Autonomia del danno morale: quale effetto sulle tabelle milanesi?

Patrizia Ziviz
02 Dicembre 2020

A partire dal 2018, ripetuti interventi della S.C. in materia di danno morale hanno sottolineato l'autonomia della figura rispetto al danno biologico. Non è stata, tuttavia, fatta sufficiente chiarezza sulle implicazioni operative di un simile principio: dubbi e contraddizioni emergono, in particolare, nella recente pronuncia della Cassazione n. 25164/2020, che punta a delineare le implicazioni operative della distinzione tra componente biologica e componente morale del pregiudizio a fronte dell'applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano.
Autonomia del danno morale

Nel travagliato dibattito che orami da decenni domina la materia del risarcimento del danno non patrimoniale, specifico rilievo ha assunto – da qualche tempo a questa parte - la questione del danno morale: con particolare attenzione al profilo riguardante l'autonomia della figura. Quest'ultima è stata ripetutamente ribadita, negli ultimi anni, da svariate decisioni della Cassazione, in aperto contrasto con le conclusioni raggiunte, nel novembre 2008, dalle sentenze di San Martino.

Ad essere considerata superata, dalla S.C., è l'idea a suo tempo perorata dalle Sezioni Unite, secondo cui la sofferenza soggettiva può essere liquidata autonomamente, come danno morale, ove rimanga confinata a livello di turbamento dell'animo, mentre le relative degenerazioni patologiche andranno ricondotte nell'alveo del danno biologico, “del quale ogni sofferenza fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”. Una ricostruzione del genere teorizza che il pregiudizio psichico, il quale trovi la propria genesi nella sofferenza, sia destinato a fagocitare al suo interno anche quest'ultima: che perderebbe così la propria autonomia, a fronte della portata onnicomprensiva del danno biologico. La valenza assorbente di quest'ultima figura è stata, peraltro, proiettata dalle Sezioni Unite su scala generale, fino ad affermare che in caso di lesione alla salute non resterebbe alcuno spazio per un'autonoma considerazione della componente morale del pregiudizio. Si tratta, come già all'epoca rilevato da numerosi interpreti, di un'applicazione distorta del concetto di onnicomprensività: il quale punta a ricondurre entro un'unica voce i pregiudizi afferenti al medesimo piano fenomenico, ma non può operare con forza assorbente nei confronti di compromissioni aventi differente natura. A conferma del fatto che il turbamento emotivo non si presta ad essere ricondotto nella componente biologica soccorre, del resto, la stessa definizione normativa del danno biologico: la quale, secondo le previsioni contenute negli artt. 138 e 139 D.Lgs. n. 209/2005, lo identifica nei termini di “lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, senza lasciare alcuno spazio per la considerazione delle sofferenze interiori (come, del resto, esplicitamente sottolineato dalla pronuncia in commento).

In accordo con tali considerazioni, del tutto fondato va allora considerato quell'orientamento della Cassazione – ribadito dalla sentenza n. 25164/2020 qui in esame - che afferma l'autonomia del danno morale rispetto al danno biologico. Anche laddove sia in gioco una lesione alla salute, si tratta di assicurare specifico rilievo alla componente morale, quale posta del pregiudizio che differisce dalla componente dinamico-relazionale in cui si sostanzia il danno biologico.

Le compromissioni di carattere morale

Per consentire una netta demarcazione tra componente biologica e componente morale del pregiudizio, appare indispensabile definire quale tipo di realtà fenomenica negativa va veicolata sotto quest'ultima etichetta. La Cassazione, come confermato dalla sentenza in commento, è orientata a descrivere il danno morale nei termini di pregiudizio soggettivo, privo di basi organiche e come tale estraneo alla determinazione medico-legale. In particolare, il danno morale viene identificato attraverso una serie di sentimenti di segno negativo, quale vergogna, disistima di sé, paura, disperazione, e via dicendo. In buona sostanza il pregiudizio in questione si ritiene consistere in ogni sorta di turbamento emotivo provocato dall'illecito.

