Le nuove norme della legge fallimentare sulla transazione fiscale

Giulio Andreani
05 Gennaio 2021

Meritano un approfondimento sotto più di un profilo le norme introdotte nella legge fallimentare dalla L. 27 novembre 2020, n.159, con le quali è stata integrata la disciplina della transazione fiscale e contributiva.
La mancanza di voto e di adesione

Uno di tali profili riguarda il significato delle espressioni “anche in mancanza di voto” e “anche in mancanza di adesione” inserite rispettivamente nel comma 4 dell'art. 180 l.f., con riferimento al concordato preventivo, e nel comma 5 dell'art. 182-bis con riferimento all'accordo di ristrutturazione dei debiti. Si tratta nella sostanza di stabilire se la “mancanza” del voto o dell'adesione dell'amministrazione finanziaria e/o degli enti previdenziali e assistenziali - ivi prevista quale presupposto della omologazione della transazione fiscale e contribuiva da parte del Tribunale - ricorre soltanto quando tali soggetti non si pronuncino sulle proposte loro formulate ovvero anche quando si pronunciano rigettando la proposta (sempre che, come le medesime norme richiedono, la loro adesione sia “determinante” ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all'art. 177 l.f. o “decisiva” ai fini del raggiungimento della soglia del 60% prevista dall'art. 182-bis l.f.).

Per ragioni logico-sistematiche tali disposizioni devono trovare applicazione non solo nel caso in cui l'agenzia delle Entrate e/o gli enti previdenziali non si pronuncino sulle proposte loro formulate, ma anche quando le rigettano. Infatti (come si legge nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 14/2019) tali norme intendono “superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi” e non vi è dubbio che tali resistenze possono concretizzarsi sia qualora l'ente creditore dilazioni oltre misura la risposta alla proposta di transazione, sia qualora esso la rigetti espressamente. Questa conclusione trova inoltre conforto nella lettera della nuova norma, atteso che tanto l'espressione “anche in mancanza di adesione” (utilizzata nel novellato comma 5 dell'art. 182-bis della legge fallimentare con riguardo all'accordo di ristrutturazione) quanto l'espressione “anche in mancanza di voto” (utilizzata nel novellato comma 4 dell'art. 180 della legge fallimentare a proposito del concordato preventivo) possono essere letteralmente intese, non solo come assenza di risposta da parte dell'Erario o degli enti previdenziali, ma anche come risposta negativa, e sono comunque tali da non ostacolare la conclusione testé rappresentata in conformità alla ratio desumibile dalla menzionata relazione illustrativa. Del resto la norma fa riferimento alla “mancanza” di voto o di adesione, che anche letteralmente è qualcosa di più della “mancanza di espressione” del voto e dell'adesione. E, se proprio se si volesse trarre dalla lettera di tali norme un'incertezza interpretativa, questa dovrebbe essere superata sulla base della ratio delle stesse, che conduce alla conclusione testé esposta.

Occorre infatti considerare che queste disposizioni sono state introdotte per un duplice scopo: quello di evitare che il Fisco e gli enti previdenziali continuassero a impiegare tempi irragionevoli (talvolta persino due anni) per pronunciarsi sulle proposte di transazione loro formulate e quello di impedire (come talvolta è accaduto) che alcune proposte vengano rigettate, sebbene siano convenienti per l'Erario, semplicemente perché prevedono un soddisfacimento troppo “limitato” dei crediti fiscali e contributivi (peraltro quale sarebbe il criterio da utilizzare per stabilire quando un pagamento è limitato e quando no, se non quello della convenienza che prescinde dal valore assoluto del soddisfacimento offerto?).

