Sfratto e clausola compromissoria

04 Gennaio 2021

Sono deferibili agli arbitri le controversie in materia di locazione? In presenza di una clausola compromissoria la controversia locatizia è suscettibile di essere definita mediante procedimento per convalida?
Divieto di compromettibilità in arbitri e controversie locatizie

La problematica della deferibilità agli arbitri delle controversie in materia di locazione ha trovato diverse soluzioni, sia nella giurisprudenza che nella dottrina.

La Suprema Corte, in diverse occasioni, ha desunto la non arbitrabilità delle controversie locative dalla inderogabilità della disciplina, di diritto sostanziale, che regola la materia (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 1983, n.1172, che traeva la «invalidità della clausola compromissoria nella materia in oggetto, dall'art. 79 della legge sull'equo canone, laddove questa vieta, a pena di nullità, ogni pattuizione diretta ad attribuire al locatore un vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge». Analogo ragionamento ha indotto la Corte a negare, a maggior ragione, la possibilità di deferire le controversie locatizie ad «arbitri amichevoli compositori, chiamati a giudicare pro bono et equo» giacchè la relativa clausola avrebbe avuto l'effetto – vietato dall'art. 79 della legge sull'equo canone - di svincolare «preventivamente la soluzione di ogni possibile controversia dalla disciplina legale» (in analoghi termini cfr. Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2000, n. 4802).

Tale orientamento svelava la propria fallacia già nella vigenza dell'art. 54 della legge sull'equo canone – poi abrogato dall'art. 14 comma 4 della legge n. 431/98 – che nel sancire esplicitamente la (sola) nullità della «clausola con la quale le parti stabiliscono che le controversie relative alla determinazione del canone siano decise da arbitri» avrebbe dovuto indurre a ritenere – a contrario - che le controversie non riconducibili a quella disposizione ben potevano essere compromesse in arbitri.

L'art. 806 c.p.c., inoltre, sottrae al procedimento arbitrale, salvo espresso divieto di legge, le sole controversie aventi per oggetto diritti indisponibili, oltre che, entro dati limiti, le controversie in materia di lavoro e di previdenza ed assistenza obbligatorie, quelle che riguardano questioni di stato e di separazione personale tra coniugi nonché quelle che, vertendo su diritti indisponibili, non possono formare oggetto di transazione.

Né il carattere di inderogabilità di alcune norme della disciplina delle locazioni di immobili urbani - le quali importano la nullità delle pattuizioni difformi dal paradigma legale e, perciò, delle eventuali rinunce da parte del conduttore ai diritti che la legge gli attribuisce - può indurre a ritenere che le controversie locatizie vertano su diritti indisponibili nel senso di cui al citato art. 806 c.p.c. Basta considerare, infatti, che la giurisprudenza, pacificamente, tende a sanzionare l'elusione preventiva dei diritti del conduttore, ma non esclude la possibilità di disporne una volta che gli stessi siano sorti e possano essere fatti valere, sul presupposto che in tema di locazioni, la disciplina cogente, se importa la nullità delle pattuizioni difformi dal paradigma legale, prefigura una indisponibilità proiettata in futuro, rivolta ad evitare una elusione preventiva dei diritti del conduttore, ma non esclude la possibilità di disporne una volta che gli stessi siano sorti e possano essere fatti valere (tra le tante, senza pretesa di completezza, Cass. civ. sez. III, 30 settembre 2019 n. 24221; Cass. civ., sez. III, ord., 23 agosto 2018, n. 20974; Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2018, n.15373). Come la Suprema Corte a Sezioni Unite ha chiarito - Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2017, n. 14861 - «… la sfera della indisponibilità dei diritti non coincide con l'inderogabilità delle norme che li regolano: il secondo insieme è più ampio del primo e l'inderogabilità delle norme poste a tutela di determinati interessi non implica necessariamente l'indisponibilità delle situazioni giuridiche soggettive che vi sono sottese».

Del resto, laddove il legislatore ha voluto espressamente sottrarre alcune controversie – in ragione della materia o della finalità – alla competenza degli arbitri lo ha esplicitamente dichiarato: si veda l'art. 669-quinquies c.p.c., in materia di procedimenti cautelari o – come detto - l'art. 54 della legge sull'equo canone cit.

