Cassazione vs Tabelle di Milano. Il contributo della medicina-legale nella valutazione del danno a persona del bene salute nella componente non biologica
27 Novembre 2020
Introduzione
Una recente sentenza della Suprema Corte - Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2020 n. 25164 ha posto, secondo una sua interpretazione ribadita ormai più volte, l'accento sulle criticità presenti nelle cosiddette Tabelle Milanesi per la liquidazione del danno a persona, in merito alle modalità di riconoscimento operate dalle stesse sulla porzione non biologica del danno. Il Dott. Spera, coordinatore dell'Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano, ha riaffermato nel commento alla sentenza, la validità delle tabelle meneghine suggerendone una variazione grafica e di sostanza nella quale l'apporto medico-legale, anche nell'attribuzione delle quote non direttamente riferibili al danno biologico, risulta fondamentale. L'Autore offre un proprio contributo, di squisito accento medico legale, ad un dibattito che si sta facendo centrale per l'accertamento e la liquidazione del danno a persona da lesione del bene salute. Forse parrebbe inutile sottolinearlo ma una premessa fondamentale mi pare doverosa. Gli specialisti in medicina legale che operano sul territorio e anche di quelli che sono chiamati allo studio e alla didattica per il loro ruolo accademico o di fama, non sono giuristi. Di conseguenza, il loro contributo all'interno di un sistema che è basato sulla corretta interpretazione della Legge, ha un valore relativo quanto a mere competenze. Allora che senso ha intervenire su una tematica tanto complessa? È presto detto. I medici legali sono gli attori principali nella determinazione del danno biologico che è il fulcro riconosciuto della compromissione del bene salute da azione dolosa o colposa. La loro attività, quindi, si ripercuote fortemente su di un complesso di decisioni che coinvolge migliaia di persone e interessa altrettante migliaia di processi con un valore economico di elevatissime proporzioni. In più, i medici legali sono testimoni diretti, non solo delle menomazioni psico-fisiche subite ma dell'impatto di entità variabile che queste ultime hanno su quello che i giuristi chiamano “sofferenza interiore”. Ne sono quindi gli spettatori e i testimoni. Nessuno nel processo civile ne è coinvolto come loro perché nessuno vede “la carne” e “lo spirito” dei danneggiati. I loro patrocinatori ne sentono forse il racconto ma non ne apprezzano né ne percepiscono l'origine. Dal canto loro, i Giudici e i legali delle controparti leggono solo dei “report” suffragati o meno da prove. Ora, non sta certo al sottoscritto determinare quali siano gli elementi fondanti per valorizzare o meno la componente di “sofferenza” che accompagna il danno all'interno di un meccanismo giuridico complesso. E questo fa parte di quel rigore che ognuno di noi come sanitario professionista della salute affiancato ai giuristi deve puntualmente ricordare ogniqualvolta affronti simili argomenti. Altrettanto, però, dovrebbero fare gli altri attori della partita che si sta giocando. Coscienza dei limiti quindi, e coscienza anche del passaggio di frontiere che si sono anche recentemente materializzate sulla questione “danno a persona”, sia in occasione della ordinanza “decalogo” (Cass. civ., n. 7513/2018) come si dirà, sia, con ancora maggiore evidenza, nell'intervento della Suprema Corte sul danno-differenziale incrementativo (Cass. civ., n. 28986/2019), ove non si è discusso solo della liquidazione del danno biologico in relazione alle preesistenze patologiche, ma anche della valutazione dello stesso senza tener conto, al di là delle decisioni prese che possono o meno condividersi, di non possedere alcuna base di reale conoscenza di quella che è oggi la medicina moderna nella sua complessità di conoscenze. È chiaro che siamo di fronte ad un'altra storia che è quella del limite della Giurisprudenza che si fa “dottrina” – come dice il Castronovo - o della “dottrina” che sonnecchia e non riesce ad entrare in un dibattito compiuto che proponga idee nuove al posto di soluzioni imperative giudiziarie. Personalmente, come a molti colleghi di non più verde età, questo dibattito sulla sovrapposizione di danno biologico e danno dinamico relazionale fa tornare in una vecchia querelle che nessuno ricordava più ovvero quella che contrapponeva “danno biologico” a “danno alla salute” con un ritorno quindi all'antico. E qui è la dottrina, anche medico-legale, che dovrà rimettere ordine in un panorama che, certamente, sotto il profilo concettuale, specie per la medicina legale, è oggettivamente confuso. Il medico legale e la quota di danno non biologico da lesione del bene salute
