoltà nell'accertamento delle responsabilità si profilano anche per quanto riguarda gli effetti delle condizioni di sovraffollamento di molti reparti ospedalieri sulle scelte terapeutiche, sovente drammatiche, cui sono stati costretti in diversi casi gli operatori sanitari (BOLCATO/TETTAMANTI/FEOLA): condizioni di sovraffollamento che in qualche caso vengono fatte risalire a carenze strutturali che trascendono il livello di responsabilità organizzativa del singolo nosocomio, o addirittura a croniche inadeguatezze del sistema sanitario territoriale dovute a scarsa previdenza da parte dei decisori politici.

Esposizione a responsabilità penale per omicidio e lesioni colpose di medici e infermieri a causa di problemi organizzativi della struttura: le peculiarità dell'emergenza pandemica

Nell'esperienza giurisprudenziale, a fronte di addebiti mossi al personale sanitario operante a diretto contatto con il paziente, sono sovente affiorate carenze organizzative della struttura di riferimento, tali da indurre a collocare altrove il piano della responsabilità.

Tra gli esempi si può ricordare il caso del primario di un reparto ospedaliero processato per il decesso di un paziente che era stato ricoverato presso l'unità di terapia intensiva coronarica ed era deceduto per infarto sebbene dovesse essere monitorato attraverso il servizio di telemetria. Il funzionamento di tale servizio risultava però affetto da carenze organizzativo – funzionali tali da ricondurre alla responsabilità della dirigenza della struttura, che non aveva prestato ascolto alle richieste di integrazione del personale rivolte più volte dal primario, la cui condanna veniva perciò annullata (Cass. pen., Sez. IV, 3 dicembre 2015, n. 2541, con nota di CALETTI).

Si può citare anche il caso dei due medici (uno di pronto soccorso ortopedico, uno di pronto soccorso generale) chiamati a rispondere di omicidio colposo di un paziente che il primo medico, non disponendo di adeguata strumentazione, aveva inizialmente curato per una frattura alla spalla, ed aveva successivamente avviato al reparto d'urgenza del collega avendo sospettato altre patologie; mentre il secondo medico, che era solo in reparto ed era impegnato in altra attività d'urgenza, lo aveva visitato più di un'ora dopo (in quanto il triage gli aveva assegnato solo un codice verde): troppo tardi per salvare il paziente, poi deceduto per shock emorragico da frattura della milza. I due sanitari venivano assolti in appello e la sentenza veniva confermata in Cassazione, sul rilievo che, pur essendo accertata la dipendenza causale del decesso dalla diagnosi tardiva della frattura della milza, le palesi disfunzioni organizzative della struttura sanitaria avevano reso sostanzialmente impossibile un intervento tempestivo (Cass. pen., Sez. IV, 7 ottobre 2014, n. 46336, con nota di NIZZA).

Si ricorda infine il recente caso dell'infermiera che cagionava la morte di un paziente per uno scambio di farmaci, avendo confuso un flacone contenente eparina con un altro contenente insulina: quest'ultima sostanza veniva somministrata al paziente che moriva a seguito di coma ipoglicemico. La Cassazione annullava la sentenza d'appello, confermativa della condanna in primo grado, sul rilievo che l'incidente sanitario andava ricondotto a un deficit di natura organizzativa, relativo alle modalità di conservazione delle due sostanze, i cui flaconi erano oggettivamente rassomiglianti (Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2019, n. 49768, con nota di BERTELLONI).

Si tratta ora di stabilire come si rapportano le vicende processuali, nelle quali l'accertamento della responsabilità del singolo operatore sanitario si collochi all'interno di un contesto organizzativo affetto da malpractice, con l'attuale emergenza pandemica.

E' stato al riguardo correttamente affermato che tale condizione emergenziale «ha evidenziato in modo ancor più nitido il legame che intercorre tra eventi infausti e moduli organizzativi»; e ciò non solo, come si è già visto, «nella prospettiva di edificare – nel rispetto del principio di colpevolezza – nuove forme di colpa in capo ai dirigenti», ma anche, specularmente, «in chiave di deresponsabilizzazione per il sanitario» (CALETTI). La specularità sta, anche in questo caso, nel fatto che, anche nell'accertamento delle responsabilità penali, una volta esclusa la responsabilità del singolo operatore «occorrerà interrogarsi se e a quale titolo si potrà poi chiamare in causa la struttura» (CUPELLI).