Parte della giurisprudenza, invece, ha in più occasioni desunto la non arbitrabilità delle controversie locatizie dalla «competenza funzionale inderogabile» del Tribunale in materia locatizia (cfr. per tutte Cass. civ., sez. III, n. 6811/2015; Cass. civ., sez. II, ord., 16 gennaio 2003, n.581; Trib. Roma, sez. VI, 3 gennaio 2020, n. 24476; Trib. Roma, sez. VI, 18 marzo 2019, n.6124).

Tale tesi muove dalla premessa che l'arbitrato rituale sia da ricondurre alla medesima funzione giurisdizionale, sicché l'arbitro sarebbe un giudice diverso da quello funzionalmente ed inderogabilmente indicato dalla legge e, quindi, incompetente.

La tesi non è condivisibile giacchè la clausola compromissoria e il compromesso importano una rinuncia alla giurisdizione dello Stato con la conseguenza che non si pone un problema di rapporto tra due «giudici» ma tra un «giudice» e «gli arbitri», estranei al sistema giurisdizionale (per argomentazioni in questo senso ricavabili dalla legge n. 5/1994 e dal d.lgs. n. 40/2006 cfr. anche Cass. civ., sez. un., 6 giugno 2017, n. 14861; di recente sulla deferibilità agli arbitri anche Cass. civ., sez. I, 15 ottobre 2014, n. 21836, che ha persino ammesso che dinanzi agli arbitri possa avvenire la sanatoria ex art. 55 legge sull'equo canone).

Del resto, anche la Suprema Corte ha esplicitamente ribadito che la disciplina della inderogabilità della competenza in materia locatizia attiene solo quella per materia e territorio, con la conseguenza che la clausola con cui le parti compromettano in arbitri una controversia ordinaria in materia locatizia non è colpita dalla sanzione della nullità delle clausole derogative della competenza di cui all'art. 447-bis comma 2 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 11 maggio 1999, n. 4652; Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1914).

I rapporti tra il procedimento per convalida e il giudizio arbitrale

Alla domanda se in presenza di una clausola compromissoria la controversia sia suscettibile di essere definita attraverso il procedimento per convalida deve darsi risposta negativa.

Appare opportuno premettere un esame della giurisprudenza di legittimità e di merito sull'argomento.

In alcune pronunce la Suprema Corte ha ritenuto sottratto agli arbitri il procedimento per convalida in conseguenza della natura inderogabile della competenza, attribuita, nella materia de qua, al giudice ordinario. (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. I, 7 luglio 2014, n. 15452; Cass. civ., sez. III, 23 giugno 1995, n.7127 nonché Trib. Salerno, sez. I, 4 maggio 2007 e Trib. Modena, sez. II, 16 giugno 2011, n. 1038; Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 1991, n. 387).

In altre si sostiene che la competenza del giudice ordinario sarebbe limitata alla prima fase, a cognizione sommaria, mentre subentrerebbero, per la fase di merito, le normali regole di competenza (Cass. civ., 16 gennaio 1991, n. 387; Cass. civ., sez. III, 23 giugno 1995, n.7127).

Secondo questo orientamento, l'avvenuta stipulazione di una convenzione arbitrale non precluderebbe al creditore l'accesso alla procedura di sfratto, autorizzando il giudice alla emanazione dei provvedimenti immediati, ivi compresa la eventuale concessione del termine di grazia ex art. 55 legge sull'equo canone e, in caso di opposizione, del provvedimento ex art. 665 c.p.c. imponendo al giudice, solo in caso di eccezione arbitrale, la rimessione della controversia al giudizio degli arbitri (in caso di arbitrato rituale) incombendo poi alle parti di attivarsi per l'effettivo svolgimento del relativo giudizio.

Secondo una tesi minoritaria, che riconosce all'ordinanza provvisoria di rilascio, ex art. 665 c.p.c. natura cautelare (Pret. Brindisi, 28 febbraio 1986, DG, 86, 881 e Pret. Viareggio, 5 giugno 1996, GC, 96, I, 3297) l'attribuzione agli arbitri della fase ordinaria sarebbe consentita in applicazione delle regole del procedimento cautelare uniforme, ai sensi dell'art. 669-quaterdecies c.p.c. e, quindi, della disposizione dell'art. 669-novies c.p.c., secondo cui il provvedimento cautelare perde efficacia se il lodo arbitrale dichiari inesistente il diritto per il quale esso sia stato concesso.

