Quando la dichiarazione di fallimento non è un diritto del debitore

27 Novembre 2020

Il debitore non è legittimato a chiedere il proprio fallimento quando sia ancora pendente l'esecuzione di un concordato preventivo ovvero il termine annuale per richiederne la risoluzione a cura dei creditori.
Massime

L'imprenditore ammesso al concordato può chiedere il proprio fallimento nella fase esecutiva della procedura minore quando venga accertata l'impossibilità di realizzare il piano concordatario, senza necessità della previa risoluzione del concordato. L'istanza può essere presentata dal debitore anche nel periodo di sospensione previsto per l'emergenza Covid-19 se l'insolvenza sia conseguenza di fattori preesistenti. (Trib. Bergamo)

Il debitore non è legittimato a chiedere il proprio fallimento quando sia ancora pendente l'esecuzione di un concordato preventivo ovvero il termine annuale per richiederne la risoluzione a cura dei creditori. (Trib. Bologna)

Il caso

Le due decisioni in commento si occupano – giungendo ad una conclusione in apparenza opposta - di una fattispecie piuttosto singolare (e da ciò il titolo del commento): la reiezione di una istanza di fallimento presentata da impresa che si confessa – ed effettivamente parrebbe essere - insolvente.

Ed invero, da sempre si insegna che il debitore ha (non solo la facoltà, bensì) il dovere di chiedere il proprio fallimento e per certo questa “responsabilizzazione” dell'imprenditore affinchè prenda tempestivamente atto di una situazione di crisi trova conferma e viene enfatizzata dalla Riforma ispirata all'anticipazione della crisi contenuta nel “Codice della crisi e dell'insolvenza” di prossima entrata in vigore.

La prima delle sentenze in commento sembra in apparenza sovvertire questo principio, laddove il tribunale felsineo respinge un'istanza di fallimento formulata a norma degli artt. 6 e 14 l.fall. da una società che risultava soggetta a procedura di concordato “in continuità” e che instava per il proprio fallimento sul presupposto che l'incapacità ad adempiere agli impegni di pagamento assunti stava pregiudicando l'attività di impresa proseguita, rendendo necessaria una rimodulazione degli stessi impegni concordatari.

Di tenore opposto la statuizione del Tribunale di Bergamo, che, rifacendosi alla corrente giurisprudenziale che teorizza la possibilità di dichiarare il fallimento dell'impresa in concordato senza previa necessità di risoluzione o annullamento della procedura minore, ritiene che anche il debitore sia legittimato ad avviare l'iniziativa se sia deducibile l'impossibilità di dare attuazione al piano concordatario, precisando che tale facoltà sussiste anche nel periodo durante il quale l'istanza di fallimento sarebbe improcedibile ai sensi dell'art. 10 D.L. 8 aprile 2020, n. 23 convertito in L. 5 giugno 2020, n. 40, se l'insolvenza abbia origine anteriore ed autonoma rispetto agli effetti negativi connessi con la situazione emergenziale determinata dalla pandemia di Covid-19.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La pronunzia del tribunale orobico pare più in linea con i principi generali in tema di obbligatorietà dell'iniziativa (tempestiva) per la dichiarazione del proprio fallimento, ma, in realtà, l'esame della fattispecie concreta alla luce dei principi concorsuali chiarisce che anche la pronunzia bolognese ha un solido fondamento sistematico.

Nella fattispecie esaminata dal Tribunale felsineo, infatti, l'iniziativa della società traeva indiretta origine da una precedente richiesta di concordato “in bianco” respinta dallo stesso Tribunale con motivazione che il collegio fallimentare riprende e conferma, concludendo che tale iniziativa non avrebbe potuto essere ammessa per la pendenza di una concorrente procedura concordataria in passato avviata ed omologata da altro Tribunale (quello di Ferrara); più precisamente, pur essendo conclamata l'incapacità della debitrice di rispettare gli impegni concordatari, il collegio chiamato a valutare la nuova iniziativa concordataria aveva notato come non fosse ancora decorso il termine annuale previsto dall'art. 186 l.fall., sancendo quindi che la debitrice non avrebbe potuto rinunziare alla procedura concordataria in precedenza omologata.

