Il lavoratore rifiuta la proposta transattiva: la condanna alle spese di lite è incostituzionale?

16 Dicembre 2020

Il potere del giudice di tenere conto, ai fini della statuizione sulle spese, del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva da parte del lavoratore si traduce solo nella possibilità di compensare, in tutto o in parte, tali spese, senza alcuna forma di automatismo. Non vi è, pertanto, alcun ostacolo per il lavoratore all'accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale.

Il lavoratore (vittorioso) non accetta la proposta transattiva: l'eventuale condanna alle spese è illegittima? La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., anche in combinato disposto con l'art. 420, comma 1, c.p.c., nella misura in cui attribuiscono al giudice il potere di porre le spese processuali a carico del lavoratore ricorrente che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, una proposta conciliativa poi rivelatasi equivalente o, addirittura, più favorevole rispetto all'esito del giudizio.

Le censure del rimettente. Secondo il giudice a quo, la disciplina impugnata si porrebbe in contrasto con l'esigenza di tutelare il lavoratore, quale parte strutturalmente debole del processo, con la conseguenza di snaturare le finalità dell'istituto della conciliazione nel processo del lavoro: la diseguaglianza economica delle parti, finirebbe – secondo quanto prospettato dal rimettente – per indurre il lavoratore ad accettare una proposta conciliativa incongrua al solo fine di evitare il rischio di essere condannato alle spese. In altri termini, la scelta di conciliare la controversia non sarebbe “libera”, poiché sanzionata attraverso uno sproporzionato rischio di aggravamento di spese nei confronti di chi, seppur parzialmente, abbia comunque ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato.

Questo ostacolo al diritto di accesso al giudice si porrebbe in contrasto, non solo con gli artt. 3 e 24 Cost., ma anche con le altre norme costituzionali che, come gli artt. 4 e 35 Cost., attribuiscono peculiare rilevanza e tutela al lavoro. Il rimettente ritiene violati, altresì, gli artt. 117, comma 1, Cost. e 6, 13 e 14 della CEDU.

L'art. 91 c.p.c. si riferisce al rifiuto della proposta formulata dal convenuto... L'art. 91, comma 1, c.p.c. stabilisce che il giudice «[s]e accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 92».

Tale periodo è stato inserito dalla l. n. 69/2009 con l'intento di deflazionare il contenzioso giudiziario, facendo leva sul principio di autoresponsabilità della parte nella valutazione di una proposta conciliativa: in sostanza, il costo del processo che si è inutilmente protratto a causa dell'ingiustificato rifiuto di aderire ad una proposta conciliativa seria (al punto da essere “confermata” dalla sentenza) viene posto a carico della parte che quella proposta abbia ingiustificatamente rifiutato, facendo proseguire inutilmente il processo, con i correlativi oneri a carico della società.

La giurisprudenza ha chiarito che la disposizione in questione non si riferisce alla proposta conciliativa del giudice, ma a quella formulata da una delle parti in causa, le uniche titolari di un potere negoziale in senso proprio (Cass. civ, Sez. Un., n. 21109/2017). In particolare, il tenore testuale della disposizione censurata – che fa riferimento all'evenienza in cui la “domanda” sia accolta in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa – evidenzia che è preso in considerazione il rifiuto dell'attore e che la proposta è, quindi, quella del convenuto.

Tale disposizione è di dubbia compatibilità con un processo, come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore per il lavoratore, per lo più parte ricorrente, volte a tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il profilo economico. Essa, infatti, elevando il rischio della lite per l'attore, e quindi per il lavoratore, parte ricorrente, finirebbe – piuttosto che favorire quest'ultimo – per indurlo a non insistere nel chiedere integralmente quanto dedotto nella domanda a causa del rischio dei costi che sarebbe tenuto a sopportare qualora, accolta parzialmente la domanda, l'esito della controversia fosse meno favorevole (o equivalente) al contenuto della proposta proveniente dall'altra parte.

