La tratta delle donne per la prostituzione è una forma di persecuzione ai fini della richiesta dello status di rifugiato?

Redazione scientifica
07 Gennaio 2021

La Corte di legittimità cassa la sentenza della Corte di appello di Bologna per il mancato riconoscimento della protezione internazionale, affermando che la richiedente «vittima di tratta» rientra nella nozione di «rifugiata»...

La Corte di cassazione ha affrontato la questione con l'ordinanza n. 10, depositata il 4 gennaio 2021.

La Corte di appello di Bologna, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, rigettava la domanda di protezione internazionale proposta da una cittadina nigeriana giunta in Italia per sfuggire alla soggezione alla tratta delle donne per la prostituzione.
Se il Tribunale aveva riconosciuto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata, la Corte d'appello «escludeva, in assenza di documenti d'identità, la sicura provenienza della richiedente dalla Nigeria e la sua credibilità, per l'intrinseca contradditorietà della vicenda narrata (non apparendo in particolare verosimile la sua agevole sottrazione ai trafficanti in Libia e l'approdo in Italia senza pagare nulla), non essendo stata chiarita l'effettiva costrizione all'esercizio della prostituzione ovvero una sua scelta in tal senso per ragioni di sopravvivenza economica». Nè, infine, veniva ritenuto idoneo «il richiamo alla situazione generale del Paese d'origine, in carenza di prova di una persecuzione diretta, grave e personale della donna». La sentenza viene impugnata dinanzi alla Corte di legittimità, che accoglie il ricorso.

L'ordinanza ricorda che lo status di rifugiato può essere riconosciuto al cittadino straniero «per il timore fondato di essere perseguitato, con atti di persecuzione sufficientemente gravi, anche di violenza fisica o psichica e compresa la violenza sessuale», in caso di rientro nel proprio Paese di origine. Quanto all'ipotesi della violenza contro le donne, la Corte ne riconosce la «natura strutturale, in quanto basata sul genere». Viene dunque richiamata la Convenzione di Istanbul dell'11 maggio 2011 con la quale le parti aderenti, tra cui l'Italia, si sono impegnate ad adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza sulle donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell'art. 1, sez. A, n. 2 della Convenzione relativa allo status di rifugiato del 28 luglio 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo ad una protezione complementare o sussidiaria.

Nel caso di specie, i giudici di merito hanno erroneamente condotto la valutazione di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente, per la quale, come ricorda la S.C., il giudice deve attenersi ai criteri indicati nell'art. 3 comma 5 d.lgs. n. 251/2007 tenendo conto della situazione individuale e delle circostanze personali dell'istante. Le violenze subite dalla richiedente, quali manifestazioni della più violenta forma di aggressione della libertà e dignità della donna con la «vendita» della stessa, meritavano dunque un maggiore approfondimento esigendo l'assunzione di specifiche informazioni sulla situazione delle donne nigeriane, anche in virtù del fatto che spesso le vittime della tratta non denunciano le violenze subite per il timore di ritorsioni.
Per questi motivi, la Cassazione accoglie il ricorso e rinvia alla Corte d'appello di Bologna in diversa composizione.

*fonte:www.dirittoegiustizia.it

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