Le tesi predette non appaiono condivisibili.

Il tenore testuale dell'art. 806 c.p.c., secondo il quale «le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte» evidenzia che l'estensione dell'arbitrato è commisurata alle controversie (in senso di materia) ad essi affidate dalle parti e non all'assetto procedurale che tali controversie possono assumere.

Inoltre, il valore della pattuizione di arbitrato «consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all'azione giudiziaria» quantomeno in sede di giurisdizione ordinaria (tra le altre Cass. civ., 19 febbraio 2003, n. 2501, Cass. civ., sez. un., 6 giugno 2017, n. 14861 oltre che Cass. civ., sez. II, ord., 24 settembre 2018, n. 22490).

Pertanto, se le parti hanno pattuito una clausola arbitrale, hanno rinunciato alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario: salvo (solo) quella cautelare, ex art. 669-quinquies c.p.c. e, dunque, anche all'azione per convalida.

Ebbene proprio la possibilità della traslatio iudicii dal giudice all'arbitro dopo i provvedimenti ex art. 667 c.p.c., di recente ribadita in via generale dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. VI, 6 dicembre 2012, n. 22002 per cui «L'art. 819-ter comma 2 c.p.c., nella parte in cui afferma che «nei rapporti tra arbitrato e processo» non si applica l'art. 50 c.p.c., riguarda solo il caso in cui siano gli arbitri a escludere la loro competenza e a riconoscere quella del giudice ordinario. Allorquando, invece, sia il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri è possibile la riassunzione dinanzi agli arbitri nel termine fissato o, in mancanza, in quello previsto dall'art. 50 c.p.c., con salvezza dell'effetto interruttivo c.d. istantaneo della prescrizione ai sensi dell'art. 2943 comma 3 c.c. e di quello permanente, di cui all'art. 2945 comma 2 dello stesso codice») evidenzia la non condivisibilità della soluzione predetta per le conseguenze aberranti che potrebbero derivarne e per insormontabili, a parere di chi scrive, ostacoli concettuali.

La inaccettabile tesi di una traslatio iudicii dal giudice della convalida all'arbitro

Nel caso in cui il giudice ordinario abbia pronunciato l'ordinanza provvisoria di rilascio di cui all'art. 665 c.p.c., ritenendo, ad esempio, sussistente l'inadempimento contestato dal locatore al conduttore, l'arbitro, successivamente adìto per il prosieguo del merito, non potrebbe mai, anche ove ritenesse insussistente il medesimo inadempimento, revocare l'ordinanza provvisoria di rilascio neanche con la pronuncia finale con la quale rigetti la originaria domanda di risoluzione.

Non v'è dubbio, infatti, che l'ordinanza provvisoria di rilascio non possa essere assoggettata al controllo degli arbitri, giacché questi possono essere chiamati a decidere le controversie loro devolute, ma mai a confermare, modificare o revocare provvedimenti del giudice ordinario.

Basta considerare che, anche nella disciplina del procedimento cautelare uniforme, il lodo arbitrale rituale che dichiari l'inesistenza del diritto oggetto di cautela non determina la automatica caducazione del provvedimento cautelare già pronunciato, ex art. 669-novies ult. comma n. 2 e comma 2 c.p.c., se non attraverso il ricorso allo stesso giudice della cautela.

Senza contare che la tesi della natura cautelare dell'ordinanza provvisoria di rilascio sembra ormai abbandonata (cfr. Trib. Lucca, 18 gennaio 1993, che ha escluso l'applicabilità all'ordinanza provvisoria di rilascio della disciplina prevista dal procedimento cautelare uniforme in tema di reclamo e Trib. Piacenza, 21 dicembre 2000 e Trib. Milano, 12 gennaio 1995, che hanno negato la natura cautelare di detto provvedimento di rilascio argomentando dalla mancanza di strumentalità rispetto ad una pronuncia definitiva).

Consapevole di tale incongruità, in una datata sentenza la Suprema Corte ha ritenuto che la translatio iudicii dal giudice ordinario agli arbitri, sarebbe ammessa solo nel caso che il giudice ordinario abbia denegato l'ordinanza provvisoria di rilascio (Cass. civ., 23 ottobre 1969, n. 3472, in Giust. civ., 1970, I, 1904).