Pare evidente che i motivi della contesa Cassazione-Tabelle di Milano nascano dalla modifica operata sull'art. 138 del Codice delle Assicurazioni dalla l. 124 del 4 agosto 2017. È vero che del Legislatore si può parlar male liberamente, ma sta di fatto che la norma, anche se un po' dissennata, è la norma e quindi il ritorno in campo dell'autonomia liquidativa del “danno morale” trova in quel dettato normativo il suo fondamento. Quindi, concetti che apparentemente qualcuno dava per integrati in una prospettiva di globalità definitoria e liquidativa, ritornano improvvisamente a galla con tutte le conseguenze del caso. Non c'è, però, solo la questione del “danno morale” da affrontare, ma anche quella degli specifici aspetti dinamico relazionali personali che per il sunnominato art. 138, comma 3, cod. ass.), qualora obiettivamente documentati e accertati, possono far aumentare la liquidazione del danno fino al 30%. Tutto questo nell'ambito delle cosiddette macropermanenti (valutazioni dal 10 % di danno biologico in su). L'interessamento di questi “aspetti dinamico relazionali”, peraltro, quando si passi al caso delle micropermanenti, regolate dall'art. 139 del Codice delle Assicurazioni, può indurre il Giudice a praticare un aumento della liquidazione fino al 20%. Ma non basta, però, perché sempre l'art. 139 cod. ass. specifica in modo chiaro che il possibile aumento del 20% può venire concesso anche quando la menomazione “abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità”. Qui il sottoscritto si tace perché cosa il Legislatore intenda affermare è certamente oscuro. Ma non è questo, come dicevo più sopra, il mio perimetro e da questo immediatamente mi ritiro. Comunque, cosa che risalta sia nelle ultime sentenze di Cassazione e che viene sottolineato anche dal Presidente Spera nel suo articolo, il danno a persona, oggi – per quello che riguarda l'interpretazione giurisprudenziale - presenta al suo interno tre, diciamo, sottospecie di pregiudizi non patrimoniali: il danno biologico, il danno da sofferenza interiore e quello da interessamento della sfera dinamico relazionale personale. Il medico legale e la sfera dinamico relazionale
Su quest'ultimo già molto si era detto e scritto in merito all'entrata in scena del medico-legale in tempi passati. Già il quesito al CTU proposto dall'Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano (E. Ronchi Nel quesito al CTU, il danno non patrimoniale come novellato dalla Legge 124/2017 Ridare.it) chiariva in modo evidente la questione. Di fronte a riferite incapacità di effettuazione di determinate attività, documentate e provate da corrette allegazioni, il medico-legale interveniva asseverando tecnicamente la fondatezza di tali richieste. La possibilità di avanzare queste pretese è stata, poi, delimitato, in modo netto, dalla Cassazione nella ordinanza decalogo (Cass. civ., n. 7513/2018), quando al punto – Comandamento -7) si sosteneva che “In presenza d'un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento”. Non per nulla anche una successiva sentenza della Cassazione (Cass. civ. n. 25164/2020) non lascia alcuno spazio a ritenere risarcibili quei pregiudizi se non in casi rarissimi ovvero per “condizioni eccezionali ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione”. L'intervento del medico-legale nella valutazione di tale pregiudizio diventerebbe quindi limitato a “condizioni eccezionali”. Si può pensare ad attività sportive di tipo agonistico con tesseramento del soggetto e a ben poche altre salvo ritenere, per esempio, che quella del gioco del calcio così diffusa nel nostro Paese (13.000 tesserati circa) sia da non ritenersi affatto così rara e, quindi, eccezionale. Ma, allora, la “personalizzazione” del danno esiste ancora? Coloro i quali esercitano attività fisica a solo scopo ludico dovranno essere penalizzati rispetto ai sedentari pantofolai? Già Cendon aveva detto questo. O ancora se un soggetto perde l'udito subisce una menomazione assai grave ma chi è abbonato alla Scala o è un collezionista di dischi non avrà diritto ad una quota maggiore di risarcimento rispetto a qualcuno che non abbia tale passione. E' indubbio che pregiudizi quali quelli che ho precedentemente delineato debbano trovare un adeguato riconoscimento. Essi si manifestano indubbiamente con caratteristiche “peculiari”, “personali” e “individuali” e non possono non inferire sulla sfera dinamico relazionale. Ma è altrettanto evidente che i medesimi pregiudizi producono una quota più o meno rilevante di sofferenza interiore indipendente dalla valutazione del danno biologico. La valutazione medico legale percentuale rimane, infatti, la stessa ma qualcuno (l'appassionato di musica dell'esempio più sopra riportato) soffrirà certamente di più. E, allora, dove va a finire la “personalizzazione” in un mondo che, attraverso i progressi della genetica, sta avanzando verso, addirittura, la “medicina personalizzata”. Il medico legale e la sofferenza interiore