Sotto tale ultimo profilo, i giudici emiliani si pongono giustamente la questione della legittimazione del debitore a caducare implicitamente la procedura con l'istanza di fallimento, ribadendo la posizione espressa sulla nuova proposta di concordato.

L'ipotesi esaminata dalla seconda pronunzia in commento è, invece, più lineare: durante la fase esecutiva del concordato, infatti, il debitore – resosi conto dell'oggettiva impossibilità di rispettare gli impegni concordatari – richiede il fallimento in proprio. Il Tribunale di Bergamo, quindi, muove dalla considerazione pragmatica che in presenza dei presupposti per il fallimento risulterebbe pletorico imporre ai creditori l'iniziativa per caducare una procedura che non ha più ragion d'essere.

Osservazioni

Ad avviso di chi scrive, per comprendere ed apprezzare la conclusione rigida cui era giunto il tribunale bolognese, occorre muovere, per un verso, dalla considerazione della natura processuale delle procedure concorsuali, intese come sequenza di atti regolamentati anche sotto il profilo delle conseguenze e, per contro, dalla valutazione dell'interesse giuridico tutelato.

Da tale secondo aspetto derivano le limitazioni alla sfera di azione del debitore: se è vero, infatti, che lo spossessamento concordatario viene definito “attenuato” (così ancor di recente Cass., Sez. V, 28 maggio 2020, n. 10108), gli artt. 167 e segg. ne confermano la sussistenza; anche, con riguardo al concordato in continuità, si ravvisa nel rigore delle condizioni imposte dagli artt. 186-bis e segg. legge fall., affinchè l'impresa in crisi possa proseguire l'attività e disporre della liquidità per il pagamento di debiti pregressi, una implicita riaffermazione di tale spossessamento.

Si potrebbe, per contro, affermare che con l'omologa - che “chiude” il concordato a norma dell'art. 180 l.fall. - la situazione muta, ma a ben vedere così non è: la tutela dei creditori resta, infatti, primaria nel concordato per cessione, tant'è che viene tuttora seguita la tesi secondo la quale l'omologa consacra una sorta di “mandato” a liquidare il patrimonio a beneficio dei creditori (citiamo, per tutte, Cass., Sez. II, 17 dicembre 2019, n. 33422 e Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2018, n. 3286 che peraltro riprendono un principio comunemente affermato nella giurisprudenza soprattutto ante riforma del 2006), ma permane anche nel concordato in continuità, posto che, al suo nascere, tale procedura è soggetta ad un precipuo controllo in merito alla sussistenza del presupposto del miglior soddisfo del ceto creditorio.

Ed appunto, in ossequio a tale alterità di fine, l'omologa segna anche il momento il cui la proposta concordataria “sfugge” al controllo del debitore; in giurisprudenza, infatti, non è posta in dubbio la facoltà dell'impresa in crisi di modificare la proposta sino all'adunanza (come si evince per implicito dall'art. 174 l.fall.), né quella di revocare la proposta stessa: semmai, la questione che si pone è di individuare le conseguenze della caducazione della procedura su iniziativa del debitore. Sul punto, ancor di recente la Suprema Corte ha ribadito che dalla rinunzia al concordato ben può scaturire l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento (in tal senso: Cass.,Sez.I, 23 ottobre 2019, n. 27200e Cass., Sez. I, 14 maggio 2019, n. 12855). Peraltro, non a caso l'adunanza dei creditori segna il termine insuperabile per modificare la proposta (poiché il ceto creditorio deve poter esprimere il giudizio di convenienza su una versione definitiva) e se l'omologa “chiude” e rende quindi definitivi - in assenza di reclamo - gli effetti del decreto di omologazione, da quel momento non vi è più spazio per modifiche e tanto meno per una rinunzia che sovverta la valenza di giudicato del decreto.

