L'opzione di vendita a prezzo fisso a “consuntivo” viola il patto leonino ed è pertanto nulla

Martino Liva
22 Dicembre 2020

L'opzione di vendita (cd. opzione put) di una partecipazione sociale con corrispettivo predeterminato, comprensivo degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio titolare dell'opzione di vendita in favore della società, per giunta di importo comunque superiore al versamento in aumento di capitale eseguito dal titolare dell'opzione al momento dell'ingresso in società, realizza, in via indiretta, il risultato vietato dal cd. patto leonino.
Massima

L'opzione di vendita (cd. opzione put) di una partecipazione sociale con corrispettivo predeterminato, comprensivo degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio titolare dell'opzione di vendita in favore della società, per giunta di importo comunque superiore al versamento in aumento di capitale eseguito dal titolare dell'opzione al momento dell'ingresso in società, realizza, in via indiretta, il risultato vietato dal cd. patto leonino. Di conseguenza, l'opzione di vendita così congeniata è colpita dalla sanzione di nullità di cui all'art. 2265 c.c.

Il caso

Dando seguito a un filone giurisprudenziale sviluppatosi, con posizioni contrastanti, dopo l'importante pronuncia di legittimità Cass., Sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, il Tribunale di Milano torna sul tema accogliendo la domanda del socio di maggioranza di una S.r.l. che aveva sottoscritto con uno dei soci di minoranza, al momento dell'ingresso in società di quest'ultimo, una duplice opzione esercitabile in un arco temporale prefissato. Precisamente: un'opzione di vendita (cd. put) a favore del socio di minoranza e una corrispettiva opzione di acquisto (cd. call) a favore del socio di maggioranza. Al momento della sottoscrizione delle opzioni, si era verificato anche l'ingresso in società del socio di minoranza, con sottoscrizione di un aumento di capitale, con sovrapprezzo, per complessivi Euro 205.000.

La vertenza è sorta su domanda del socio di maggioranza, dopo che quest'ultimo ha subito l'esercizio dell'opzione put. Opzione che era stata effettivamente esercitata dal socio di minoranza nel periodo di esercizio pattuito seppur (particolare importate) in costanza di una delibera di liquidazione volontaria della società, prodromica a una domanda di concordato preventivo, poi effettivamente omologato. L'attore ne ha contestato la validità, trattandosi di opzione put cd. “a consuntivo”, vale a dire con prezzo fisso (nel caso, Euro 250.000) cui dovevano aggiungersi gli esborsi medio tempore eventualmente eseguiti dal socio di minoranza in favore della società. Di fronte alla fattispecie richiamata, i giudici milanesi di sono pronunciati per la tesi attorea, ravvisandosi un negozio di per sé lecito ma in grado di realizzare, in via indiretta, l'effetto leonino “e, dunque, ricadendosi, nella previsione ex art. 1344 c.c.”.

Le questioni giuridiche

Il Tribunale di Milano rivendica, con la sentenza in commento, la propria giurisprudenza sulle opzioni put “a consuntivo” guidato nella propria analisi dai principi della già richiamata Cass., Sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927, vero e proprio leading case sul tema.

L'analisi dei giudici milanesi prende le mosse dall'esatta qualificazione del patto leonino, che si verifica soltanto quando sussiste una “esclusione totale e costante di uno o di alcuni soci dalla partecipazione al rischio di impresa e dagli utili, ovvero da entrambe” (così anche la citata Cass., Sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927 e Corte Appello Milano, Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 636 di cui infra in Osservazioni).

Quale sia il concetto di “perdita” rilevante per il patto leonino è oggetto di ulteriore passaggio logico dei giudici, i quali, richiamando un proprio recente precedente, la individuano soltanto in quelle perdite di esercizio capaci di intaccare il capitale sociale per oltre 1/3 o addirittura di farlo scendere sotto il minimo legale” in quanto “la responsabilità del socio è limitata al conferimento” (così Trib. Milano 27 marzo 2020).

Si passa quindi all'analisi della ratio del divieto di patto leonino, vera e propria norma “transtipica”, la cui finalità è da leggersi in senso sostanziale e non formale alla luce della “struttura causale del contratto sociale”, in grado di comminare la nullità a ogni patto che dia un risultato “leonino” sia in via diretta (art. 1418 c.c.) sia in via indiretta (art. 1344 c.c.).

Così ricostruita la cornice legale, i giudici milanesi (anche in parziale contrasto con la recente pronuncia della Cassazione del 2018; cfr. infra in Osservazioni) ravvisano nell'operazione pattuita tra i due soci in causa un'operazione che, in definitiva, attribuisce a un socio il diritto di uscire dalla compagine sociale con un margine di profitto del tutto insensibile alla situazione patrimoniale della società. Verificandosi, quindi, un disinteresse di tale socio rispetto alla miglior gestione dell'impresa, che costituisce uno dei beni giuridici tutelati dall'art. 2265 c.c.. A ciò, si aggiunge un'interessante precisazione di natura prettamente civilistica che i giudici milanesi relegano in nota di sentenza, ma che merita un cenno. Il meccanismo del prezzo “a consuntivo”, rappresenterebbe, seppur in senso a-tecnico, una garanzia “di per sé illimitata” essendo gli esborsi del socio “leone” per operazioni di ricapitalizzazione ricompresi de plano nel prezzo predeterminato, e, pertanto, in violazione dell'art. 1938 c.c. in tema di limite massimo delle fideiussioni.

