Il conflitto di interessi e l'abuso di potere nelle società

Antonio Franchi
10 Dicembre 2020

L'abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale ...
Massima

L'abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale - oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza ‘uti singuli' .

La relativa prova incombe sul socio di minoranza il quale dovrà a tal fine indicare i ‘sintomi' di liceità della delibera - deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze verificatesi successivamente - in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato.

Il caso

Nel giudizio oggetto di esame, la Corte d'Appello di Lecce confermava la decisione del Tribunale di Lecce di rigetto della domanda avanzata dalla società appellante volta all'annullamento di una delibera assembleare con la quale era stato deliberato lo scioglimento anticipato di una società della quale era socio l'appellante stessa, ritenendo il giudice di prime cure che non sussistesse né conflitto di interessi, né abuso di potere.

La Corte del merito aveva ritenuto, quanto al primo motivo di gravame, che non potesse astrattamente configurarsi un conflitto di interessi in relazione ad una delibera di scioglimento anticipato della società, ritenendo che tale situazione di conflitto dovesse avere a riguardo un eventuale contrasto tra l'interesse del socio e l'interesse sociale (inteso come insieme degli interessi riconducibili al contratto di società, tra i quali non è annoverabile l'interesse della società alla prosecuzione della propria attività imprenditoriale). La Corte territoriale aveva, inoltre, evidenziato che, in relazione al dedotto motivo di abuso di potere, la deliberazione di scioglimento di una società adottata dai soci nelle forme legali e con le maggioranze prescritte può essere invalidata sotto tale profilo solo allorquando risulti arbitrariamente e fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari al perseguimento di interessi divergenti da quelli societari ovvero alla lesione dei diritti del singolo partecipante; evidenziando che, nella fattispecie esaminata, le perdite d'esercizio maturate nei due anni successivi alla costituzione della società, così come il mancato raggiungimento di obiettivi prefissati e la lievitazione dei costi di gestione, costituissero validi motivi per deliberare lo scioglimento anticipato della società.

La Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso perché centrato su circostanze riguardanti fatti non dedotti nei gradi di merito, sottolineando altresì, in sintonia con i giudici del merito, l'insussistenza di valide ragioni ostative alla legittima determinazione della maggioranza dei soci di sciogliere la società.

Le questioni

Gli elementi costitutivi del cd. abuso di maggioranza

Nel nostro ordinamento non esiste una norma che identifichi espressamente la figura dell'abuso di potere nelle deliberazioni assembleari, anche se, da tempo, si ammette l'esistenza di tale fattispecie, riferendola alle ipotesi di applicazione non corretta del principio maggioritario (sull'abuso del potere o del diritto, si veda P. Rescigno, L'abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205; C. Salvi, Abuso del diritto, in Enciclopedia Giuridica Treccani, I, Roma, 1988; G. Alpa, La buona fede integrativa: note sull'andamento parabolico delle clausole generali, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza storica e contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (a cura di) L. Garofalo, Padova, I,2003, 156; F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e Impresa, 2011, 311; G. Alpa, Appunti sul divieto dell'abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi riflessi negli ordinamenti degli stati membri, in Contratto e Impresa, 2015, 2, 245. Con riferimento al diritto commerciale, si veda A. Ferrari, L'abuso del diritto nelle società, Padova, 1998; P. Montalenti, L'abuso del diritto nel diritto commerciale, in Riv. dir. civ. 2018, 4, 873).

Più precisamente, tale figura giuridica non tipizzata si estrinseca nell'esercizio del diritto di voto da parte del socio di maggioranza a danno degli altri soci, tramite l'adozione di una delibera assembleare lesiva degli interessi della minoranza, ovvero in alternativa, in contrasto con l'interesse sociale.

Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza (così come la diversa forma di abuso da parte della minoranza, che si estrinseca nell'esercizio [da parte di coloro che sono sistematicamente minoritari nelle votazioni assembleari e sistematicamente estromessi dall'esercizio del potere societario interno] di un potere che impedisca una deliberazione, mediante la manifestazione di voto contrario ovvero la mancata partecipazione alla riunione assembleare ovvero l'impugnativa pretestuosa avverso la delibera assembleare di approvazione del bilancio di esercizio) è stato, così, visto come una species del ben più ampio genus dell'abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi in cui un comportamento, che formalmente rappresenta l'esercizio di un diritto soggettivo, è sprovvisto di tutela giuridica o comunque illecito in quanto svolto in violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, ritenute concordemente da giurisprudenza e dottrina di applicazione generale a tutti i rapporti giuridici obbligatori e tra questi anche a quelli derivanti dal contratto di società. Si è, infatti, affermato che sussiste la figura dell'abuso quando la decisione dell'assemblea risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza allo scopo di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante (come ad esempio nel caso in cui, a quest'ultimo riguardo, lo scioglimento di una società sia indirizzato soltanto all'esclusione del socio) (si veda Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, in Mass. giur. it., 1995; Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151 in Giur. it., 1996, I, 1, 574; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387, in Mass. giur. it., 2005; Cass. 17 luglio 2007, n. 15942, in Società, 2008, 3, 306; Cass. 17 luglio 2007, n. 15950, in www.leggiditalia.it; Cass. 20 gennaio 2011, n. 1361, in CED Cassazione, 2011; Cass. 17 febbraio 2012, n. 2334, in Riv. notariato 2012, 2, 448; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29792, in Massima redazionale, 2018; Cass. 28 giugno 2020, n. 10096 in questo portale).