Ai fini di tracciare un confine chiaro tra le due aree del pregiudizio, si tratta di precisare che al concetto di danno morale appare estranea la considerazione di qualsiasi dolore di carattere fisico. Benché, nel linguaggio corrente venga utilizzato – anche per descrivere quest'ultimo - il termine di sofferenza, è evidente che a venire in gioco sono compromissioni che non riguardano la sfera interiore. Il dolore nocicettivo è necessariamente legato a una lesione alla salute, in quanto investe la vittima sul piano fisico, sì da ripercuotersi in termini di aggravamento della menomazione anatomo-funzionale dalla stessa subita. A venire in gioco è, dunque, una ripercussione negativa - di carattere temporaneo o cronico - suscettibile di valutazione da parte del medico legale: il quale dovrà quindi pesare tale specifico profilo del pregiudizio all'interno della componente biologica del danno.

La sofferenza menomazione-correlata

La Cassazione, come confermato dalla pronuncia in esame, fonda l'autonomia del danno morale sulla circostanza che lo stesso – diversamente dal danno biologico - non appare rimesso alla valutazione medico legale. A tale riguardo, si tratta di constatare che – una volta inquadrato il danno morale nei termini di turbamento emotivo - a venire in evidenza è un pregiudizio la cui fenomenologia non muta al variare dell'illecito che lo ha generato: sia essa la lesione della reputazione, o la perdita di una persona cara, oppure una lesione dell'integrità psico-fisica. Assodato che il pregiudizio morale consiste negli influssi negativi non patologici che l'illecito determina nella sfera interiore del soggetto, con riguardo ad esso non emergerebbe – allora - una specifica competenza medico legale ai fini della relativa rilevazione.

Una conclusione del genere, tuttavia, merita di essere messa a confronto con l'idea che – in caso di lesione alla salute – prenderebbe corpo in capo al danneggiato una “sofferenza menomazione-correlata”, rispetto alla quale la medicina legale rivendica uno specifico ruolo. I profili pregiudizievoli che, nella prospettiva medico-legale, andrebbero ricondotti sotto tale etichetta appaiono, in verità, assai variegati. Sotto tale veste, si tratterebbe si prendere in considerazione:

a) il dolore fisico: il quale, come si è detto, rappresenta una delle varie ripercussioni della lesione alla salute di stretta competenza medico-legale, e va ricondotto alla componente biologica;

b) l'aggressione terapeutica: la quale costituisce un dato oggettivo, dal quale trarre inferenze quanto alla ricorrenza sia di ripercussioni dinamico-relazionali che di compromissioni di carattere emotivo a carico della vittima;

c) l'allontanamento dai piaceri della vita: che incarna uno specifico versante del pregiudizio dinamico-relazionale;

d) il disagio psichico derivante dallo stato di degrado: il quale, tra le varie voci, è la sola strettamente ascrivibile alla sfera interiore, nella sua veste di sentimento negativo indotto dall'illecito.

Una nozione del genere appare, dunque, ben distante dalla bipartizione – elaborata in ambito giuridico – tra componente morale e componente dinamico-relazionale del danno, in quanto all'interno della stessa emergono aspetti riguardanti l'uno e l'altro ambito. Resta il fatto che in seno alla stessa emergono vari indici i quali, una volta rilevati dal medico legale, rappresentano altrettanti fattori in grado di fornire al giudice precisi riferimenti utilizzabili ai fini di valutazione dell'entità della sofferenza emotiva generata dalla lesione alla salute (per fare un esempio: è evidente che tanto più grande è l'impatto dell'aggressione terapeutica subita dalla vittima, tanto più consistente sarà il turbamento emotivo dalla stessa patito).

E', dunque, possibile concludere che il danno morale generato da una lesione alla salute presenta dei profili di specificità, essendo influenzato da una serie di elementi legati alla menomazione psico-fisica: con riguardo a questi ultimi, la rilevazione si presta ad essere effettuata dal medico legale.

Il danno morale nelle tabelle milanesi

Nella sentenza in commento i giudici di legittimità fanno finalmente chiarezza intorno a un profilo che in alcune pronunce precedenti era stato trattato in maniera assai ambigua. Si riconosce apertamente che le tabelle milanesi - in quanto riferite, a partire dal 2009, al danno non patrimoniale derivante da lesione alla salute complessivamente inteso – includono anche il danno morale. Un'affermazione del genere implica che, ove la tabella milanese risulti applicata senza procedere ad alcuna personalizzazione, il pregiudizio morale risulterà liquidato secondo una valutazione media.

