La Corte di giustizia si pronuncia sul diritto alle ferie retribuite dei giudici di pace alla luce del principio di non discriminazione
27 Novembre 2020
Massime
L'art. 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che il Giudice di pace (Italia) rientra nella nozione di “giurisdizione di uno degli Stati membri”, ai sensi di tale articolo.
L'art. 7, par. 1, direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4.11.2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, e l'art. 31, par. 2, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea devono essere interpretati nel senso che un giudice di pace che, nell'ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore”, ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
La clausola 2, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18.03.1999, che figura nell'allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28.06.1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che la nozione di “lavoratore a tempo determinato”, contenuta in tale disposizione, può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell'ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
La clausola 4, punto 1, del medesimo accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell'ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato”, ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Il caso
La lavoratrice, giudice di pace dal 2001, nell'ambito delle sue funzioni svolgeva, in qualità di giudice monocratico, due udienze alla settimana, tranne nel periodo feriale non retribuito di agosto, durante il quale i termini processuali erano sospesi.
Nell'agosto 2018, durante il congedo non retribuito, non ha svolto alcuna attività in qualità di giudice di pace e, di conseguenza, non ha percepito alcuna indennità. Nell'ottobre dello stesso anno ha presentato ricorso per ottenere la condanna del Governo italiano al pagamento di una somma corrispondente, a suo avviso, alla retribuzione per il mese di agosto 2018 che spetterebbe ad un magistrato ordinario con la sua stessa anzianità di servizio, a titolo di risarcimento dei danni che essa ritiene di aver subito per la manifesta violazione, da parte dello Stato, della clausola 4 dell'accordo quadro e dell'art. 7 direttiva 2003/88, nonché dell'art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E. In via subordinata, la lavoratrice ha chiesto la condanna del governo italiano al pagamento di una somma, allo stesso titolo, calcolata sulla base dell'indennità netta da essa percepita nel mese di luglio 2018.
I pagamenti percepiti dai giudici di pace sono legati al lavoro realizzato e calcolati sulla base del numero di decisioni pronunciate, di conseguenza, durante il periodo feriale del mese di agosto, la lavoratrice non ha percepito alcuna indennità, mentre i magistrati ordinari hanno diritto a ferie retribuite di 30 giorni. L'art. 24 del d.lgs. n. 116/2017, che ora prevede per i giudici di pace la retribuzione del periodo feriale, non sarebbe stato applicabile alla ricorrente in ragione della data della sua entrata in servizio.
Il giudice del rinvio ha ritenuto che i giudici di pace, nonostante il carattere onorario del loro servizio, debbano essere considerati “lavoratori” ai sensi della direttiva 2003/88 e dell'accordo quadro, facendo riferimento, in particolare, al vincolo di subordinazione che caratterizza il rapporto tra i giudici di pace ed il Ministero della Giustizia.
Pertanto, il giudice del rinvio ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia cinque questioni pregiudiziali. Con ordinanza del novembre 2019, il giudice ha deciso di ritirare la quarta e la quinta questione, confermando il mantenimento delle prime tre.
Il presente commento concerne solo le prime due questioni, uniche considerate ricevibili dalla Corte di Giustizia. La terza questione non appare meritevole di commento in questa sede in quanto è stata dichiarata irricevibile.
Con la prima questione, si chiede se l'art. 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che il giudice di pace rientra nella nozione di “giurisdizione di uno degli Stati membri”, ai sensi di tale articolo.
La seconda questione è volta valutare l'esistenza di un eventuale diritto dei giudici di pace a beneficiare di ferie retribuite sulla base del diritto dell'Unione: in primis, determinando se il giudice di pace possa essere ricompreso nella nozione di “lavoratore”, ai sensi della direttiva 2003/88, dal momento che l'art. 7, par. 1, di tale direttiva dispone che gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane; in secondo luogo, verificando se il giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato” ai sensi dell'accordo quadro, e, in questo caso, valutando se possa essere paragonato, ai fini dell'applicazione del principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 di tale accordo quadro, ai magistrati ordinari, i quali beneficiano di ferie annuali retribuite supplementari, per un totale di 30 giorni. La questione
Il caso in esame consente di riflettere sulla questione dell'uniformità dell'ambito di applicazione del diritto dei lavoratori alle ferie retribuite con particolare riferimento al caso dei giudici di pace. Fulcro della questione è capire se il giudice di pace possa rientrare nella nozione di lavoratore, in particolare, di lavoratore a tempo determinato e se possa essere paragonato, ai fini dell'applicazione del principio di non discriminazione, ai magistrati ordinari, i quali beneficiano di ferie annuali retribuite supplementari, per un totale di 30 giorni.