Tuttavia, la Consulta ritiene inammissibile la questione di legittimità dell'art. 91 c.p.c., non trovando tale disposizione applicazione nel giudizio a quo, posto che la proposta conciliativa oggetto del rifiuto del lavoratore non era stata formulata dall'altra parte, bensì dal giudice.

… l'art. 420 c.p.c. alla proposta del giudice. La pronuncia in commento passa, poi, ad esaminare le censure riguardanti l'art. 420, comma 1, c.p.c., che prevede, nel processo del lavoro, una disciplina specifica della proposta conciliativa del giudice. Tale norma – inserita dalla legge n. 183/2010 e modificata dal d.l. n. 69/2013 – prevede che «[n]ell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio».

Questa disposizione si colloca nell'ambito di un più ampio disegno riformatore, nel quale il legislatore ha contestualmente eliminato l'obbligo del previo tentativo di conciliazione nelle controversie di lavoro, rendendo lo stesso solo facoltativo. Di qui l'esigenza di attribuire maggior “peso” alla proposta transattiva o conciliativa effettuata dall'autorità giudiziaria all'udienza di discussione ove sia fallito il tentativo di conciliazione svolto in tale sede, prevedendo conseguenze correlate al rifiuto della stessa senza giustificato motivo.

Il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva formulata dall'autorità giudiziaria assume rilievo nella decisione quanto alla statuizione sulle spese processuali e non già alla valutazione del merito della controversia, stante il diritto della parte a vedersi integralmente riconosciuto, sul piano del diritto sostanziale, quanto ad essa spettante all'esito del giudizio (cfr., Corte cost., n. 77/2007 e Corte cost., n. 190/1985).

Rifiuto ingiustificato del lavoratore: la disciplina delle spese legali non è incostituzionale. Invero l'art. 420, comma 1, c.p.c. – a differenza dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. – consente al giudice, ove la proposta conciliativa o transattiva, formulata dallo stesso all'udienza di discussione, non sia stata accettata, di tenere conto in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai fini della sola regolamentazione delle spese, del rifiuto di tale proposta senza giustificato motivo.

Tale facoltà, peraltro, non si traduce nel potere del giudice di condannare alle spese la parte che sia risultata parzialmente vittoriosa (pur in misura equivalente o inferiore all'importo oggetto della proposta non accettata), essendo invalicabile, in difetto di un'espressa previsione normativa in senso contrario, il principio generale della soccombenza (cfr. Cass. civ., n. 23044/2020), salva l'ipotesi dell'abuso del processo per violazione del dovere di lealtà e di probità (art. 88 c.p.c.). Ne deriva che il potere del giudice del lavoro di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all'udienza di discussione ai fini della statuizione sulle spese di lite si traduce solo nella possibilità di compensarle legittimamente, in tutto o in parte, anche ove non ricorrano i presupposti di cui all'art. 92, comma 2, c.p.c.

Peraltro, ciò avviene senza alcuna forma di automatismo, diversamente dall'ipotesi contemplata dall'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., in quanto il giudice ha solo la facoltà, e non già l'obbligo, di considerare tale condotta ai fini della decisione sul riparto delle spese processuali.

La disposizione impugnata, pertanto, non pone un ostacolo al lavoratore, pur parte “debole” del rapporto, all'accesso e alla piena realizzazione della tutela giurisdizionale, limitandosi ad ampliare il novero delle ipotesi nelle quali il giudice, motivatamente, può compensare, a fronte di una condotta comunque ingiustificata della parte, le spese di lite. Inoltre, la possibilità del giudice di vagliare in modo simmetrico la condotta di entrambe le parti in causa, e non del solo lavoratore, per la statuizione sulle spese di lite – in vista di un'eventuale compensazione e non già di una condanna alle stesse esclusivamente della parte vittoriosa – rispetto all'ingiustificato rifiuto di una proposta conciliativa, esclude ogni forma di potenziale discriminazione in danno del lavoratore.

La disposizione censurata, quindi, non lede i parametri evocati dal giudice a quo.

*Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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