Ciò posto, se le norme di cui trattasi dovessero essere interpretate nel senso che per “mancanza” di voto o di adesione si intende solo la mancata espressione del voto o dell'adesione, pur rimanendo tutelata la prima di tali finalità, non lo sarebbe affatto la seconda: non lo sarebbe nell'accordo di ristrutturazione, che vincola solo i creditori che lo sottoscrivono, e non lo sarebbe nella sostanza nel concordato preventivo, perché almeno l'Agenzia delle Entrate il proprio voto in tale ambito è solita esprimerlo. Una simile interpretazione equivarrebbe quindi a ridurre sensibilmente l'utilità delle norme di cui trattasi e risulterebbe ben poco aderente alla ratio della novella legislativa sopra richiamata. È vero che il concordato potrebbe essere comunque approvato dal voto favorevole di altri creditori, ma il fatto che le “resistenze” richiamate nella relazione accompagnatoria del Codice della crisi possano essere superate dal voto maggioritario espresso favorevolmente da altri creditori, nel qual caso non vi è bisogno delle norme in questione perché Fisco ed enti non sono determinanti, non può escluderne l'applicazione proprio quando invece il voto di tali soggetti determinante lo è, vale a dire nel proprio nel caso tali norme in cui dovrebbero trovare applicazione per superare quelle “resistenze”.

Vi è poi da considerare che, a ben vedere, le disposizioni introdotte dalla Legge n. 159/2020 perseguono anche un altro, non meno importante, fine, che è quello di assicurare alle imprese debitrici una reale tutela giurisdizionale contro i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione, emessi dall'amministrazione finanziaria e dagli enti previdenziali e assistenziali in contrasto con i principi affermati dall'art. 182-ter l.f.; tutela che sino all'introduzione di tali norme, pur essendo teoricamente sussistente, è risultata di fatto inattuabile. Infatti, nonostante il contrario avviso dei predetti soggetti (per quanto attiene all'Agenzia delle Entrate si veda la circolare n. 19/E/2015), è da ritenersi che un rimedio giurisdizionale all'illegittimo rigetto della proposta di transazione debba sussistere, posto che l'esame di tali proposte deve essere informato al principio della convenienza sancito dall'art. 182-ter l.f. e, pur richiedendo valutazioni e comparazioni, non lascia spazio alla discrezionalità; dal che discende il diritto del contribuente di impugnare dinanzi al Giudice quei provvedimenti che siano adottati in violazione di tale principio o siano fondati su valutazioni errate. Altrimenti detto, l'approvazione di una proposta di transazione conforme alle previsioni del citato art. 182-ter, che sia conveniente per l'Erario, costituisce per la pubblica amministrazione un obbligo, la cui violazione non può rimanere priva di rimedio. L'interesse dell'impresa debitrice a impugnare il diniego del Fisco e degli enti è evidente nel concordato preventivo ogniqualvolta il voto di tali soggetti sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all'art. 177 l.f., atteso che, se tali maggioranze vengono comunque raggiunte, gli effetti delle proposte di transazione si producono nonostante il rigetto di queste ultime, ma non si generano quando il voto del Fisco e degli enti è determinante ai fini dell'approvazione delle proposte. Nell'ambito dell'accordo di ristrutturazione dei debiti dovrebbe ritenersi, invece, che tale interesse sussista sempre, visto che il cram down in tale contesto non è previsto.

Sino all'entrata in vigore della novella legislativa il rimedio giurisdizionale è consistito, secondo l'indirizzo prevalente (condiviso tra gli altri dal CNDCEC), nell'adire, relativamente alla transazione fiscale il Giudice tributario, in considerazione della natura dell'oggetto del giudizio, che attiene a dei tributi, e, relativamente alla transazione contributiva, il Giudice del lavoro. Tuttavia – come si è osservato – si è trattato solo di un rimedio teorico, perché i tempi della definizione di tali giudizi non sono compatibili né con quelli del concordato né con quelli dell'accordo di cui all'art. 182-bis.