La Cassazione sembra, in ogni caso, intenzionata con la pronuncia in esame a muovere delle critiche alla tabella milanese, in quanto i giudici di legittimità sottolineano che la stessa erroneamente indicherebbe un valore complessivo del punto, risultante dalla somma della componente biologica e di quella morale. Secondo la S.C, la voce morale risulterebbe calcolata in maniera automatica, mentre in realtà la stessa dovrebbe essere oggetto di specifica allegazione, attraverso una completa descrizione, e prova da parte della vittima. Ecco allora che – in assenza di accertamento del danno morale – dovrebbe farsi luogo a una depurazione del punto, sottraendo dal relativo valore la quota corrispondente a tale voce del pregiudizio.

Tali rilievi critici, mossi alla costruzione della tabella milanese, vengono in realtà smentiti nei passaggi che la sentenza n. 25164/2020 dedica al profilo della prova. La S.C. riconosce, infatti, che l'onere probatorio che incombe sul danneggiato non risulta particolarmente gravoso, in virtù del ricorso, da parte del giudice, alle massime di esperienza. Si tratta, cioè, di far capo a “regole di giudizio basate su leggi naturali, statistiche, di scienza e di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale”; in tema di danno morale, “tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo”. A fronte della ricorrenza di una lesione alla salute, la S.C. stabilisce – in definitiva - che “un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all'accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute (…) è quello della corrispondenza su di una base di proporzionalità diretta della gravità della lesione rispetto all'insorgere della sofferenza soggettiva”. La conclusione è che tanto più grave sarà la lesione alla salute, tanto più “il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlato danno morale”. In buona sostanza, i giudici di legittimità riconoscono che, una volta accertata la lesione alla salute, la ricorrenza di una conseguenza morale indotta dalla menomazione va data per scontata, senza necessità di alcuna dimostrazione da parte della vittima.

Ora, se queste sono le conclusioni cui perviene la S.C, appaiono del tutto infondate le critiche rivolte alla tabella milanese, posto che quest'ultima appare costruita proprio sulla base dell'applicazione di un meccanismo di proporzionalità tra gravità della lesione e dimensione della sofferenza soggettiva.

La personalizzazione del danno biologico

Una volta riconosciuto che componente biologica e morale sono distinte sul piano fenomenologico, la sentenza in commento evidenzia come sia da ritenersi del tutto superata l'idea che il danno morale possa essere configurato quale personalizzazione del danno biologico. Quest'ultima va correttamente intesa quale operazione volta a modificare il valore standard del pregiudizio per tener conto della specificità del caso concreto.

Con riguardo a tale profilo, la S.C. si allinea alle affermazioni già formulate nel 2018, all'interno della famosa ordinanza “decalogo”, secondo cui le compromissioni dinamico-relazionali di carattere ordinario devono considerarsi comprese nel calcolo tabellare. Posto che nelle tabelle è inclusa una quota di compromissioni da ritenere scontata, in quanto effetto normale di una certa menomazione, un incremento - in termini di personalizzazione - appare possibile laddove, nel caso concreto, la menomazione produca un'eco negativa peculiare. Il nodo critico riguarda la coincidenza, che emerge nel pensiero della S.C., tra concetto di normalità e ordinarietà dell'attività compromessa. In verità, non si tratta di ammettere la personalizzazione esclusivamente a fronte della compromissione di attività dinamico-relazionali aventi carattere eccezionale, ma bisogna bensì valutare il peso che l'attività compromessa assume nell'assetto esistenziale globale della vittima. Laddove una certa attività, ancorché di carattere ordinario, rivesta nella dimensione personale del danneggiato un peso specifico che va al di là di ciò che accade per la media dei soggetti, è fuori di dubbio che bisognerà procedere a una personalizzazione. Quest'ultima, quindi, non va confinata ai soli casi in cui si registrino circostanze eccezionali e straordinarie, ma concerne ogni ipotesi in cui la lesione produca un impatto dinamico-relazionale superiore a quello che mediamente si registri per menomazioni di quel genere.