Serie perplessità suscita, tuttavia, l'ipotesi di far dipendere il radicamento della competenza arbitrale dal singolo provvedimento in concreto assunto nel corso del processo piuttosto che dalla «materia» oggetto di devoluzione arbitrale.

L'adesione al patto compromissorio può inerire la procedura di sfratto al pari di ogni altro processo cognitivo ordinario

Non si comprende perché, in presenza di clausola compromissoria, debba comunque permanere la competenza del giudice ordinario in ordine al procedimento speciale di cui agli artt. 657 ss. c.p.c.

La rinuncia alla giurisdizione statale, operata con l'adesione al patto compromissorio, se riguarda il processo cognitivo ordinario non può che inerire anche la procedura di sfratto (come già si leggeva in Pret. Roma, 18 luglio 1996).

Invero, la disciplina positiva non soltanto non pone altro limite all'arbitrato se non quello dell'indisponibilità dei diritti che ne formano oggetto, ma chiarisce altresì – col prevedere che «le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte» (art. 806 c.p.c.) – che l'opzione per la risoluzione arbitrale della lite, nella misura in cui implica rinuncia alla «decisione» del giudice togato, preclude qualunque intervento giurisdizionale di tipo dichiarativo, sia esso realizzato nelle forme del libro II del codice di procedura civile ovvero in quelle di uno dei procedimenti speciali di cui al libro IV.

Quante volte la situazione sostanziale lesa abbia natura disponibile, insomma, a nulla rileva che essa sia tutelabile in via giurisdizionale anche mediante procedimenti sommari e speciali: a fronte di una convenzione arbitrale, la richiesta di tutela andrà comunque rivolta agli arbitri, che – conformemente alle caratteristiche del mandato ad essi conferito – potranno unicamente «conoscere e pronunciare per dictum» in forme equivalenti a quelle proprie di un processo di ordinaria cognizione.

Il procedimento di sfratto infatti è un procedimento speciale di cognizione, come affermato da autorevole dottrina (cfr. Proto Pisani A., Il procedimento per convalida di sfratto, in RTDPC, 11988, pagg. 1357).

La sua specialità rispetto ai processi a cognizione piena disciplinati dal libro II del c.p.c. è data sia dalla semplificazione del procedimento che, in caso di mancata comparizione o di mancata opposizione dell'intimato comparso, si conclude (rectius: può concludersi ove non vi osti il diritto sostanziale o l'assenza dei presupposti generali o speciali di ammissibilità) normalmente in prima udienza con ordinanza stessa in calce alla citazione, sia dall'eccezionale rilevanza di ficta confessio attribuita alla contumacia del convenuto.

Il legislatore qualifica come «sommaria» la cognizione del giudice della convalida (e così la giurisprudenza con riferimento alla fase preliminare, che va dalla notificazione dell'intimazione, sino all'ordinanza di conversione del rito: Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1698; Cass. civ., sez. III, 19 giugno 2008, n. 16635).

Tuttavia, l'esame del concetto di sommarietà, come normalmente inteso nel giudizio di cognizione, evidenzia come il procedimento per convalida sia ad esso estraneo e tale procedimento abbia, piuttosto, le caratteristiche di un ordinario giudizio sia pure con tratti di «specialità».

Nel sistema del processo civile, infatti, il concetto di sommarietà viene associato a quello di cognizione superficiale, altre volte alla cognizione c.d. parziale. Nel primo caso - riscontrabile anche nella pronuncia dell'ordinanza provvisoria di rilascio prevista dall'art. 665 c.p.c. - la definizione trae origine dall'essere la procedura fondata su una valutazione del materiale probatorio allo stato degli atti, salvo, di norma, una successiva fase di controllo; la seconda ipotesi di cognizione sommaria si riscontra, generalmente, nel caso di procedimenti a contraddittorio eventuale, come quello per ingiunzione, nel quale il giudice conosce della fondatezza della richiesta solo attraverso la documentazione prodotta dal creditore istante.