È quindi del tutto naturale che il legislatore si sia fatto carico di introdurre nel Codice della crisi e dell'insolvenza e, con la L. n. 159/2020, nella legge fallimentare delle disposizioni che forniscano una reale tutela giurisdizionale contro provvedimenti della pubblica amministrazione adottati in violazione dell'art. 182-ter l.f., attribuendo al Tribunale fallimentare (come aveva suggerito lo stesso CNDCEC) il potere di giudicare la legittimità dei provvedimenti di rigetto, approvando nella sostanza le proposte di transazione rigettate illegittimamente, ove l'approvazione delle stesse sia “determinante” o “decisiva”. Tali disposizioni sono quelle inserite negli artt. 180 e 182-bis della legge fallimentare dalla L. n.159/2020: svilirebbe pertanto la loro portata e contrasterebbe con il contesto da cui esse hanno tratto origine un'interpretazione che ne delimitasse il campo di applicazione al solo caso della mancata espressione del voto o di una pronuncia sulla proposta.

La data da cui l'adesione si considera mancante

La nuova norma è identica a quella recata dal comma 5 dell'art. 48 del Codice della crisi e dell'insolvenza, ma non dispone alcunché per stabilire da quale data l'adesione può essere considerata “mancante”, a differenza di quanto prevede il comma 2 dell'art. 63 di tale codice, ai sensi del quale “ai fini del comma 5 dell'art. 48 l'eventuale adesione deve intervenire entro sessanta giorni dal deposito della proposta di transazione” (elevati a novanta dal Decreto correttivo). Si tratta di una lacuna di non poco conto, perché manca l'indicazione del giorno a decorrere dal quale, nel caso in cui le Entrate e gli enti non si pronuncino, l'impresa debitrice può chiedere l'omologazione dell'accordo nonostante il silenzio di tali creditori (il medesimo problema non si pone se la proposta è rigettata, perché in questo caso è chiaro quando la mancata adesione si manifesta). È opportuno che tale lacuna venga colmata, ma, in attesa che ciò accada, sarebbe errato ritenere inapplicabile la disposizione di cui trattasi a causa della omessa indicazione del dies a quo in parola, essendo chiara l'intenzione del legislatore di consentire la omologazione dell'accordo anche in difetto dell'adesione. Il dies a quo dovrà quindi essere individuato in via interpretativa e quello di novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, stabilito dal Codice della crisi d'impresa, può costituire un utile riferimento.

Analoga esigenza non sussiste invece relativamente al concordato preventivo, perché in questo caso il termine dal quale l'adesione alla proposta di transazione si deve intendere “mancante” è necessariamente costituito dal ventesimo giorno successivo alla chiusura del processo verbale dell'adunanza dei creditori, la cui data è stabilita dal Tribunale con il decreto di ammissione alla procedura.

La natura determinante o decisiva dell'adesione

Un altro profilo da approfondire è quello relativo alla individuazione dei casi in cui l'adesione alla proposta di transazione è da considerare “decisiva” e il voto è da ritenere “determinante”.

L'adesione, con riguardo all'accordo di ristrutturazione dei debiti, dovrebbe essere decisiva quando di per sé o congiuntamente a quella di altri creditori è tale da consentire il raggiungimento della soglia del 60% dei crediti complessivi. Lo è quindi l'adesione del Fisco (o quella dell'Inps), se l'ammontare dei suoi crediti rappresenta, ad esempio, il 41% di quelli complessivi e altri creditori, titolari del 22% dei crediti, aderiscono anch'essi all'accordo. Che cosa accade però nel caso in cui ognuna delle due adesioni (del Fisco e dell'Inps) risulti decisiva congiuntamente all'altra, ma potrebbe percentualmente non esserlo se si considerassero anche le adesioni di altri creditori (ad esempio, se i crediti tributari rappresentano il 41% dei crediti, quelli delle banche aderenti il 21% e i crediti previdenziali il 20%)? Le adesioni di altri creditori non dovrebbero far venire meno il ruolo decisivo che, senza di esse, avrebbero quelle dell'Agenzia delle Entrate o dell'Inps: in tal caso entrambe le adesioni sarebbero pertanto da ritenere decisive. Nella sostanza Fisco ed enti dovrebbero essere considerati, ai fini di cui trattasi, come un unico soggetto. Le loro adesioni dovrebbero quindi risultare “non decisive” soltanto quando altri creditori aderenti rappresentano da soli il 60% dei crediti.