Nella presa di posizione dei giudici si evince che hanno inciso due circostanze fattuali del caso. La prima consiste nell'ammontare dell'apporto finanziario versato del socio titolare dalla put in sede di ingresso in società mediante aumento di capitale. Una somma già in partenza inferiore al prezzo cui avrebbe poi potuto esercitare l'opzione di vendita, generando quindi un'operazione priva di rischio e con un margine di profitto, seppur effettuato con un investimento di equity. La seconda, la crisi che ha colpito la società, sfociata in un concordato preventivo liquidatorio, che ha reso ancor più evidente la natura “leonina” dell'operazione.

Non manca infine il Tribunale di precisare l'irrilevanza, ai fini della decisione, di una verifica sull'effettiva esecuzione di esborsi in favore della società medio tempore (il cd. meccanismo “a consuntivo”),poiché la nullità in discussione è da valutare “nel momento genetico del negozio”. E nemmeno assume importanza il fatto che, contestualmente all'opzione put, i due soci avessero previsto una opzione call a favore dell'altra parte; ciò, infatti, non incide “sullo squilibrio della posizione del socio “leone” rispetto alla causa sociale”.

Osservazioni

Il caso in esame ha significativa importanza poiché consente al Tribunale di Milano di tornare sul tema delle opzioni put a consuntivo e ribadire la propria posizione, anche parzialmente in contrasto rispetto alla recente importante sentenza Cass., Sez. I , 4 luglio 2018 , n. 17498 (in Banca Borsa Titoli di Credito 2019, 1, II , 70 e altri) pronunciatasi sul cd. caso DeA/Sopaf, cassando, con un atteggiamento di maggiore apertura, le pronunce di Corte Appello Milano, Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 636 (in questo portale, con nota di Caruso), e di Trib. Milano, 30 dicembre 2011 (in www.giurisprudenzadelleimprese.it).

I giudici milanesi, dimostrano di ben conoscere le motivazioni della pronuncia di legittimità del 2018 citata, che aveva (in estrema sintesi e senza pretesa di completezza) limitato l'operatività del divieto del patto leonino ai soli casi di pattuizioni direttamente contrastanti con l'art. 2265 c.c.. Qualificando invece le diverse operazioni contrattuali (tra cui probabilmente quella in esame della sentenza in commento) come meccanismi di “trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo”, privi di rilevanza rispetto all'ente societario.

Si tratta di una conclusione non condivisa dal Tribunale milanese, che, senza problemi di sudditanza, la ritiene in contrasto con la diversa giurisprudenza della Cassazione in tema di divieto di patto commissorio “e di conseguente nullità dei negozi volti a realizzare in via indiretta tal genere di accordo”. Soprattutto, appare non coerente con la ratio del patto leonino già illustrata che mira, in definitiva, alla buona gestione dell'impresa e non tollera situazioni di assoluto e costante disallineamento tra un investimento di equity e la miglior gestione possibile dell'impresa. Un principio, peraltro, che il Tribunale di Milano desume anche dalla regola della postergazione dei finanziamenti dei soci di cui all'art. 2467 c.c., norma che in un'ottica di sistema “sottolinea la rilevanza della posizione di socio quanto all'assunzione del rischio di impresa” e punisce comportamenti opportunistici dei soci che si nascondono sotto la veste del creditore nel momento della crisi d'impresa, senza più assumersi rischi di conferimento.

Conclusioni

Se dopo la sentenza Cass., Sez. I 4 luglio 2018 , n. 17498 si erano allargati i confini per la strutturazione di articolate operazioni inquadrabili nella galassia dei cd. “finanziamenti partecipativi”, qualificati dai giudici di legittimità come, a priori, meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., la sentenza in commento (anche, si badi, per le caratteristiche della fattispecie concreta) rappresenta, quanto meno per gli operatori milanesi, il ritorno di un approccio più rigoroso.

In altri termini, secondo l'approccio ultimo della Cassazione, la meritevolezza di tali operazioni – che quindi sfuggono al divieto del patto leonino - si sostanzia nell'essere una partecipazione di impresa che comporta per il socio finanziatore, una remunerazione del conferimento, la certezza dei valori di exit e, talvolta, poteri di controllo al limite di poteri gestori, mentre per l'imprenditore la possibilità di reperimento di risorse finanziarie a condizioni più favorevoli e senza aumentare l'indebitamento. Al contrario, la giurisprudenza milanese, richiama l'attenzione sulla capacità del divieto di cui patto leonino di applicarsi anche in via indiretta ad operazioni che, in definitiva, comportano una totale e perpetua dissociazione tra l'investimento di impresa e l'andamento della stessa. Ne deriverebbe, infatti una “grave e diretta lesione dell'interesse della società ad essere gestita mediante il contributo e l'apporto di ogni socio (Corte Appello Milano, Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 636 di cui sopra) che altera la nozione stessa di società quale unione di patrimoni per lo svolgimento di attività economica.

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