Nel procedimento di sfratto sono assenti le caratteristiche sopra evidenziate. La natura giurisdizionale e la forza di giudicato dell'ordinanza di convalida impongono, infatti, al giudice, ancor prima di prendere atto della mancata comparizione ed opposizione dell' intimato, di procedere ex officio, così come nel giudizio ordinario di cognizione, all'esame dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione – giurisdizione, competenza, capacità e legittimazione formale delle parti, interesse ad agire, legittimazione ad causam attiva e passiva – verificando l'esistenza dei presupposti speciali di ammissibilità del procedimento speciale avuto riguardo al contenuto dello specifico rapporto in contestazione (locazione, affitto a coltivatore diretto, colonia, mezzadria, locazione d'opera) e della situazione posta a fondamento della domanda (finita locazione, morosità o cessazione del rapporto di locazione d'opera ).

Inoltre, l'indagine del giudice non si conclude con la verifica dei presupposti processuali, delle condizioni dell'azione e dei presupposti speciali di inammissibilità del procedimento, presupponendo la formulazione di un giudizio di congruità alla luce della legge sostanziale in vigore, tra i fatti posti a fondamento dell'intimazione e gli effetti giuridici invocati.

L'autorità giudiziaria adìta dovrà, infatti, verificare se, alla stregua della disciplina vigente, i fatti prospettati dall'intimato giustifichino le conseguenze giuridiche che l'attore intende trarre (es. controllando che la data indicata dall'intimante corrisponda a quella di scadenza contrattuale; che l'attestazione di persistenza della morosità si riferisca ai canoni indicati nell'atto di citazione; che la domanda sia stata proposta dinanzi ad un tribunale funzionalmente e territorialmente competente avuto riguardo al criterio di cui all'art. 661 c.p.c., che la domanda sia stata proposta dal locatore).

La giurisprudenza attribuisce, inoltre, indubbia natura giurisdizionale al procedimento per convalida e attitudine ad acquistare efficacia di cosa giudicata sostanziale all'ordinanza ex art. 663 c.p.c. equipollente all'efficacia di una sentenza di condanna al rilascio dell'immobile locato o di una sentenza costitutiva di risoluzione della locazione nel caso di morosità (Corte Cost., 25 marzo 1997, n. 2614) da cui l'estensione all'ordinanza di convalida dell'applicazione dei rimedi dell'opposizione di terzo (Corte Cost., 7 giugno 1984, n. 167) e dell'impugnazione per revocazione (Corte Cost., 12 dicembre 1989, n. 558), previste rispettivamente dagli artt. 404 e 395 c.p.c.

Escluso, pertanto, che il tratto di specialità del procedimento di convalida dello sfratto si identifichi con la sommarietà - da intendersi come parzialità o superficialità della cognizione - dovendo, invece, il giudice sollecitare il contraddittorio con l'intimato e procedere anche alla valutazione degli elementi fondanti la domanda giudiziale, gli aspetti caratteristici sono rilevabili nella semplificazione e celerità del giudizio rappresentate dalla struttura semplificata dell'atto di citazione e nel contenimento del termine a difesa dell'intimato, intercorrente tra la notificazione della citazione dell'udienza fissata ai sensi dell'art. 660 c.p.c. La vera peculiarità del procedimento va individuata nel valore attribuito alla mancata opposizione dell'intimato, agli effetti legali tipici ascritti a tale comportamento.

Tanto premesso in ordine alla natura del procedimento, deve escludersi che, in presenza di una clausola compromissoria, possa residuare la competenza del giudice ordinario limitatamente ad una fase «sommaria» della convalida distinta dal merito.

Le pronunce della Suprema Corte che hanno ipotizzato una residuale competenza del giudice ordinario fino al c.d. mutamento del rito (in locatizio) ex artt. 667 e 426 c.p.c. inerivano controversie di un'epoca in cui le due fasi del procedimento per convalida erano nettamente distinte e separate dalla soluzione di continuità prevista dall'art. 667 c.p.c., nel testo in passato vigente. All'epoca era ipotizzabile una distinzione tra la fase sommaria del procedimento per convalida, devoluta alla «competenza funzionale inderogabile» del pretore, e la fase ordinaria, devoluta al giudice individuato attraverso gli abituali criteri di competenza.

Allo stato attuale, però, le cose stanno diversamente (cfr. al riguardo Trib. Roma, sez. VI, 20 dicembre 2019, n. 24481; Trib. Roma, sez. VI, 9 settembre 2019, n. 12910; Trib. Roma, sez.VI, 28 maggio 2018, n. 5706; Trib. Roma, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 20529; Trib. Foggia, 22 aprile 2002 e Cass. civ., 27 maggio 2003, n. 8411).

