Con sentenza n. 36317/2020, depositata il 17 dicembre, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto dall'imputato avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello aveva confermato la condanna a suo carico per il reato di peculato, per essersi appropriato, in qualità di legale rappresentante della struttura alberghiera, di una somma incassata dai clienti della struttura a titolo di imposta di soggiorno.
Nell'esaminare il ricorso, dopo un attento esame della normativa previgente e della giurisprudenza formatasi in tema di illecita appropriazione da parte del gestore delle strutture ricettive dall'imposta di soggiorno riscossa dai clienti in esse alloggiati, la Suprema Corte ha posto l'accento sulle novità introdotte all'art. 4, comma 1-ter, d.lgs. n. 23/2011 dall'art. 180, comma 3, d.l. n. 34/2020, convertito in l. n. 77/2020.
In particolare, a seguito alla novella del 2020, l'articolo sopra citato ora prevede che «Il gestore della struttura ricettiva è responsabile del pagamento dell'imposta di soggiorno di cui al comma 1 e del contributo di soggiorno di cui all'art. 14, comma 16, lettera e), del d.l. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 122/2012, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. La dichiarazione deve essere presentata cumulativamente ed esclusivamente in via telematica entro il 30 giugno dell'anno successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo, secondo le modalità approvate con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Per l'omessa o infedele presentazione della dichiarazione da parte del responsabile si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma dal 100 al 200 per cento dell'importo dovuto. Per l'omesso, ritardato o parziale versamento dell'imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica la sanzione amministrativa di cui all'art. 13 d.lgs. n. 471/1997».
Tale quadro normativo è stato poi esaminato dalla Cassazione con particolare riguardo alla questione degli effetti da esso scaturenti sulla fattispecie penale del peculato in relazione alle condotte consumate nella vigenza della precedente disciplina della imposta di soggiorno e, in mancanza di disposizioni transitorie, la Corte ha cercato di stabilire se la nuova normativa abbia o meno trasformato con effetto retroattivo la condotta di «omesso, ritardato o parziale versamento dell'imposta di soggiorno» da parte del gestore, prima punita a titolo di peculato, in un illecito amministrativo-tributario.
Ebbene, posto che «la nuova norma ha trasformato radicalmente il ruolo assunto dal gestore rispetto alla imposta di soggiorno», al quale è stata ex novo attribuita un'obbligazione tributaria, che lo espone direttamente con altri (con diritto di rivalsa) alla responsabilità del versamento dell'imposta, la Corte ha affermato che «è stata attratta nel capo dell'illecito amministrativo-tributario una diversa condotta rispetto a quella rilevante penalmente in passato: nella attuale fattispecie prevista dall'art. 4 cit. non vi è più un agente, estraneo al rapporto tributario, che si appropria della imposta della quale era incaricato della riscossione e del versamento, bensì si è in presenza di un soggetto privato, che è obbligato con altri, che omette di versare la imposta stessa».
Tanto premesso, inquadrata anche la successione delle leggi, la Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto che debba escludersi che la modifica del quadro di riferimento normativo di natura extrapenale che regola il versamento dell'imposta di soggiorno abbia comportato un fenomeno di abolitio criminis delle condotte di peculato commesse in precedenza, ritenendo una siffatta interpretazione “autentica” con effetto retroattivo non praticabile nel caso di specie per una serie di ragioni, tra cui, in primis, quella per cui risulterebbe contraria ai principi costituzionali in tema di riserva di legge in materia tributaria.
Tale riserva, infatti, impone al legislatore di individuare con sufficiente analiticità gli elementi essenziali della stessa prestazione (presupposto d'imposta, base imponibile, soggetti obbligati, indici di capacità contributiva).
Inoltre, lo stesso art. 52 d.lgs. n. 446/1997 che disciplina la potestà regolamentare comunale in materia tributaria, richiamato dall'art. 4 in oggetto, stabilisce che tale potestà non possa estendersi all'individuazione dei soggetti passivi.
La Corte ha poi concluso affermando che «il silenzio del legislatore quanto all'imputazione in capo al gestore del rapporto tributario assume un significato non diversamente interpretabile. Ma vi sono anche argomenti che fanno protendere per un consapevole silenzio del legislatore».
Con tale sentenza la Sez. VI quindi ribadito quanto già espresso con la sentenza 30227/2020.
Fonte: IlPenalista