Preliminarmente, mette conto evidenziare che in tema di diritto alle ferie retribuite, disciplinato nel nostro ordinamento dagli artt. 36, comma 3, Cost., e 2109 comma 2, c.c., si è recentemente espressa la Corte di Cassazione con specifico riferimento alla conformità tra normativa nazionale e diritto dell'Unione europeo, affermando che “In modo conforme al diritto dell'Unione deve essere interpretata la normativa interna laddove riconosce il diritto del prestatore di lavoro a "ferie retribuite" nella misura minima di quattro settimane, senza, tuttavia, recare una specifica definizione di retribuzione. A tale riguardo, deve allora osservarsi come sia compito del giudice di merito valutare, in primo luogo, il rapporto di funzionalità che intercorre tra i vari elementi che compongono la retribuzione complessiva del lavoratore e le mansioni ad esso affidate in ossequio al suo contratto di lavoro e, dall'altro, interpretate ed applicate le norme pertinenti del diritto interno conformemente al diritto dell'Unione, verificare se la retribuzione corrisposta al lavoratore, durante il periodo minimo di ferie annuali, sia corrispondente a quella fissata, con carattere imperativo ed incondizionato, dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE” (Cassazione, ord. n. 22401/2020).
Nel caso di specie, la CGUE, dopo aver rilevato che l'attività giurisdizionale del giudice di pace rientra nel campo di applicazione delle direttive 89/391 e 2003/88, richiama la nozione di “lavoratore”, ritenendo che ai fini dell'applicazione della direttiva in esame, tale concetto non può essere interpretato in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali, ma ha una portata autonoma, propria del diritto dell'Unione (Fenoll, C-316/13 del 26 marzo 2015; Sindicatul Familia Constanţa e a., C-147/17 del 20 novembre 2018), essendo funzionale ad assicurare l'uniformità dell'ambito di applicazione ratione personae del diritto dei lavoratori alle ferie retribuite. Si tratta di una nozione che deve essere definita in base a criteri obiettivi che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate. In particolare, il giudice nazionale deve fondarsi su criteri obiettivi e valutare nel complesso tutte le circostanze del caso, riguardanti la natura sia delle attività interessate sia del rapporto tra le parti in causa (Union syndicale Solidaires Isère, C-428/09 del 14 ottobre 2010).
Preliminarmente la CGUE ricorda che deve essere qualificata come “lavoratore” ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da poter essere definite puramente marginali e accessorie, e che, secondo una giurisprudenza costante, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è data dalla circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni in cambio delle quali percepisca una retribuzione.
Nel caso di specie, la CGUE osserva che, sebbene le funzioni del giudice di pace sono onorarie e talune delle somme versate lo sono a titolo di rimborso delle spese, resta il fatto che il volume di lavoro svolto dalla lavoratrice e, di conseguenza, le somme percepite sono considerevoli (nel periodo luglio 2017 - giugno 2018 ha definito circa 1800 procedimenti). Pertanto, la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come onorarie dalla normativa nazionale non significa che le prestazioni finanziarie percepite debbano essere considerate prive di carattere remunerativo. Peraltro, anche se la retribuzione delle prestazioni svolte costituisce un elemento fondamentale del rapporto di lavoro, resta il fatto che né il livello limitato di tale retribuzione né l'origine delle risorse per quest'ultima possono avere alcuna conseguenza sulla qualità di “lavoratore” ai sensi del diritto dell'Unione (Mattern e Cikotic, C-10/05 del 30 marzo 2006; Vatsouras e Koupatantze, C-22/08 e C-23/08 del 4 giugno 2009).