Deve, infatti, considerarsi che nell'ordinamento previgentealla riforma del 1990, era affermazione ricorrente in giurisprudenza che l'opposizione dell'intimato, ai sensi dell'art. 665 c.p.c., determinasse la conclusione del procedimento di convalida, a carattere sommario, e l'instaurazione di un nuovo e autonomo processo, con rito e cognizione ordinari. L'art. 667 c.p.c., nel regolare i problemi di competenza che sorgevano dal coordinamento fra la procedura speciale - di competenza per materia del pretore - e il giudizio ordinario di cognizione - scaturito dall'opposizione dell'intimato -, prevedeva che, dopo la pronuncia (o il diniego) dei provvedimenti sommari (ordinanza non impugnabile di rilascio ovvero condanna al pagamento dei canoni non controversi), il giudizio proseguiva davanti al pretore, per la decisione di merito, soltanto se la causa era di sua competenza, dovendosi, nel caso contrario, rimettere le parti innanzi al giudice competente per valore. In questo sistema si riteneva che l'opposizione dell'intimato determinasse il nascere di un novum judicium (Cass. civ., 18 giugno 1993, n. 6806; Cass. civ., 13 gennaio 1981, n. 282), da cui anche l'ammissibilità della proposizione di «domande nuove» (Cass. civ., 5 luglio 1984, n. 3930; Cass. civ., 22 ottobre 1979, n. 5541). Diverse conclusioni s'impongono dopo l'attribuzione al pretore, dal 30 aprile 1995, della competenza per materia nelle cause di locazione (e di comodato) di immobili urbani (art. 8 comma 2 n. 3 c.p.c.) e l'introduzione, dalla stessa data, in dette cause, del rito speciale del lavoro (art. 447-bis c.p.c.). In questo nuovo regime processuale, per il combinato disposto degli artt. 667 e 426 c.p.c., una volta pronunciati (o naturalmente denegati) dal pretore (ora Tribunale) i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c., il giudizio «prosegue nelle forme del rito speciale», previa ordinanza di mutamente del rito, con la quale ultima le parti possono procedere all'integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. Ciò significa che l'opposizione dell'intimato non coincide più con l'instaurazione di un nuovo e autonomo giudizio di cognizione, ma produce soltanto un mutamento nella struttura del procedimento, che continua a svolgersi necessariamente davanti al medesimo giudice, non ponendosi più questioni di competenza per valore, in una nuova fase, quella di merito (che si concluderà con la pronuncia di accoglimento o rigetto della domanda di condanna del conduttore al rilascio dell'immobile locato); ovvero, in altri termini, che «prosegue», con cognizione ordinaria ma con rito speciale, quell'unico procedimento, iniziatosi con l'esercizio, da parte del locatore, di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per convalida (cfr., al riguardo, le pronunce già sopra citate: Trib. Roma, sez. VI, 20 dicembre 2019, n. 24481; Trib. Roma, sez. VI, 9 settembre 2019, n. 12910; Trib. Roma, sez. VI, 28 maggio 2018, n. 5706; Trib. Roma, sez. VI, 30 settembre 2010, n. 20529; Trib. Foggia, 22 aprile 2002 e Cass. civ., 27 maggio 2003, n. 8411).

Coerentemente con detta ultima impostazione, a partire, dunque, dall'emissione dell'ordinanza di mutamento del rito, scattano le preclusioni tipiche del processo del lavoro: anzitutto il divieto di proporre nuove domande essendo consentita soltanto la modificazione della domanda - emendatio libelli -, previa, peraltro, autorizzazione del giudice, giustificata da gravi motivi (art. 420 comma 1 c.p.c.).

Pertanto il Tribunale, nella procedura di sfratto, è titolare di una competenza territoriale e per materia perdurante, con gli stessi caratteri, sia nella fase necessaria del procedimento per convalida, sia in quella successiva a cognizione piena, ed il testo vigente dell'art. 667 c.p.c. non prevede più alcuna soluzione di continuità tra prima e seconda fase del procedimento per convalida, che - almeno nell'assoluta prevalenza dei casi - «prosegue» dinanzi al medesimo giudice presso il quale si era originariamente radicato. Insomma, non sembra rinvenirsi alcun dato normativo di ostacolo a ritenere che la stipulazione dell'arbitrato rituale precluda al locatore il ricorso all'azione per convalida.