In realtà, sotto molteplici profili si avverte l'esigenza di riflettere sulla possibilità di limitare le responsabilità configurabili in capo agli operatori sanitari, i quali si trovano ad affrontare quotidianamente una serie di condizioni estreme nei reparti COVID e, più in generale, nella gestione del contagio e dei suoi effetti: condizioni rappresentate da un numero spesso abnorme di pazienti che affluiscono ogni giorno negli ospedali, affollando i Pronto Soccorso, i reparti dedicati e anche quelli di terapia intensiva e sub-intensiva; dalla necessità di affrontare un nemico invisibile senza precisi e univoci punti di riferimento terapeutici, con grande espansione della problematica connessa alla medicina off label; dalle carenze di personale medico e infermieristico (al punto da dover reclutare e condurre in trincea anche i neolaureati); dai limiti delle risorse e dei mezzi di ogni tipo; dall'esposizione degli stessi sanitari al contagio e ai rischi connessi; e purtroppo, a volte, dalla dolorosa necessità – dovuta anch'essa a carenze strutturali e organizzative - di operare delle scelte terribili per decidere non solo chi curare prioritariamente, ma addirittura quali urgenze affrontare e quali accantonare, in relazione all'età del paziente, alle sue condizioni, alle sue possibilità di guarigione e di salvezza e alla sua aspettativa di vita.

In tale angoscioso contesto non sono mancati gli studiosi che si sono posti il problema di una lettura “adeguatrice” della scriminante dello stato di necessità (CUPELLI) o di una revisione critica (anche in una prospettiva de iure condendo) delle disposizioni attualmente vigenti introdotte dalla legge Gelli – Bianco (ROIATI); ma è chiaro che alcune delle difficoltà nelle quali si vengono a trovare gli operatori sanitari dipendono, almeno in parte, da criticità organizzative e strutturali, a volte concentrate nel singolo nosocomio, ma spesso di portata ben più estesa e riconducibili, perciò, a decisioni sovraordinate rispetto alla singola struttura sanitaria. Questo anche se non va trascurato che la complessità della situazione e la configurabilità (probabilmente frequente) di decorsi causali alternativi potrebbe spesso comportare, nelle singole vicende, notevoli difficoltà anche nell'accertamento delle responsabilità penali e nell'individuazione di coloro ai quali esse vanno attribuite (BERNARDI).

In conclusione

Tirando le somme, è evidente che la posizione delle strutture sanitarie ai fini dell'accertamento della responsabilità penale nelle morti da COVID-19, che nell'ordinarietà presenta profili di crescente rilievo, risente delle peculiarità di una situazione oltremodo complessa, dovuta sia a problemi organizzativi e a carenze di mezzi e di personale che sovente sono di più ampio respiro – e, come tali, sfuggono alla possibilità di controllo e di intervento della dirigenza della singola struttura -, sia ad oggettive difficoltà nello stesso approccio medico-scientifico alla cura dei malati colpiti dal virus.

E' chiaro infatti che l'accertamento delle responsabilità è estremamente problematico, atteso che la posizione degli ospedali, delle RSA e delle altre strutture impegnate sul fronte della lotta all'emergenza pandemica è “intermedia” fra quelle dei singoli operatori sanitari che vi prestano servizio a vario livello e a vario titolo (a partire dai dirigenti di reparto e dagli altri medici fino ad infermieri e OSS) e quelle del livello nel quale si adottano le decisioni di più ampio respiro: un livello che è, spesso, a sua volta difficile da decifrare, stante l'atomizzazione e, in certi casi, la sovrapposizione delle responsabilità tra organismi politici, tecnici o amministrativi, o tra competenze territoriali e nazionali.

Quest'ultimo livello può, approssimativamente, farsi coincidere con il “quarto livello” di responsabilità di cui si è parlato nel primo paragrafo di questo lavoro (v. supra); qui basterà accennare al fatto che, già in esito alla prima fase della pandemia, sono state presentate numerose denunce e si sono aperti fascicoli di indagine in relazione a quanto accaduto in certi nosocomi o in certe strutture assistenziali per anziani; e che, nell'ambito di tali procedimenti, si è pure proceduto a verificare le responsabilità ipotizzabili non solo a carico della dirigenza delle singole strutture, ma anche dei soggetti portatori di responsabilità di più alto livello, ossia lato sensu politiche; del resto, come pure è stato acutamente osservato a proposito della prima fase della pandemia (ma certamente a valere anche per l'attuale fase), «il perdurare della COVID-19 e il conseguente varo a getto continuo di norme cautelari sempre più pervasive hanno determinato un incredibile aumento delle persone coinvolte nella gestione dell'emergenza sanitaria», diffondendo a tutti i livelli l'attribuzione di specifici obblighi cautelari (BERNARDI).

È chiaro, in ogni modo, che chi volesse accertarsi dell'eventuale configurabilità di responsabilità gestionali e organizzative in capo alla dirigenza della singola struttura sanitaria per vicende collegate all'emergenza COVID dovrà, in molti casi, misurarsi non solo con l'operato del personale sanitario direttamente coinvolto, ma anche con il ruolo che, nelle singole vicende, possano avere avuto le decisioni di più alto livello: ad esempio quelle riguardanti l'allocazione delle risorse, l'approvvigionamento e la distribuzione dei posti, dei mezzi, dei dispositivi e dei materiali, l'allestimento di reparti o presidi ospedalieri dedicati, il reclutamento e l'assegnazione del personale, o lo stesso avviamento di determinate categorie di pazienti o degenti alle diverse tipologie di strutture.

*Fonte: ilpenalista.it

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