Oltre ad allinearsi a tali indicazioni, la sentenza in commento aggiunge alcuni elementi di novità sulla questione della personalizzazione del danno biologico. Un primo profilo riguarda l'affermata necessità di applicare l'incremento al valore della sola componente biologica del danno, nelle ipotesi in cui manchi la prova di un danno morale. In verità, come si è detto in precedenza, la ricorrenza di una quota standard di danno morale va data per scontata, in applicazione delle massime di esperienza, per cui una simile operazione di depurazione risulterebbe giustificata solo nelle ipotesi in cui la controparte fosse riuscita a dimostrare l'insussistenza di ripercussioni morali in capo alla vittima. Resta inoltre da sottolineare che un'operazione di depurazione della tabella pare contraddire lo stesso dato normativo, considerato che l'art. 138 cod. ass. prevede un meccanismo di personalizzazione degli aspetti dinamico-relazionali del pregiudizio da applicarsi su un valore del punto che include anche la componente morale del danno.

L'altro dato che emerge dalla pronuncia in esame riguarda l'idea che la personalizzazione del danno biologico debba aver luogo nei limiti del 30%, in accordo con quanto previsto dal già richiamato art. 138 cod. ass. (mentre la tabella milanese prevede percentuali variabili di personalizzazione). Anche questo tipo di limitazione solleva seri dubbi, in quanto non tiene conto della costruzione complessiva della tabella milanese, dove la variabilità delle percentuali di personalizzazione trova giustificazione nella diversa consistenza che assume, al variare del punto, la quota standard del danno morale. Posto che ogni sistema tabellare appare costruito sulla base di una convenzione complessiva, non è possibile modificare un singolo aspetto senza tener conto delle implicazioni che ciò comporta. Si tratta, infine, di segnalare il fatto che i limiti di personalizzazione della tabella milanese vanno applicati con riguardo a entrambe le componenti del pregiudizio, mentre la S.C. sottolinea più volte come l'art. 138 cod. ass. preveda una personalizzazione riguardante i soli profili dinamico-relazionali del pregiudizio (secondo un modello che, come segnalato da vari interpreti, appare in verità lacunoso, in quanto trascura la considerazione di eventuali sofferenze morali di carattere peculiare patite dalla vittima).

In conclusione

La sentenza in commento, così come altre pronunce che l'hanno preceduta, dimostra che – relativamente alla questione del risarcimento del danno morale - l'esercizio della funzione nomifilattica da parte della S.C. appare fortemente incrinato da ambiguità e contraddizioni, destinate a moltiplicare i dubbi interpretativi imperanti in questa materia.

Come abbiamo avuto modo di sottolineare, le indicazioni innovative che emergono in questa pronuncia seminano elementi di incertezza con riguardo al modo in cui applicare le Tabelle milanesi. Molto discutibile appare, infatti, la perorata necessità di procedere – in assenza di prova del danno morale - a una depurazione della relativa componente inclusa in tabella, una volta constatato che ogni tipo di invalidità patita dalla vittima è inevitabilmente destinata a ripercuotersi negativamente sulla sua sfera interiore: quantomeno per quanto riguarda la situazione di disagio legata alla propria condizione menomata. Posto che la tabella di Milano è costruita sulla base di una convenzione fondata proprio su una regola di questo tipo, la quota di danno morale compresa nella stessa dovrà ritenersi scontata – a fronte di una determinata percentuale di invalidità – a meno che non venga fornita prova contraria. I dubbi riguardano, altresì, l'idea che la personalizzazione vada confinata nei limiti del 30%, posto che un simile tetto riguarda una differente tabella normativa – peraltro ancora in attesa di emanazione – la costruzione della quale appare formulata secondo meccanismi che in parte differiscono da quelli posti alla base della tabella milanese.

Guida all'approfondimento

SPERA DAMIANO, I 10 punti del danno biologico: commento a Cass. n. 25164/2020 su danno morale, personalizzazione e tabella milanese, in Ridare.it

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