Sul punto si è chiaramente espressa la Suprema Corte: per un verso, infatti, si è sancito che “poichè rispetto al medesimo imprenditore ed alla medesima insolvenza il concordato non può che essere unico, qualora la procedura di concordato sia pendente non è configurabile un'ulteriore domanda di ammissione avente carattere di autonomia (cfr. anche Cass. n. 495/2015), a meno che da quest'ultima non si desuma l'inequivoca volontà del proponente (pur se non espressa con formule sacramentali) di rinunciare a quella in precedenza depositata” (Cass., Sez. I, 10 ottobre 2019, n. 25479), il che conduce a ritenere che effettivamente la rinunzia al concordato sia possibile ed anzi sia condizione imprescindibile per poter presentare una nuova domanda, ma con l'ovvio corollario che ciò potrà verificarsi se, e solo se, la rinunzia sia ancora possibile, ovvero, entro il termine che la sentenza ora citata individua appunto nell'omologa, posto che da quel momento il concordato deve essere necessariamente avviato alla sua fase esecutiva, come precisa anche Cass., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 8575, richiamata anche dalla pronunzia felsinea in commento.

A conferma degli effetti preclusivi dell'omologazione del concordato, la recente Cass., Sez. VI, 14 settembre 2020, n. 19007, ha negato la possibilità di una pronunzia di “revoca” del concordato a seguito dell'avvenuta omologazione del concordato, essendo la “revoca dell'ammissione ad esso, configurabile, invece, solo nell'intervallo temporale ricompreso tra l'apertura della procedura e la sua omologazione”.

E si inserisce qui appunto la considerazione sulla natura processuale del concordato: una volta completata la sequenza di atti che si svolge anche nell'interesse di terzi ed emesso il provvedimento che sancisce gli effetti conclusivi del procedimento, alla parte che lo ha promosso non è consentito di farli venire meno. Del resto, a voler considerare fattispecie similari, anche in una procedura esecutiva individuale è consentito alla parte di rinunziare agli atti, ma ciò non vale a porre fine al processo stesso, allorchè vi siano altre parti “titolate” e per certo una volta emessa una pronunzia giudiziale, non è dato ad una parte di rinunziare al provvedimento (semmai potrà rinunziare agli effetti a suo favore, non anche alle conseguenze dell'azione che abbia proposto).

Se così è, la scelta del legislatore di non attribuire al debitore la legittimazione a chiedere la risoluzione del concordato dal medesimo proposta può essere letta come conferma della centralità della posizione assunta dai creditori una volta omologato il concordato, ragionamento che ha portato, ad esempio, a suo tempo la Consulta (Corte Cost., 27 settembre 2017, n. 222) a ritenere legittimo che il legislatore non abbia previsto il fallimento d'ufficio all'esito della risoluzione, ritenendo necessaria l'iniziativa del creditore.

D'altro canto, vi sono altre situazioni in cui all'impresa in crisi sono precluse attività endo-concorsuali, ad esempio, laddove il fallito non può proporre opposizione allo stato passivo (da ultimo, Cass., sez. I, 21 Gennaio 2020, n. 1197); si dirà che la fattispecie è del tutto difforme, ma a ben ragionare il principio è similare: una volta aperta una procedura che si svolge anche e soprattutto a tutela del ceto creditorio, vi sono iniziative che non necessariamente spettano anche al debitore.

Nella fattispecie esaminata dal tribunale emiliano, poi, si inserisce anche la considerazione per il comportamento tenuto dal debitore che aveva tentato di “sostituire” al concordato già omologato una nuova proposta, situazione che potenzialmente poteva far sospettare un utilizzo “abusivo” dello strumento concordatario.

Alla rigidità formale della sentenza bolognese si contrappone, come detto, il ragionamento più generale proposto dal tribunale bergamasco, che trova valido spunto nell'analisi di una corrente giurisprudenziale sempre più condivisa, secondo la quale non solo può essere richiesta la risoluzione del concordato anche prima del decorso del termine, se già sia acclarato che il concordato resterà non adempiuto (Cass., Sez. VI, 29 maggio 2019, n. 14601, seppure per inadempimento di non scarsa importanza, come precisano Trib. Catania, 19 settembre 2019, in Fallim., 2020, 141 e Trib. Rovigo, 30 novembre 2016, in Fallim., 2017, 235), ma l'iniziativa ai sensi dell'art. 186 l.fall. non costituisce un presupposto indispensabile per pronunziare la dichiarazione di fallimento.