Senza tralasciare tutta la lunga storia della questione “sofferenza interiore” così ben sintetizzata nell'articolo sopra citato del Presidente Spera, il quesito che ci dobbiamo porre non può che essere questo: che c'entriamo noi medici legali con quest'altra categoria? Ad ascoltare la Cassazione (vedi punto 8 della cosiddetta “ordinanza decalogo Cass. Civ. n. 7513/2018) si direbbe proprio di non c'entriamo, perché se è vero, da un lato che viene stabilito che la “sofferenza interiore” ha una sua autonomia liquidativa, è anche vero, dall'altro, che viene statuito che la “sofferenza interiore” fa riferimento a “quei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale”. Tutto ciò anche perché l'art. 138 del CdA ha spianato la strada ad un simile argomentare reintroducendo la categoria del “danno morale”, sì come entità autonoma e separata – ed ecco anche qui l'accordo con il recente pensiero della Cassazione – anche se, in realtà, strettamente dipendente dal danno biologico in quanto, recita sempre l'art. 138, il suo valore è incrementato “in via percentuale e progressiva per punto individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione”. Ed è proprio quest'ultima mancanza nella tabella milanese che viene sottolineata dall'ultima pronuncia della Cassazione del novembre come “vulnus” e vero e proprio errore. Ora come si possano definire come basate su basi erronee tabelle che solo nel maggio 2020 erano, ancora una volta, definite come “regole integratrici del concetto di equità” (Cass. Civ., ord. n. 8468/2020) desta nel cittadino, non dico nell'operatore del diritto, qualche perplessità. Ma sta di fatto che la problematica si pone ed ha fondamento tanto che il Presidente Spera la pone contestando l'assunto ma anche proponendo una nuova versione delle tabelle milanesi che presenta nel suo ultimo articolo di Ridare, nella quale dà certamente risalto alla posizione del medico-legale e che val la pena di commentare qui più nello specifico facendo anche riferimento a come la Cassazione si è espressa su tale versante: Tre sarebbero secondo Spera i costituenti della “sofferenza interiore”: a) la “sofferenza fisica”, che sarebbe inclusa nella valutazione medico-legale del danno biologico; b) la “sofferenza menomazione correlata”, sempre di competenza medico-legale come individuata nella trattatistica specialistica (Contributo medico legale alla quantificazione della sofferenza morale in Ronchi, L. Mastroroberto, U. Genovese Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente, 127-144, Giuffré, 2016; E. Pedoja, F. Pravato La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, Maggioli, 2013) e nei dettami della Società Scientifica SIMLA (Accertamento e valutazione medico-legale della sofferenza morale: https://www.simlaweb.it/accertamento-e-valutazione-medico-legale-della-sofferenza-morale/, R. Zoja SIMLA: Documento di Consenso in tema di dolore e sofferenza da menomazione dell'integrità psico-fisica, in Ridare.it) c) “gli altri pregiudizi ricompresi nella vera e propria sofferenza interiore”: la tristezza, “il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione”, ecc.
Cerchiamo di passare in rassegna le tre situazioni prima delineate. a) La sofferenza fisica Almeno all'apparenza, il dolore fisico non può che far parte del danno biologico. Che sia un'alterazione anatomica che non fa muovere una caviglia o che sia il dolore che limiti la sua articolarità poco dovrebbe importare. Purtroppo, però, per la molteplicità della componente bio – psichica dell'uomo questo non accade sempre. Anzi spesso non accade. Un solo esempio. Un soggetto portatore di paraplegia con deficit degli sfinteri viene valutato, secondo i principali baréme medico-legali, in un range che va dall'80 all'85 % di danno biologico. Sono moltissimi i paraplegici che soffrono di dolori anche terribili per svariate cause (deafferentazione segmentale, spasmi muscolari, ecc…). In alcuni, casi il controllo farmacologico è buono in altri è scarsissimo o nullo. Abbiamo quindi diverse categorie di soggetti che pur godendo di una medesima valutazione in quanto, comunque, gli atti quotidiani della vita sono considerati limitati nella medesima importante misura, non godrebbero di un adeguato ristoro risarcitorio perché alcuni sono colpiti dall'alterazione patologica, a causa del solo dolore, in misura assai maggiori di altri. E, attenzione, potrei proseguire con numerosissimi altri esempi anche di assai minore gravità. Di conseguenza, l'attuale sistema valutativo non garantisce un'equità assoluta. Alcuni, per ovviare a tale limitazione, (F. Buzzi, F. Randazzo Dolore e sindrome algodistrofica, in SIMLA Linee guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico, Giuffré, 2016, 296-311) avevano proposto una supervalutazione per fasce a seconda dell'entità della sindrome dolorosa (aumento di 1/5, di ¼, ecc.. della valutazione del danno biologico) intuendo il problema ma non risolvendolo: nell'esempio più sopra citato, la valutazione eccederebbe il 100%.
