Questo il principio espresso nell'ordinanza della Suprema Corte n. 26703/20, depositata il 24 novembre.
Il caso. Un Condominio citava in giudizio una società immobiliare proprietaria di una abitazione sita al piano terra dello stabile.
Tale abitazione, grazie all'opera del dante causa della società, era stata modificata aprendo due passaggi carrabili che mettevano in comunicazione la proprietà privata con il cortile condominiale da un lato e con la strada dall'altro.
Il Condominio, però, contestava dette opere per utilizzo illegittimo della cosa comune e per avere modificato l'equilibrio statico dello stabile.
L'apertura che si affacciava sul cortile interno del Condominio, poi, aveva avuto l'effetto di limitare i posti auto previsti dal regolamento condominiale.
Si costituiva in giudizio la società convenuta sostenendo come l'utilizzo della cosa comune fosse in effetti compatibile con il dettame dell'art. 1102 c.c..
Tale norma, centrale al fine della decisione della causa, recita che «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.
Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso».
Al termine del giudizio, tuttavia, a seguito della consulenza tecnica d'ufficio, il Giudice condannava la società per avere realizzato e mantenuto dei manufatti che violavano i diritti degli altri condomini sulle parti comuni e danneggiavano la struttura stessa del muro di contenimento del Condominio.
Il giudizio, quindi, approdava in sede di appello, e la Corte confermava la decisione del primo Giudice.
L'uso del bene comune non deve prevaricare gli altri condomini. La società soccombente, quindi, affidava le proprie doglianze alla Cassazione, con ricorso incentrato su svariati motivi di diritto.
Detto atto, in sintesi, contestava la valutazione della Corte d'Appello sia in merito all'onere probatorio e alle prove fornite dalla parte attrice, che dal punto di vista dell'applicazione del citato articolo 1102 c.c..
In buona sostanza la parte ricorrente sosteneva che le due aperture carrabili eseguite dalla condomina fossero lecite in quanto manifestazione di un uso consentito del bene comune.
La Cassazione, con la sentenza Cass. Sez. II, 24 novembre 2020, n. 26703, rigettava integralmente il ricorso.
Dal punto di vista dell'istruttoria processuale, difatti, secondo gli Ermellini tale motivo era del tutto inammissibile in quanto demandava alla Cassazione la valutazione di argomentazioni di fatto soggette alla libera determinazione e convinzione del Giudice di merito.
Tali argomentazioni, poi, non sarebbero state demandabili alla Cassazione in quanto Giudice di legittimità e in quanto non integranti le legittime censure eventualmente proposte ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..
Dal punto di vista dell'utilizzo della cosa comune, similmente, la Cassazione rigettava integralmente il ragionamento della parte ricorrente.
È vero, infatti, che l'art. 1102 c.c. consente un uso più intenso della cosa comune e non obbliga tutti i condomini a esercitare un utilizzo identico della cosa, ma l'utilizzo del bene non può essere effettuato in violazione dei diritti degli altri condomini.
L'uso deve essere potenziale, con il divieto di alterazione della destinazione del bene comune e rispetto dell'altrui diritto di fare un utilizzo paritetico del bene (così anche in Cass. Sez. II, 18 febbraio 1998, n. 1708).
Anche questa valutazione, poi, sarebbe spettata unicamente al Giudice di merito, unico decidente in grado di vagliare sul rispetto dell'uso più intenso della cosa comune e valutare il quadro probatorio offerto dalle parti.
Alla luce di tali valutazioni, quindi, il ricorso veniva dichiarato inammissibile e integralmente rigettato.
Fonte: dirittoegiustizia