L'onere della prova nell'azione di responsabilità verso l'amministratore

Francesco Spina
15 Dicembre 2020

Nel caso in cui i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore....
Massima

Nel caso in cui i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano, in sé vietati dalla legge o dallo statuto, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore, investendo anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di quello di diligenza; a fronte della prova della violazione del dovere, compete all'amministratore allegare e provare gli ulteriori fatti che siano idonei ad escludere o ad attenuare la sua responsabilità.

Il caso

Una società per azioni, operante nel settore della produzione e distribuzione di prodotti farmaceutici, conveniva innanzi al Tribunale di Messina il precedente amministratore per sentirlo condannare al risarcimento dei danni dallo stesso provocati, nella qualità di amministratore delegato della società attrice, tra il febbraio 1992 e il dicembre 1993.

Nel caso di specie, l'amministratore della società attrice aveva continuato a concedere credito ad un cliente (farmacia) già in grave ritardo con i pagamenti, confidando nella riscossione di tali crediti all'atto dell'effettuazione dei rimborsi da parte dell'ASL al creditore (che il creditore vantava da lungo tempo) e nella fideiussione prestata dalla moglie del creditore.

A detta di parte attrice, la condotta dell'amministratore verso il creditore, poi fallito, configurava, una fonte di responsabilità contrattuale, considerata l'assoluta irragionevolezza e l'abnorme apertura di credito verso un cliente notoriamente in difficoltà finanziaria.

Ad abundantiam, era poi evidenziato il trattamento di favore riservato al cliente in questione, poi fallito, rispetto agli accordi commerciali con le altre farmacie.

Tanto detto, il Tribunale adito accoglieva le domande di parte attrice e condannava il convenuto al pagamento della somma di Euro 413.000,00 in favore della persona giuridica.

Avverso tale decisione, l'ex amministratore frapponeva atto di appello principale.

In data 30 aprile 2015 la Corte di appello di Messina pronunciava sentenza con cui limitava la condanna dell'ex amministratore al pagamento della sola somma di Euro 16.259,10, escludendo la responsabilità dello stesso per inadempienze diverse, rispetto a quella consistente nella violazione della normativa tributaria.

Avverso tale decisione la società di capitali proponeva Ricorso per Cassazione, affidandolo a sei motivi.

In particolare, la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 2392 e 2697 c.c., con riferimento la responsabilità per colpa dell'amministratore della società per azioni.

La società si doleva del fatto che la Corte di merito, facendo un'applicazione fuorviante e impropria della giurisprudenza del Giudice di Legittimità, aveva praticamente stravolto le regole che informavano la responsabilità degli amministratori delle società per azioni per fatti di mala gestio. In particolare, il giudice distrettuale avrebbe disapplicato i principi generali in materia di colpa contrattuale degli amministratori e ignorato che “la particolare gravità della colpa e del danno arrecato alla società avrebbe richiesto una rigorosa prova di non colpevolezza”, trascurando altresì di considerare che il rapporto con la farmacia in stato di decozione, presentasse profili di assoluta anomalia e comunque di specificità in senso qualitativo e quantitativo, che lo rendevano non equiparabile ai rapporti commerciali con le altre farmacie.

Tale motivo era condiviso dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale accoglieva il ricorso rinviando alla competente Corte di Appello in diversa composizione.

Ad avviso dei Giudici Supremi, nel caso in cui i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore, investendo anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di quello di diligenza (v. Cass. 25056/2020).

Stante quanto detto, a fronte della prova della violazione del dovere, compete all'amministratore allegare e provare gli ulteriori fatti che siano idonei ad escludere o ad attenuare la sua responsabilità (v. Cass. 25056/2020).

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se in tema di comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti, ma in sé non vietati dalla legge o dallo statuto, ai fini dell'azione di responsabilità, l'onere della prova dell'attore si esaurisca nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore.

Le soluzioni

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituti coinvolti.

A mente degli artt. 2392 comma 1, c.ci, gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori.

La responsabilità verso la società s'inquadra nella responsabilità contrattuale, in quanto derivante da un rapporto di amministrazione, i cui contenuti sono determinati dalla legge e dallo statuto (v. Cass. 13765/2007).