b) La sofferenza menomazione correlata Abbiamo citato quali siano i fondamenti della ricerca in ambito medico-legale e del lavoro che la Medicina legale sta ancor oggi intraprendendo per arrivare a modalità condivise su basi univoche di tale progetto. La Società Scientifica SIMLA è vicina a questo obiettivo e lo sta perseguendo anche se, comunque, già oggi, sono disponibili scale e riferimenti con cui confrontarsi (Ronchi et al. op. cit., Pedoja et al op. cit.). Mi pare quindi inutile, qui, riproporre argomenti e temi che nel suo articolo il Presidente Spera ben riassume. Quello che qui si vuol sottolineare con forza è che la liquidazione della sofferenza interiore, come vorrebbero Cassazione e Legislatore, in misura proporzionale al danno biologico, è una verità solo apparente. Gli esempi sono molteplici. Consideriamo l'invalidità temporanea. Un soggetto è costretto a letto a riposo a casa per delle fratture di bacino. Il ricovero ospedaliero è inutile, ma il soggetto è obbligato a letto annullando, praticamente, qualsiasi possibile attività quotidiana. E' indubbio che, comunque, non possa che essere concesso un periodo d'invalidità temporanea in forma totale di 30 giorni. Negli stessi 30 giorni, un altro soggetto della medesima età, per delle lesioni addominali intestinali per le quali viene operato, stante delle sopravvenute complicazioni, è costretto ad altri due interventi chirurgici e ad una degenza in rianimazione, ove viene anche ventilato meccanicamente. L'invalidità temporanea è sempre totale ma è ben diversa la “gravità” tra le due fattispecie. E, difatti, correttamente le tabelle milanesi hanno a disposizione un minimo e un massimo liquidabile per giornata e grazie ai nostri strumenti di valutazione della “sofferenza” medico-legalmente intesa, i medici legali sono in grado di proporre al Giudice la possibilità di differenziare le due fattispecie. E vi posso assicurare che sulla valutazione dell'invalidità temporanea, le nostre scale funzionano egregiamente e, di conseguenza, sarei altrettanto sicuro di confermare la loro validità anche nel processo liquidativo. Ma lo stesso vale per i postumi permanenti. Prendiamo due menomazioni che i nostri riferimenti tabellari valutano in modo identico: abbiamo un soggetto che riporta la perdita della milza, senza alterazioni della crasi ematica, associata ad una frattura di un metacarpo ed un altro con un interessamento grave, a causa di una frattura, dell'articolazione tibio-tarsica che diventa anchilotica. Entrambe le menomazioni andrebbero valutate nella misura del 12%. La prima perché considera una perdita anatomica che può comportare possibili disturbi dolorosi a livello addominale a causa del formarsi di aderenze a livello peritoneale nonché un altrettanto lieve disfunzionalità dolorosa ad un dito della mano. Nell'altra condizione, il soggetto danneggiato subisce una netta e importante alterazione nel cammino con zoppia evidente e con limitazione della fondamentale funzione deambulatoria che certamente riduce, in modo assai significativo, l'intero complesso della sua vita quotidiana con in più difficoltà nell'accovacciamento, nel mantenimento della postura eretta, ecc… Stesso valore di danno biologico e stessa quota di sofferenza interiore? Direi proprio di no. E gli esempi sono ‘millanta che tutta notte canta' come direbbe il Boccaccio. Dunque, la proporzionalità tra danno biologico e sofferenza interiore è solo apparente. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che è la medicina legale in ritardo perché le limitazioni del proprio sistema tabellare, evidenziate dagli esempi riportati, avrebbe dovuto sopperire da tempo. Qui, alzo le mani e dico anche che per la mia disciplina è inutile nascondersi. Il sistema che ha condotto alle tabelle per la valutazione dell'invalidità biologica è da tempo che non regge la corda e che si pone fuori da una complessità del mondo clinico scientifico che si è andata ingigantendo soprattutto negli ultimi anni. Qui è la medicina legale che deve riflettere su errori e mancanze che stanno approfondendo sempre di più il solco tra il nostro sapere e la modernità. La Società Scientifica SIMLA ha cominciato a gettare un sasso nello stagno con la Consensus Conference sulla valutazione del danno biologico nella persona anziana (https://www.simlaweb.it/danno-biologico-anziano/), i cui risultati sono stati inseriti nel novero delle buone pratiche cliniche previste dal Sistema Nazionale delle Linee Guida dell'Istituto Superiore di Sanità. Tale Consensus Conference rappresenta un metodo innovativo all'approccio a tali problemi affrontato con metodiche che mai avevamo utilizzato ma che sono lo standard della medicina odierna. Abbiamo enormi passi da fare in questa direzione anche se un primo piccolo e accidentato sentiero lo stiamo già percorrendo.