Per citare la Suprema Corte, “Accertato che il concordato non è più in ragionevole corso di attuazione e che ricorrono i presupposti di cui agli artt. 1 e 5 l.fall., non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di un imprenditore in concordato preventivo omologato ove si faccia questione dell'inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso ex artt. 160-161 l.fall., a prescindere dalla risoluzione o annullamento del concordato il cui procedimento andrebbe attivato - previamente o concorrentemente - solo se l'istante ex artt. 6 o 7 l.fall. facesse valere, non il credito nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata), ma in quella originaria” (così Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2017, n. 29632 che richiama Cass., Sez. VI, 17 luglio 2017, n. 17703). D'altro canto, in tal modo si enfatizza l'esigenza di economia che ha indotto la Suprema Corte a ritenere ammesso un limitato sindacato di fattibilità economica ai fini di negare ex ante l'omologa a quei concordati che si palesino all'evidenza ineseguibili (arg. per tutte da Cass., Sez. I, 13 marzo 2020, n. 7158)

Se così è, vien da pensare, perché non potrebbe essere dichiarato il fallimento ad iniziativa del debitore anche se il termine per chiedere la risoluzione non è decorso? In effetti, in un obiter dictum la sentenza poc'anzi citata soggiunge: “non si comprende invero la ratio, già dal lato del debitore, per cui questi, consapevole della impossibilità di adempiere, non potrebbe far accertare la sua strutturale impossibilità di pagare le obbligazioni falcidiate, chiedendo per esse il fallimento in proprio, per insolvenza attuale, piuttosto che entrare in una situazione adempitiva del tutto discrezionale, ove gli si attribuisca la facoltà di dare corso ai pagamenti che intenda attuare e in assenza di conseguenze per quelli che, trascorso il citato anno, non intenda invece più attuare”. Anche perché, in linea di teoria, ci si chiede se, così come l'iniziativa per il fallimento potrebbe essere assunta dal Pubblico Ministero nell'ambito del procedimento di risoluzione (Cass., Sez. I, 16 marzo 2018, n. 6660), lo stesso non avrebbe potuto avvenire nella seconda procedura di concordato avviata dal debitore della fattispecie bolognese.

In sostanza, la pronunzia dei Giudici orobici supera la limitazione processuale per dare prevalenza al risvolto sostanziale che si evince indirettamente anche dall'esame congiunto degli artt. 5, 6 e 217 l.fall.: se il dettato normativo indica che il fallimento “è dichiarato” (così fondando una sorta di automatismo) ogni volta che il debitore sia insolvente e la richiesta del proprio fallimento costituisce un diritto-dovere dell'imprenditore e se, per contro, il non esercitarlo tempestivamente fonda un addebito penale quando aggravi il passivo, se ne può desumere che l'iniziativa concessa al creditore (che, come detto, non dovrebbe attendere la chiusura formale della procedura concordataria pendente), a maggior ragione deve essere consentito al debitore di fallire se il concordato proposto dovrebbe poi comunque essere caducato perché ineluttabilmente lasciato inadempiuto.