Pertanto, l'unica soluzione coerente è quella per cui, qualora la controversia relativa alla cessazione o risoluzione del contratto per scadenza del termine o per morosità sia stata oggetto di clausola compromissoria o di compromesso, ciò comporta una rinuncia del locatore a servirsi del procedimento per convalidasalvo espressa deroga ad opera delle parti - con la conseguenza che va riconosciuta la devoluzione della controversia agli arbitri (senza, tuttavia, che essi possano pronunciare i provvedimenti previsti dagli artt. 663 e 665 c.p.c.)

Il che trova conferma nell'osservazione che il codice di rito stabilisce che l'arbitrato non esclude la tutela cautelare (art. 669-quinquies c.p.c.), la quale gode della copertura dell'art. 24 Cost., ma non prevede affatto, né direttamente, né indirettamente, che la devoluzione della controversia ad arbitri debba nondimeno conservare al locatore l'azione per convalida.

Procedimento per convalida e arbitrato irrituale

La Suprema Corte ha costantemente ripetuto che l'arbitrato irrituale opera sul piano della proponibilità della domanda. Nel compromesso per arbitrato irrituale, infatti, è insita la rinuncia delle parti alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto controverso.

Non si rinvengono pronunce sulla proponibilità del procedimento per convalida in presenza della pattuizione di un arbitrato irrituale.

Poiché anche il compromesso per arbitrato libero o irrituale dà luogo ad una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti sorti dal rapporto in contestazione, tale rinuncia alla tutela giurisdizionale non può non riferirsi, secondo la Cassazione, anche al procedimento per decreto ingiuntivo ed alle misure cautelari.

Il legislatore, come si sa, ha modificato l'art. 669-quinquies c.p.c. che, nel testo vigente, stabilisce che, se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri «anche non rituali» o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Questa innovazione conferma che, in assenza di un'apposita pattuizione di segno contrario, l'arbitrato irrituale preclude il ricorso a qualunque iniziativa giudiziaria e rende improponibile ogni iniziativa giudiziale non altrimenti consentita dal legislatore, anche l'azione per convalida.

In conclusione

Diversamente da quella cautelare, la tutela attraverso la procedura di sfratto (al pari delle altre forme di tutela sommaria non cautelare, si pensi al procedimento monitorio) non gode di alcuna copertura costituzionale, essendo preordinata unicamente a consentire una più rapida attuazione di taluni diritti. Se, dunque, ben può ammettersi che il giudice togato sospenda – nelle more della costituzione del collegio – l'efficacia di una delibera societaria impugnata in sede arbitrale, l'intervento cautelare dell' autorità giudiziaria ordinaria, essendo in tal caso motivato dall'esigenza (di rango costituzionale) di evitare alla parte un danno irreparabile, non altrettanto è a dirsi per l'esercizio dell'azione per convalida, dalla legge previsto in funzione di un'esigenza acceleratoria (che si produce con l'ottenimento di un veloce titolo esecutivo in difetto di opposizione dell'intimato) che non soltanto non ha rilievo costituzionale, ma risulta nell'arbitrato in qualche misura ridimensionata, «dacché il controllo dei tempi di durata della procedura saldamente in capo alle parti non giustificherebbe deroghe in nome dell'effettività e della sollecitudine».

Nessuna violazione delle garanzie di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost. può dunque ravvisarsi nella prospettata preclusione dell'accesso al giudizio per convalida di sfratto o licenza.

Riferimenti
  • F. AULETTA, Diritto dell'arbitrato, 2015, pag. 505;
  • C. CECCHELLA, L'arbitrato, Torino, 1991, pag. 6 e ss.;
  • M. DI MARZIO, Il procedimento per convalida di licenza e sfratto, Giuffrè ed. 1998, pag. 128 e ss.;
  • LA CHINA, L'arbitrato. Il sistema e l'esperienza, Giuffrè, p. 37;
  • C. TARASCHI, Il procedimento per convalida di licenza e sfratto, settembre 2019.

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