Interesse sociale e abuso di potere in ambito societario

Si verifica un conflitto di interessi nel caso in cui il socio sia portatore di un interesse personale contrastante con l'interesse della società (si veda l'art. 2373 c.c. nelle s.p.a. e l'art.2479-ter, secondo comma c.c. nelle s.r.l.). In tale ipotesi, le decisioni dei soci possono essere impugnate quando (i) il voto espresso dal socio in conflitto sia decisivo (viene, dunque, verificato se in assenza di quel voto sussista ancora la maggioranza occorrente per l'approvazione della deliberazione [c.d. prova di resistenza] e, nel caso in cui tale maggioranza permanga, la deliberazione non può essere impugnata) e (ii) la deliberazione sia dannosa, almeno potenzialmente, per la società (rilevando, dunque, non solo un danno attuale, ma anche un danno futuro, purché quest'ultimo risulti prevedibile secondo un giudizio probabilistico o statistico) (si veda Cass. civ. Sez. I, 12 luglio 2007, n. 15613 in Impresa, 2007, 10, 1420; Cass. civ. Sez. I, 23 marzo 1996, n. 2562, in Mass. giur. it., 1996; Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 1994, n. 11017, in Mass. giur. it., 1994; Cass. civ. Sez. I, 11 marzo 1993, n. 2958, in Società, 1993, 1049).

Il conflitto di interessi è, invece, irrilevante nel caso in cui la delibera assembleare consenta al socio il conseguimento anche di un suo interesse personale concorrente nel caso in cui non vi sia pregiudizio per l'interesse della società (si veda Cass. civ. Sez. I., 22 aprile 2013, n. 9680 in Fisco on line, 2013; Cass. civ. Sez. I, 21 marzo 2000, n. 3312 in Mass. giur. it., 2000; Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 1994, n. 11017, cit.).

Quanto all'individuazione dell'interesse della società, in base alla teoria cd. contrattualista (abbracciata dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie) si ritiene che l'interesse sociale sia individuato nell'interesse dei soci all'esercizio in comune di un'attività economica a scopo di lucro; con la conseguenza che, secondo tale teoria, la deliberazione può essere impugnata quando la maggioranza abbia cercato di perseguire con essa finalità contrastanti con quelle proprie di tutti i soci, come definite nel contratto sociale (si veda N. ABRIANI, Le società per azioni, in Trattato di diritto commerciale, IV, I, Padova, 2010, 505).

Con riferimento alle società per azioni (e così, analogamente, per le società a responsabilità limitata), si è, così, precisato che il legislatore abbia tipizzato una pluralità di interessi sociali, tutti riconducibili alla causa del contratto di società e oggetto di tutela prevalente rispetto ad interessi diversi, quali l'interesse alla massimizzazione del profitto sociale (artt. 2392 e 2393 c.c.), l'interesse alla percezione dei dividendi nel corso dell'attività sociale (art. 2433 c.c.), l'interesse ad influenzare e controllare la gestione della società, l'interesse a conservare immutata la propria partecipazione nella società, nell'ipotesi di variazione del capitale, anche per ingresso di nuovi soci (artt. 2441 e 2504-octies, quarto comma c.c.), l'interesse alla determinazione del grado di rischio dell'attività sociale (quale l'ipotesi di recesso consentito a fronte di determinate modifiche statutarie previsto dall'art. 2437 c.c.), l'interesse a contribuire a determinare la durata del proprio investimento in funzione delle proprie esigenze economiche (interesse che viene in gioco nell'ipotesi dello scioglimento anticipato della società, nella quale spesso si lamentano ipotesi di abuso), nonché l'interesse alla circolazione della propria partecipazione sociale (art. 2355 c.c.) (si veda, inter alia, Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.; così anche la sentenza qui in commento).

Inoltre, accanto agli interessi “tipici” ora citati, assumono specifica rilevanza e dignità di massima tutela anche quegli interessi “atipici” che le parti del contratto sociale avrebbero pattuito se avessero previsto tutti gli sviluppi dei loro rapporti futuri, disciplinandoli con un accordo ispirato al modello di comportamento etico recepito dall'ordinamento societario. Interessi “atipici” che (così come confermato da dottrina e giurisprudenza unanimi), sono desumibili dalla condotta e dalle caratteristiche peculiari di una determinata società e che costituiscono la trasposizione nel campo societario dei generali principi di buona fede e correttezza stabiliti negli artt. 1175 e 1375 c.c. (principi questi messi a disposizione dall'ordinamento per governare ogni situazione di discrezionalità nelle materie regolate dal diritto privato).