Le questioni aperte anche alla luce della legge delega di riforma

Ferma restando la contrapposizione tra rigore formale ed applicazione dei principi generali, i dubbi in merito alla soluzione più adeguata impongono di chiedersi se la negazione della legittimazione attiva del debitore ipotizzata dalla prima sentenza in commento possa essere ancora una volta tratta da una ragione processuale, ovvero dalla considerazione che l'iniziativa per la risoluzione spetta ai creditori e non può essere loro sottratta dal debitore (anzi, appare discutibile la tesi di Trib. Siena, 19 luglio 2017, in Fallim., 2017, 933 che estende al commissario giudiziale la legittimazione a far dichiarare inadempiuto il concordato, opzione non prevista all'art. 186 l.fall.). Ragiona, invero, in questi termini anche una pronunzia di merito (App. Firenze, 16 maggio 2019, in Fallim., 2019, 977), critica rispetto alla corrente sopra citata - che ammette la dichiarazione di fallimento omisso medio -, affermando che i creditori per titolo anteriore hanno maturato una sorta di diritto all'esecuzione del concordato e solo ad essi spetta di caducare la procedura minore con la risoluzione. Se così è, non pare contraddittorio che nel giudizio di risoluzione positivamente avviato dai soggetti a ciò legittimati si possa inserire l'iniziativa del Pubblico Ministero e, viceversa, che possa essere respinta l'iniziativa del debitore che “aggiri” tale legittimazione.

L'esame delle norme “native” del nuovo Codice della Crisi e dell'Insolvenza non apportavano elementi utili, in quanto l'art. 119del D.lgs. 12 gennaio 2019, n.14 riproponeva sostanzialmente l'attuale art. 186 l.fall.. Peraltro, uno spunto poteva essere ricercato nell'art. 81 del Codice, in tema di concordato minore: sull'esecuzione di quel concordato è infatti prevista la sorveglianza dell'OCC e la procedura si chiudeva con un rendiconto del debitore la cui mancata approvazione faceva sì che il concordato si risolvesse; anche qui, dunque, assistevamo ad una sequenza procedurale che differiva la caducazione della procedura minore all'esito di una attività che parrebbe sfuggire alla disponibilità del debitore (anche se è indirettamente costui a darvi causa con i propri inadempimenti); non solo, ma ai sensi del successivo art. 83 la risoluzione o la revoca del concordato comportano l'apertura di una fase di liquidazione controllata che “chiude” la sequenza sovrapponendo una procedura coattiva alla volontà del debitore che dunque non potrebbe aprire una procedura alternativa di sua iniziativa.

Orbene, con il “correttivo” (che a causa dell'emergenza Covid-19 ha avuto una lunga gestazione ed è stato promulgato con il recente D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147) l'art. 81 del Codice della Crisi è stato modificato e prevede, anziché la risoluzione, la revoca del concordato, a seguito di una relazione finale che viene affidata all'OCC; il successivo art. 82, poi, viene modificato con la previsione che “Il giudice revoca l'omologazione d'ufficio o su istanza di un creditore, del pubblico ministero o di qualsiasi altro interessato (…) Il giudice provvede allo stesso modo in caso di mancata esecuzione integrale del piano, fermo quanto previsto dall'articolo 81, comma 5, o qualora il piano sia divenuto inattuabile e non sia possibile modificarlo”. Sicuramente, sembra aperta la via per una anticipazione della caducazione della procedura minore, ma non è chiaro se anche il debitore rientri nel novero dei legittimati (non essendo espressamente menzionato se non laddove si impone che la revoca venga decisa “in contraddittorio con il debitore”) e, d'altro canto, ciò che non muta è la sequenza degli adempimenti “processuali”, nel senso che per procedere alla liquidazione giudiziale occorre pur sempre transitare per la revoca. Per quel che concerne, comunque, il vero e proprio concordato preventivo, nel decreto correttivo è stato aggiunto all'art. 119 del Codice della Crisi e dell'Insolvenza un ulteriore alinea in forza del quale “Il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”.

In altre parole, il testo riformato sembra collegare indissolubilmente l'apertura della procedura di liquidazione, omologa all'attuale fallimento, alla preventiva declaratoria di risoluzione (revoca) del concordato pendente e ciò a suggellare la necessità del rispetto della sequenza procedurale come sopra ricostruita.

Conclusioni

La sentenza del Tribunale di Bologna appare dunque condivisibile laddove si enfatizzi il necessario rispetto delle disposizioni procedurali, nonchè ad evitare che sia il debitore a decidere la sorte di una procedura che questi ha sì avviato, ma ai fini della tutela dei diritti dei propri creditori che con l'omologazione del concordato preventivo deve necessariamente essere perseguita nell'ambito di quella procedura sinchè la stessa non venga meno nel rispetto delle forme previste dalla normativa.