Ne deriva l'obbligo per chi agisce in responsabilità di provare l'inadempimento, il danno ed il nesso causale intercorrente, mentre incombe sugli amministratori e i sindaci l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti (v. Cass. 22911/2010).

Per quanto attiene al profilo soggettivo, vale la presunzione ex art. 1218, sicché spetta al convenuto per esonerarsi da responsabilità, provare che l'inadempimento non è a lui imputabile (v. Cass. 2772/1999).

Qualora, eccezionalmente, la condotta lesiva dell'amministratore non sia riconducibile al rapporto di amministrazione la valutazione dovrà essere effettuata alla stregua del parametro generale della responsabilità aquiliana, ovvero di quello derivante dalla specifica natura del diverso rapporto intercorrente con la società.

Il parametro sulla base del quale deve essere valutato l'adempimento dell'amministratore ai propri doveri, è orientato al criterio della diligenza professionale, già riferita al mandatario, con il duplice richiamo alla natura dell'incarico ed alle specifiche competenze possedute dall'amministratore; quest'ultime da intendersi quale parametro di valutazione della diligenza con cui lo stesso organo esecutivo è chiamato ad agire (v. Trib. Roma 21.4.2008).

Nella valutazione della diligenza usata va effettuato un giudizio ex ante e non ex post, dovendosi, cioè, prendere in considerazione le circostanze, oggettive e soggettive, esistenti al momento in cui furono posti in essere gli atti per i quali ebbe a prodursi un pregiudizio per la società (v. Trib. Palermo 20.2.2009).

Spetta agli amministratori orientare l'attività dell'impresa sociale ed al giudice è preclusa la possibilità di verificare, nel merito, le scelte operate e di configurare una responsabilità anche qualora esse si siano dimostrate economicamente errate o non convenienti (v. Trib. Palermo 21.7.2015 e Trib. Padova 20.11.2012).

Agli amministratori è, dunque, riconosciuta una piena libertà nel compiere le scelte di gestione, c.d. business judgement rule: ne consegue che l'ordinamento non impone, agli stessi, un dovere di non compiere errori.

Il giudice non potrà, pertanto, sindacare le scelte gestionali poste in essere dagli amministratori, dovendosi limitare a valutare se gli atti compiuti siano in contrasto con i doveri di legge (v. Cass. 17441/2016).

Va da sé che il sindacato sulle scelte degli amministratori dovrà valutare la prudenza, la ragionevolezza del loro operato e la prevedibilità dei risultati, sanzionando gli amministratori che compiano errori grossolani o pongano in essere operazioni sproporzionate ai mezzi della società (v. Cass. 15470/2017, Cass. 18231/2009 e Trib. Bologna 29.12.2017).

Ciò premesso e tornando al caso in premessa, una società di capitali attivava la responsabilità nei confronti del proprio ex organo esecutivo, sia per la ragguardevole esposizione debitoria maturata da detta impresa nei confronti di altra persona giuridica, sia per saver manifestato tolleranza verso gli inadempimenti di un cliente continuando a rifornire quest'ultimo di quantitativi sempre più ingenti di merce, nonostante l'incremento esponenziale del debito che era maturato nel periodo 1992-1993.

La società attrice, pertanto, aveva prospettato una responsabilità dell'amministratore basata, come è ricordato in atti di causa, sulla “assoluta irragionevolezza e anormalità di quell'abnorme apertura di credito fatta a soggetto in difficoltà”.

In ordine a tale domanda il Giudice di merito non negava il dato della rapida crescita dell'esposizione debitoria e nemmeno escludeva che fosse nota all'amministratore la situazione di difficoltà finanziaria (che è cosa diversa dalla vera e propria decozione) in cui versava il cliente.

Si limita ad assumere, però, che i ritardati rimborsi da parte delle ASL avrebbero potuto indurre l'amministratore a continuare ad approvvigionare il cliente: con il che, all'evidenza, non viene confutato che la condotta posta in atto dall'ex organo esecutivo, presentasse gli indicati connotati di anomalia, ma è formulata una semplice supposizione.

La s.p.a. proponeva ricorso per cassazione, lamentando in particolare la violazione e l'errata applicazione dell'art. 2392 c.c. ed art. 2697 c.c. in materia di responsabilità per colpa dell'amministratore.