Si assuma, ad esempio, che i creditori dell'impresa in crisi appartengano a cinque categorie diverse, l'Agenzia delle Entrate, l'Inps, le banche, i fornitori e la categoria residuale degli altri creditori, e che i creditori che costituiscono ognuna di esse siano titolari di crediti pari al 20% dell'importo complessivo dei debiti dell'impresa che propone l'accordo di ristrutturazione. Sulla base del criterio sopra esposto il Fisco e l'Inps risulterebbero certamente decisivi se, tra gli altri creditori, solo le banche aderissero all'accordo di ristrutturazione loro proposto, perché soltanto considerando anche Fisco e Inps la soglia del 60% verrebbe in tal caso raggiunta; essi risulterebbero decisivi anche nel caso in cui sia le banche sia i fornitori aderiscano all'accordo, perché è vero che sarebbe sufficiente l'adesione di uno solo di tali soggetti per raggiungere la soglia predetta, ma che criterio potrebbe essere adottato per stabilire quale delle due adesioni è da considerare superflua e dunque non “decisiva”? Da qui l'esigenza di considerare ai fini de quibus Fisco e Inps unitariamente, appunto come se si trattasse di un unico soggetto. Non che un criterio di esclusione non possa essere individuato, ad esempio in ragione della data in cui le proposte vengono approvate ovvero dell'ammontare delle stesse, ma in assenza di una norma che lo preveda sarebbe arbitrario introdurlo in via interpretativa. Nel caso in cui, infine, tutti i creditori aderissero all'accordo di ristrutturazione, né l'adesione dell'Agenzia delle Entrate né quella dell'Inps risulterebbe “decisiva”. Anche con riguardo a questa ipotesi si potrebbe obiettare che non esiste un criterio di esclusione della rilevanza di un'adesione a beneficio dell'altra, con la conseguenza che tutte dovrebbero essere considerate “decisive”; tuttavia in tal modo si finirebbe per qualificare come “decisiva” qualsiasi adesione e conseguentemente per attribuire al Tribunale il potere di omologare l'accordo “in supplenza” senza limitazioni, il che contrasta con il disposto del novellato comma 5 dell'art. 182-bis l.f., che invece, attraverso la previsione del requisito della decisività, limita i presupposti di intervento del Tribunale con funzione di “supplenza”.

Il fatto è che la limitazione del campo di applicazione delle disposizioni di cui trattasi ai casi in cui l'adesione è “determinante” (o “decisiva”) è giustificata nel concordato preventivo, ma non lo è nell'ambito dell'accordo di ristrutturazione dei debiti. Nel concordato, infatti, se le adesioni del Fisco e degli enti non sono determinanti, l'eventuale approvazione “in supplenza” da parte del Tribunale è priva di rilievo: ciò perché, come si è già rilevato, se le maggioranze sono state raggiunte anche senza tali adesioni, gli effetti delle proposte si producono nonostante la mancata approvazione da parte di tali soggetti, ai sensi dell'art. 184 l.f.; se invece le maggioranze non sono state raggiunte, non essendo le adesioni di cui trattasi “determinanti” tali maggioranze non verrebbero raggiunte nemmeno con l'approvazione “in supplenza” delle transazioni. Con riferimento all'accordo di cui all'art. 182-bis, invece, posto che i suoi effetti si producono solo nei confronti dei creditori che vi aderiscono, sarebbe logico che le proposte di transazione, ove siano convenienti per l'Erario, potessero essere approvate “in supplenza” anche qualora non siano “decisive”. Se rappresentano la miglior soluzione per l'Erario, infatti, la loro approvazione gioverebbe allo Stato ancor prima che all'impresa debitrice. Tuttavia la disposizione introdotta nel comma 5 dell'art. 182-bis, richiedendo anche il presupposto della decisività dell'adesione, impedisce questa conclusione, e al tempo stesso il superamento delle antinomie sopra indicate.