La sentenza orobica, invece, appare più in linea con l'esigenza di economia processuale, che impone di evitare che venga protratta una procedura destinata a non conseguire il suo risultato “tipico”, che è costituito dalla ristrutturazione dei debiti con un qualche soddisfo del ceto creditorio; anche perchè le norme poc'anzi richiamate del Codice della Crisi e dell'Insolvenza sembrano aprire la via all'interpretazione che consente di anticipare la caducazione del concordato al momento in cui sia divenuta certa l'impossibilità dell'adempimento.

La prima soluzione, pervero, ha anche il pregio di prevenire l'insorgere di controversie in merito ai rapporti tra le procedure, in particolare con riguardo alla permanenza degli effetti esdebitatori della procedura minore a parziale detrimento delle pretese dei creditori anteriori all'omologa del concordato ovvero in merito al diritto di nuovi creditori a soddisfarsi sul patrimonio posto a tutela del soddisfo concordatario, laddove la pronunzia bergamasca ha il pregio di ampliare la possibilità di evitare che – per l'inerzia del ceto creditorio – divengano definitivi gli effetti di un concordato insoddisfacente, situazione che, seppure in apparenza rispettosa del conferimento ai creditori del giudizio di convenienza, appare in contrasto con la ratio della procedura concordataria, che rimane satisfattiva, tant'è vero che la Suprema Corte ha più volte ribadito che la “causa concreta” della procedura minore, sulla quale si esercita un controllo che è di fattibilità e legalità e non di mera convenienza, è legata “al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore, da un lato, ed all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, dallo altro” (cfr. da ultimo Cass., Sez. I, 15 giugno 2020, n. 11522 e Cass., Sez. I, 24 agosto 2018, n. 21175, che peraltro riprendono una corrente già consolidata che trae origine dalla nota Cass., Sez. Unite, 23 gennaio 2013 n. 1521).

Guida all'approfondimento

In giurisprudenza non vi sono precedenti specifici, ma qualche spunto lo si può desumere, come già accennato, per un verso, dalla giurisprudenza che individua i limiti alla rinunzia al concordato e dalle pronunzie in tema di risoluzione del concordato.

Quanto alla prima questione, sulla necessità della previa rinunzia alla procedura minore pendente affinché sia ammessa la presentazione di nuova domanda: Cass., Sez. I, 18 marzo 2019, n. 7577; Cass., Sez. I, 31 marzo 2016, n. 6277, che ammette anche la rinunzia tacita; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2015, n. 495; App. Torino, 14 luglio 2010, in Ilcaso.it. Si veda anche Cass., Sez. I, 25 ottobre 2018, n. 27120, secondo la quale la rinunzia al concordato è ammessa anche oltre il termine dell'avvio delle operazioni di voto fissato dall'art. 175 l.fall. per la modifica della proposta (conf. Trib. Perugia, 21 dicembre 2018, in Fallim., 2019, 1386), salva la valutazione sulla “abusività” dell'iniziativa che preluda ad una nuova domanda meramente dilatoria, sanzionata anche da Cass., Sez. I, 7 marzo 2017, n. 5677; Trib. Rovigo, 29 gennaio 2015, in Fallim., 2015, 615; Trib. Milano, 24 ottobre 2012, in Fallim., 2013, 77 (tesi del resto affine a quella che legittima comunque l'istanza di fallimento senza che la rinunzia al concordato possa caducare i procedimenti in corso: cfr. Cass., Sez. I, 16 maggio 2018, n. 12010; Cass., Sez. I, 7 giugno 2017, n. 14156; Trib. Monza, 10 maggio 2017, in Fallim., 2017, 1341; Trib. Catania, 19 maggio 2016, in Ilcaso.it).