La ricorrente, si doleva del fatto che il Giudice di Appello avrebbe infatti disapplicato i principi generali in materia di colpa contrattuale degli amministratori ed ignorato che la particolare gravità della colpa e del danno arrecato alla società, avrebbero richiesto una rigorosa prova di non colpevolezza.

La tesi della ricorrente era accolta dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale accoglieva il ricorso introduttivo, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla compente Corte di Appello in diversa composizione.

Le conclusioni della Suprema Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nell'accogliere il ricorso introduttivo riteneva che la Corte di Appello non avesse rispettato le regole previste in materia di ripartizione dell'onere della prova.

Secondo quanto affermato dai Giudici di legittimità, l'onere di fornire la prova degli elementi di contesto inerisce al fatto costitutivo dedotto in lite, rappresentato dall'illecito dell'amministratore.

Parte attrice adempie a tale onere probatorio, dando dimostrazione di quelle condotte che denotano l'inosservanza del dovere di lealtà o diligenza.

Nel momento in cui la prova viene acquisita nel processo, spetta all'amministratore evocato in giudizio allegare e provare gli ulteriori fatti, consistenti in cautele, informazioni e verifiche, che sono idonee ad escludere od attenuare la sua responsabilità colpevole.

La Cassazione rammenta che non può essere imputato all'amministratore di una società, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (v. Cass. 25056/2020).

Il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato, non può mai infatti investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentano profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare, preventivamente, i margini del rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche ed informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (v. Cass. 15470/2015, Cass. 1783/2015 e Cass. 3409/2013).

La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori (e dei sindaci) verso la società, comporta che questa abbia soltanto l'onere di provare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori (e sindaci) il dovere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti (v. Cass. 2975/2020, Cass. 17441/2016 e Cass. 3409/2013).

Nel caso in cui venga contestato l'omesso adempimento da parte dell'amministratore dell'obbligo di diligenza, chi agisce in giudizio deve, in altri termini, fornire la prova di quegli elementi di contesto dai quali è possibile inferire la violazione del dovere previsto dall'art. 2392 c.c. (v. Cass. 25056/2020).

La Cassazione ha, in conclusione, affermato che il Giudice di appello ha errato in quanto ha implicitamente riconosciuto che la condotta posta in essere dall'amministratore era negligente e quindi produttiva di responsabilità, ma successivamente aveva riversato sulla società attrice le conseguenze della mancata prova della incapienza del fideiussore, visto che incombeva sull'amministratore l'onere di dover dimostrare che il danno non gli era imputabile, avendo procurato la garanzia di un soggetto solvibile.

Osservazioni

Con la sentenza in commento, i Giudici della Sezione Prima prendono posizione sull'onere della prova in tema di azione di responsabilità promossa ex art. 2392 c.c., affermando che nel caso in cui i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano, in sé, vietati dalla legge o dallo statuto, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella dimostrazione dell'atto compiuto dall'amministratore, investendo anche elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di quello di diligenza; a fronte della prova della violazione di tali doveri, compete all'amministratore allegare e provare gli ulteriori fatti che siano idonei ad escludere o ad attenuare la sua responsabilità.

All'amministratore di una società – osservano in primo luogo i giudici di legittimità – non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico; tale valutazione, infatti, riguarda la discrezionalità imprenditoriale e può eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.

Si tratta della c.d. regola della business judgment rule (BJR) che, recentemente, il Tribunale di Roma ha ritenuto applicabile anche in relazione al dovere degli amministratori di istituire adeguati assetti societari o alle scelte di tipo organizzativo, sancito dall'art. 2086 comma 2 c.c., come inserito dall'art. 375 comma 2 del D. Lgs. 14/2019 (v. Tribunale Roma Sez. spec. in materia di imprese, Ord., 08-04-2020).

Tale regola trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle scelte, considerate sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e nella diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere.

Di conseguenza, il giudizio sulla diligenza nell'adempimento del mandato gestorio potrà riguardare la diligenza utilizzata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione che si va a intraprendere.

Ovverosia l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (v. Cass. nn. 15470/2017, 17761/2016, 1783/2015 e 3409/2013).