In tali circostanze, spetta al giudice nazionale verificare se gli importi percepiti dalla lavoratrice, nell'ambito della sua attività professionale di giudice di pace, presentino un carattere remunerativo idoneo a procurarle un beneficio materiale e garantiscano il suo sostentamento. Inoltre, per quanto attiene all'esistenza del vincolo di subordinazione, la CGUE precisa che la circostanza che i giudici siano soggetti a condizioni di servizio e possano essere considerati lavoratori non pregiudica minimamente il principio di indipendenza del potere giudiziario e la facoltà degli Stati membri di prevedere l'esistenza di uno statuto particolare che disciplini l'ordine della magistratura (O'Brien, C-393/10 del 1° marzo 2012). Ciò posto, - alla luce delle modalità di organizzazione del lavoro dei giudici di pace, i quali svolgono le loro funzioni nell'ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare - la CGUE dichiara che l'art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88 e l'art. 31, par. 2, della Carta devono essere interpretati nel senso che un giudice di pace che, nell'ambito delle sue funzioni, effettua prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore”, ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Dopo essersi occupata della nozione di lavoratore, la CGUE analizza quella di “lavoratori a tempo determinato”, osservando che la stessa include tutti i lavoratori, senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del datore di lavoro e a prescindere dalla qualificazione del contratto in diritto interno. Pertanto, l'accordo quadro si applica all'insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro, purché questi siano vincolati da un contratto o da un rapporto di lavoro ai sensi del diritto nazionale, e fatta salva la discrezionalità conferita agli Stati membri dalla clausola 2, punto 2, dell'accordo quadro per quanto attiene all'applicazione di quest'ultimo a talune categorie di contratti o di rapporti di lavoro nonché l'esclusione, conformemente al quarto comma del preambolo dell'accordo quadro, dei lavoratori interinali (Sánchez Ruiz e a., C-103/18 e C-429/18 del 19 marzo 2020). Sebbene la direttiva lasci agli Stati membri il compito di definire i termini “contratto di assunzione” o “rapporto di lavoro”, secondo la legislazione e/o la prassi nazionale, tale potere discrezionale non è illimitato, dovendo comunque rispettare l'effetto utile della direttiva ed i principi generali del diritto dell'Unione.
La CGUE rileva che la circostanza che i giudici di pace siano titolari di una carica giudiziaria non è sufficiente, di per sé, a sottrarli dal beneficio dei diritti previsti da detto accordo quadro. Infatti, dalla necessità di tutelare l'effetto utile del principio di parità di trattamento emerge che tale esclusione, pena l'essere considerata arbitraria, può essere ammessa solo qualora la natura del rapporto di lavoro sia sostanzialmente diversa da quella che lega ai datori di lavoro i dipendenti che, secondo il diritto nazionale, rientrano nella categoria dei lavoratori.
Spetta al giudice del rinvio esaminare in quale misura il rapporto che lega i giudici di pace al Ministero della Giustizia sia, di per sé, sostanzialmente differente dal rapporto di lavoro esistente tra datore di lavoro e lavoratore. In proposito, nel valutare se la natura di detto rapporto di lavoro differisca sostanzialmente da quella del rapporto che lega ai rispettivi datori di lavoro i dipendenti che, secondo il diritto nazionale, rientrano nella categoria dei lavoratori, il giudice del rinvio dovrà prendere in considerazione la distinzione tra questa categoria e quella delle professioni autonome. In tale prospettiva, occorre tener conto delle modalità di designazione e di revoca dei giudici di pace, ma anche di quelle di organizzazione del loro lavoro (O'Brien, C-393/10 del 1° marzo 2012).
Nel caso di specie, posto che il mandato dei giudici di pace è limitato a un periodo di quattro anni, rinnovabile e che il rapporto che lega i giudici di pace al Ministero della Giustizia ha durata determinata, la CGUE afferma che la nozione di “lavoratore a tempo determinato” può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell'ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Le soluzioni giuridiche
Ciò posto, la CGUE si sofferma sulla comparabilità tra giudici di pace e giudici ordinari alla luce del principio di non discriminazione, esaminando se esista una ragione oggettiva che giustifichi una differenza di trattamento fra le due categorie. Nel caso di specie, la disparità di trattamento evocata dalla lavoratrice risiede nel fatto che i magistrati ordinari hanno diritto a 30 giorni di ferie annuali retribuite, mentre i giudici di pace non dispongono di un siffatto diritto.
Sul punto la CGUE precisa che per quanto riguarda le condizioni di impiego, la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro vieta che i lavoratori a tempo determinato siano trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di svolgere un'attività in forza di un contratto a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive, evidenziando come la disposizione sia volta a dare applicazione al principio di non discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di lavoro di tale natura venga utilizzato dal datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti che sono riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato (Baldonedo Martín, C-177/18 del 22 gennaio 2020).