Dunque, l'interesse sociale deve essere inteso come l'insieme di tutti quegli interessi che sono comuni ai soci in quanto parti del contratto di società, in parte tipizzati nelle norme del diritto societario anzidette e in parte rappresentati da interessi atipici ispirati ai principi di correttezza e buona fede.

Non può, in ogni caso, configurarsi un interesse della società alla propria sopravvivenza produttiva suscettibile di entrare in conflitto con l'interesse della maggioranza dei soci allo scioglimento della società, giacché qualora non si desse rilevanza all'interesse allo scioglimento della società, la relativa deliberazione (espressamente presa in considerazione dal legislatore nel vigente art. 2484, n. 6 c.c.) risulterebbe essere sempre in conflitto con gli altri interessi sociali (tra i quali, come anzi detto, l'interesse ad accrescere il patrimonio sociale) e, dunque, sarebbe sempre annullabile da parte di ogni socio.

Ciò posto, tuttavia, una deliberazione di scioglimento della società può essere fatta oggetto di sindacato sotto il diverso profilo dell'abuso di potere quando risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari a perseguire interessi diversi rispetto a quelli sociali, ovvero per ledere i diritti del socio di minoranza (come, ad esempio, nel caso in cui lo scioglimento sia volto alla sola esclusione del socio).

Al fine della configurazione di ipotesi di abuso di potere è, dunque, necessario che sussista un'intenzionalità dannosa del voto, ovvero la compressione degli altrui diritti in assenza di un apprezzabile interesse del votante.

L'onere probatorio

L'onere di dimostrare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto grava sul socio di minoranza (mediante indicazione di elementi concreti) e la prova non può ritenersi limitata ai sintomi manifestatisi prima dell'adozione della delibera impugnata, ma deve, invece, fare leva, anche e principalmente, su comportamenti o indizi successivi alla deliberazione, in grado di rivelare ex post l'intervenuto abuso (si veda Cass. civ., Sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.; così anche la sentenza qui in commento).

La dimostrazione che è stato leso un interesse del socio individualmente tutelato non esaurisce, poi, l'onere probatorio dell'attore, dovendo egli altresì soddisfare il convincimento del giudice circa la mancanza di un concomitante interesse in capo alla società.

Tuttavia, l'anzidetta configurazione dell'onere della prova non sembra trovare applicazione nella particolare fattispecie individuata nell'art. 2441, comma 5, c.c. In effetti, in virtù di questa disposizione, l'impugnante risulterebbe esonerato dall'onere probatorio relativo alla non giustificabilità della lesione dell'interesse protetto, competendo alla società convenuta di fornire la dimostrazione della sussistenza dell'interesse “esigente”, in assenza del quale l'esclusione o la limitazione del diritto di opzione si rivelerebbero illegittime. Configurazione dell'onere della prova, questa, che risulta applicabile, ai sensi dell'art. 2441 comma 6 c.c., anche alla fattispecie dell'aumento di capitale mediante conferimenti in natura: la legge impone, infatti, l'onere di informazione preventiva agli azionisti per quanto concerne “le ragioni del conferimento e in ogni caso i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione”; si prevede quindi un onere di anticipata allegazione, da parte della società, del concreto interesse a giustificazione del quale viene sacrificato il diritto di opzione. Nell'eventuale sede contenziosa l'impugnante non avrà più l'onere di dimostrare l'irragionevolezza o l'incongruità della deliberazione, essendo stato preventivamente individuato l'interesse della società; competerà, comunque, all'attore provare l'inesistenza o la non-necessità/adeguatezza delle “ragioni” concretamente addotte dalla società, in mancanza delle quali si avrà il rigetto dell'azione.

Osservazioni

La Suprema Corte ha comunque ribadito il principio per cui resta in ogni caso preclusa al giudice ogni possibilità di controllo sui motivi che hanno indotto la maggioranza ad assumere una certa delibera, restando il sindacato del giudice circa la sussistenza di un abuso di maggioranza un sindacato di legittimità, senza che possano mai essere assoggettati a controllo il merito o l'opportunità della decisione oggetto di impugnazione, fatta eccezione, naturalmente, per la verifica della sussistenza o meno dell'ingiustificato o fraudolento esercizio del potere di voto ad opera del socio maggioritario (si veda Cass. 4 maggio 1994, n. 4323, in Foro it. 1995, I, 2219;Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, cit.; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353, in Riv. notariato 2004, 216; Cass. civ., Sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.; così anche la sentenza qui in commento).

Conclusioni

Alla luce di quanto sopra indicato, pare utile sottolineare che devono ritenersi indici di valida motivazione della delibera di scioglimento anticipato di una società - con esclusione, dunque, della sussistenza di un intento fraudolento del socio maggioritario - (i) la presenza di significative perdite, a maggior ragione se protratte nel tempo, (ii) il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, cristallizzati in una delibera societaria o altro documento avente valida funzione probatoria, (iii) l'aumento in misura eccessiva dei costi di gestione e (iv) l'eventuale contenzioso che coinvolga la società e i suoi soci.

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