c) La sofferenza interiore propriamente detta ovvero quella dalla tristezza, dal dolore dell'animo, dalla vergogna, dalla disistima di sé, la paura, dalla disperazione”, ecc Qui noi medici legali non c'entriamo proprio anche se siamo spettatori di quella sofferenza. Qui c'entra l'uomo in sé con il suo retaggio culturale, religioso, intimo, individuale e lascio ai Giuristi confrontarsi con un problema che è anche di difficile se non impossibile razionalizzazione e sistematizzazione, a meno di ricorrere a semplificazioni che servano a muovere gli ingranaggi. Forse aiuterebbe di più l'arte e, probabilmente, sarebbe un bene che ci fosse un Fyodor Dostoevsky a scrivere gli atti di citazione. Certamente, di “sofferenza” il Giudice capirebbe di più. E, proprio per questo, tanto meno, qui in disaccordo con il Presidente Spera, pare utile chiedere aiuto a psicologi forensi o a psichiatri, a meno che non sia da loro proposta una scala della “sofferenza” scientificamente redatta ovvero validata per la popolazione italiana, secondo classi d'età, di provenienza regionale, sesso, grado d'istruzione con varianti per ogni cittadino di provenienza straniera (moldava, pakistana, filippina, cinese ecc…con la variabile dell'emigrazione) e standardizzata ad hoc. Questa sarebbe una proposta scientifica reale e seria ma allo stato indisponibile. Anche perché se il “soffrire” interferisce in modo così netto sulle quotidiane attività, diventa patologia e allora torniamo a parlare di danno biologico. In conclusione
Il momento è certamente confuso ed è certo che occorra un momento di riflessione collettiva degli operatori della Giustizia sulla questione della valutazione e della liquidazione del danno non patrimoniale che, per questioni numeriche, vede particolarmente interessato quello che sottende la lesione del bene salute. E' indubbio che la Medicina legale è elemento centrale di questo sistema se il “danno biologico”, forse ora etichettato in modo diverso, è ancora “danno base”. E forse, come qualcuno afferma, quest'ultimo è addirittura bisognoso di una riforma costitutiva dei suoi elementi determinanti. La sua centralità, comunque, a tutt'oggi rimane e con questa anche quella che fa riferimento all'operato dei medici legali che lo valutano. Ci sarà tempo per meditare le proposte del Presidente Spera e di verificarne soprattutto la validità operativa nell'ambito, peraltro, di un terreno a cui i medici legali contribuiscono con un ruolo ampiamente riconosciuto. Nessuno, tanto meno io, ha fatto un giuramento di fedeltà alle tabelle di Milano, ma mi sento di dire pubblicamente che al di là delle polemiche e delle frecce che giungono dal Palazzo della Cassazione, una parola forte di difesa del “metodo milanese” va detta perché chi interviene alle iniziative dell'Osservatorio ambrosiano sa che il dibattito e il confronto tra operatori del diritto e medici legali c'è, ed è il più delle volte vivace ad indicare una vitalità ed una validità del metodo che lo rendono importante nel panorama giuridico del Paese. E attenzione a non buttare il bambino con l'acqua sporca. Gli operatori del Diritto, le Imprese e i danneggiati hanno bisogno di porti sicuri. |