Premesso che il richiamo alla mera natura temporanea dell'impiego non può configurare una “ragione oggettiva”, poiché altrimenti perderebbero valore gli obiettivi della direttiva 1999/70 nonché dell'accordo quadro e si perpetuerebbe il mantenimento di una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato (Motter, C-466/17 del 20 settembre 2018), la CGUE osserva che la nozione di “ragioni oggettive” deve essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato ed i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo. In altre parole, la disparità di trattamento deve essere giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego, nel particolare contesto in cui s'inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Tali elementi possono risultare dalla particolare natura delle funzioni per l'espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (Montero Mateos, C-677/16 del 5 giugno 2018).
Nel caso di specie, per giustificare la differenza di trattamento, il governo italiano sostiene che costituisca una ragione oggettiva l'esistenza di un concorso iniziale, specificamente concepito per i magistrati ordinari ai fini dell'accesso alla magistratura, che invece non vale per la nomina dei giudici di pace. Diversa sarebbe anche la competenza perché, per quanto riguarda la particolare natura delle mansioni e le caratteristiche inerenti, ai giudici di pace verrebbero affidate controversie il cui livello di complessità ed il cui volume non corrispondono a quelli delle cause dei magistrati ordinari.
Al riguardo, la CGUE osserva che, tenuto conto del margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per quanto riguarda l'organizzazione delle loro pubbliche amministrazioni, essi possono stabilire le condizioni di accesso alla magistratura, nonché condizioni di impiego applicabili sia ai magistrati ordinari che ai giudici di pace, fermo restando il fatto che l'applicazione di tali criteri sia effettuata in modo trasparente e possa essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale.
Ove un simile trattamento differenziato derivi dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all'impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra lavoratore e datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato. In proposito, occorre considerare che talune disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all'esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità.
Pertanto, gli obiettivi invocati dal governo italiano consistenti nel mettere in luce le differenze nell'attività lavorativa tra giudici di pace e magistrati ordinari possono essere considerati come configuranti una “ragione oggettiva”, ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell'accordo quadro, nei limiti in cui essi rispondano a una reale necessità, siano idonei a conseguire l'obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine (Motter, C-466/17 del 20 settembre 2018).
In tali circostanze, sebbene le differenze nella procedura di assunzione non impongano necessariamente di privare i giudici di pace di ferie annuali retribuite corrispondenti a quelle previste per i magistrati ordinari, resta il fatto che tali differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall'art. 106, comma 1, Cost., ai concorsi concepiti per l'assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell'assolvimento di tali mansioni. In ogni caso, spetta al giudice del rinvio valutare gli elementi qualitativi e quantitativi disponibili riguardanti le funzioni svolte dai giudici di pace e dai magistrati ordinari, i vincoli di orario e le sanzioni cui sono soggetti nonché, in generale, l'insieme delle circostanze e dei fatti pertinenti.
Nel caso di specie, la CGUE - dopo aver osservato che gli obiettivi invocati dal governo italiano, vale a dire rispecchiare le differenze nell'attività lavorativa tra i giudici di pace e i magistrati professionali, potrebbero essere idonei a rispondere ad una reale necessità e che le differenze di trattamento esistenti tra tali due categorie, anche in materia di ferie annuali retribuite, potrebbero essere considerate proporzionate agli obiettivi da esse perseguiti - afferma che osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, nell'ipotesi in cui tale giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato”, ai sensi della clausola 2, punto 1, di tale accordo quadro, e in cui si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Osservazioni
In conclusione, sembra opportuna una breve riflessione sulla portata applicativa del principio di non discriminazione in relazione al concetto di “condizioni di impiego”, ai sensi della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, nozione nella quale rientrano i diritti alle ferie annuali retribuite.
Il principio di non discriminazione richiede che situazioni comparabili non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato. Sul punto, la CGUE osserva che tale principio è stato attuato e concretizzato dall'accordo quadro soltanto per quanto attiene alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato ed i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in una situazione comparabile. Secondo una giurisprudenza costante, al fine di valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile nel senso dell'accordo quadro, occorre stabilire, in conformità alle clausole 3, punto 2, e 4, punto 1, di quest'ultimo, se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile (Montero Mateos, C-677/16 del 5 giugno 2018). In proposito, se è dimostrato che, nell'ambito del loro impiego, i lavoratori a tempo determinato esercitano le medesime mansioni dei lavoratori impiegati dallo stesso datore di lavoro a tempo indeterminato oppure occupano il loro stesso posto, occorre, in linea di principio, considerare le situazioni di queste due categorie di lavoratori come comparabili (Baldonedo Martín, C-177/18 del 22 gennaio 2020). |