Si segnala anche una isolata Trib. Torino, 27 novembre 2014, in Fallim., 2016, 33 secondo la quale, in applicazione dell'art. 306 c.p.c., in presenza di istanze di fallimento la rinunzia al concordato dovrebbe essere accettata dai creditori, tesi non condivisa dalle sentenze citate dalla Suprema Corte e che effettivamente appare difficilmente argomentabile prima della omologazione del concordato (limite indicato anche da Trib. S. Maria Capua Vetere, 26 aprile 2006, in Fallim., 2007, 83, con nota di Penta).

Quanto alla giurisprudenza in tema di risoluzione del concordato, la tesi della dichiarabilità del fallimento omisso medio in pendenza del termine per la risoluzione (con riconoscimento in tal caso del diritto dei creditori a far valere interamente in credito, come di recente ribadisce Cass., Sez. VI, 22 giugno 2020, n. 12085) ed altresì una volta decorso il termine di un anno entro il quale è ammessa l'iniziativa, viene sostenuta, oltre che dalle sentenze già richiamate, da: Trib. Perugia, 7 febbraio 2019, in Fallim., 2019, 395; Cass., Sez. I, 17 ottobre 2018, n. 26002; Trib. Rovigo, 7 dicembre 2017, in Fallim., 2018, 253; Trib. Napoli, 16 aprile 2016, in Fallim., 2016, 878 in senso contrario alla dichiarabilità del fallimento decorso il termine per la risoluzione del concordato: Trib. Pistoia, 20 dicembre 2017, in Fallim., 2018, 735 e sulla necessità della previa risoluzione del concordato: Trib. Padova,30 marzo 2017 in Fallim., 2017, 862.

Anche in dottrina il tema è poco trattato: sulla sequenza procedimentale che conduce alla caducazione del concordato ed indi al fallimento e sui limiti alla legittimazione nell'ambito del procedimento di risoluzione, si vedano P.F. Censoni, Il concordato preventivo, in A. Jorio, B. Sassani (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, Milano, 2016, 359 ss.; G. Carmellino, Risoluzione del concordato preventivo e poteri del commissario giudiziale, in Fallim., 2019, 219, il quale sottolinea come il Tribunale non potrebbe rilevare ex officio l'inadempimento del concordato, equiparabile ad un “fatto estintivo” del diritto; G. D'Attorre, Concordato omologato e fallimento successivo, in DF, 2016, II, 1347 e G.P. Maccagno, Effetti esdebitatori del concordato preventivo in pendenza del termine di risoluzione e sopravvenuta dichiarazione di fallimento, in Fallim., 2019, 338, che esaminano la problematica del fallimento che non segua ad una rituale risoluzione del concordato, col dubbio del mantenimento dell'effetto di segregazione del patrimonio ceduto ai creditori della procedura minore e sul venir meno, in caso di fallimento dichiarato in pendenza del termine di risoluzione, dell'effetto esdebitatorio; più in generale sulla risoluzione dei concordati: F. Lamanna, Fallimento dell'impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto, in www.ilFallimentarista, 5 Maggio 2017; M. Ratti – A. Pezzano, L'irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Fallim., 2018, 744; P. Genoviva, Note minime in tema di risoluzione del concordato preventivo, in Fallim., 2014, 808; G. Giurdanella, Inadempimento del concordato preventivo e mancata richiesta infrannuale di risoluzione, in Fallim., 2016, 222.

Sulle tempistiche ed i limiti alla facoltà del debitore di rinunzia al concordato e sul tema della presentazione negata di nuove domande, in quanto ritenute “abusive” si vedano: A. Crivelli, La rinuncia alla domanda di concordato: procedimento e provvedimento conseguenti, in Fallim., 2019, 1390; V. Baroncini, I limiti della presentazione di una nuova proposta di concordato preventivo contestualmente alla rinuncia di altra precedentemente presentata, in Fallim., 2019, 482; G.P. Maccagno, Rinuncia al concordato in pendenza di subprocedimento di revoca: acrobazie del debitore e poteri del pubblico ministero, in Fallim., 2017, 1344; M. Vecchiano, Modifica e rinuncia della proposta di concordato preventivo, in Fallim., 2016, 38.

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