Un caso ancora diverso è peraltro quello rappresentato da un accordo di ristrutturazione cui aderiscano creditori diversi da Fisco ed enti che rappresentino da soli già almeno il 60% dei crediti complessivi, i quali condizionino la loro adesione a quella dell'Agenzia delle Entrate e degli enti previdenziali e assistenziali, in quanto ritenuta necessaria ai fini del risanamento finanziario e patrimoniale dell'impresa debitrice; in questa ipotesi l'adesione del Fisco e degli enti dovrebbe essere considerata decisiva, nonostante i relativi crediti siano inferiori al 40% dei crediti complessivi, in quanto comunque indispensabile ai fini dell'adesione degli altri creditori.

L'irrilevanza del preambolo sulla crisi economica originata dalla pandemia

La L. n. 159/2020, nell'apportare le modifiche di cui trattasi agli articoli 180 e 182-bis della legge fallimentare, premette che esse sono introdotte “in considerazione della situazione di crisi economica per le imprese determinata dall'emergenza epidemiologica da Covid-19”. Qualche primo commentatore, tradendo un'evidentemente ammirazione per il Gattopardo, ha insinuato che conseguentemente tali modifiche si renderebbero applicabili solo con riguardo alle crisi originate dalla pandemia e cesserebbero di esserlo non appena gli effetti economici generati dalla pandemia verranno meno (come se ciò dovesse avvenire in un preciso istante scandito dal Big Ben). A poco rileva il motivo che ha originato l'introduzione delle modifiche in parola, le quali troveranno applicazione semplicemente dalla data stabilita dalla stessa L. n. 159/2020 fino a quando non saranno abrogate e con riguardo a debiti fiscali e contributivi sorti in qualsiasi momento e per qualsiasi causa, atteso che le norme della legge fallimentare oggetto di integrazione non dispongono diversamente e non consentono alcuna distinzione circa le cause della crisi dell'impresa che formula le proposte di transazione e il momento di insorgenza dei debiti oggetto di tali proposte. Tra l'altro l'operato del legislatore è molto chiaro e la sorte delle disposizioni di cui trattasi è segnata con altrettanta chiarezza: (i) l'1 settembre 2021 entrerà in vigore il Codice della crisi e dell'insolvenza, che, dopo le modifiche a esso apportate dal D. Lgs. 26 ottobre 2020, n.147 (cosiddetto Decreto correttivo), già contiene tutte le norme introdotte dalla L. n. 159/2020; (ii) a causa della crisi economica provocata dall'emergenza epidemiologica è stato ritenuto utile anticiparne l'entrata in vigore, rendendole applicabili senza soluzione di continuità sino a quando non entrerà il Codice stesso, le cui disposizioni rimarranno vigenti sino a quando non saranno abrogate da altre norme di legge (per di più il periodo intercorrente tra l'entrata in vigore delle modifiche di cui trattasi e l'1 settembre 2021 è così breve da potersi escludere che la situazione di crisi causa dalla pandemia cesserà prima di quest'ultima data).

Entrata in vigore delle nuove norme

La Legge n. 159/2020 è entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, cioè il 4 dicembre, e non prevede disposizioni transitorie. Le norme di cui trattasi, che hanno natura processuale, sono pertanto da ritenere applicabili anche alle proposte di transazione presentate anteriormente a tale data, purché, con riguardo ai concordati, non siano ancora state concluse le operazioni di voto e, con riguardo agli accordi di ristrutturazione, non sia ancora stata presentata la domanda di omologazione del “fascio” di accordi di cui la transazione fa parte. Indipendentemente da ciò, finché non è spirato il termine di cui all'art. 177 l.f., l'impresa debitrice può anche modificare la proposta di concordato preventivo precedentemente formulata ovvero rinunciare alla procedura e avviarne una nuova sulla base di una diversa proposta, così come può rinunciare alla domanda di omologazione dell'accordo di ristrutturazione già formulata e proporne una modificata. Simili condotte non sarebbero da considerare abusive, in quanto finalizzate alla fruizione di una disposizione di legge introdotta per evitare “ingiustificate resistenze” da parte del Fisco e degli enti previdenziali, che in tal modo verrebbero appunto superate in conformità con (e non violando) la ratio della novella legislativa.

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