Responsabilità sanitaria emergenziale: spunti di riflessione per una (ri)lettura aggiornata

Maurizio Hazan
11 Gennaio 2021

Il virus ha bussato ancora alla porta, costringendoci, beffardo e prepotente, ad indagare più a fondo l'enigma della sua sequenza (genica e numerica, date le percentuali di contagio), e a fare i conti non solo con i bollettini e con le curve dei grafici quotidiani, ma anche, e prima ancora, con i nostri limiti. E con la nostra difficoltà ad accettarli, tanto più là dove si manifestano con una violenza tale da frantumare le chimeriche pretese di invulnerabilità che sembrano abitare l'uomo del terzo millennio.
Mutualità e responsabilità di fronte al Covid: quali risposte di fronte alla “seconda ondata”?

Dopo il “liberi tutti” di maggio la tensione si era, un poco alla volta, sciolta, ed il nostro desiderio -divenuto per i più urgente necessità - di riprendere il contatto con il mondo ci aveva spinto, lentamente, a riconquistare gli spazi, ad abbandonare la rete, fatta di angoli, perimetri e muri, delle nostre case per riguadagnare le latitudini di una perduta centralità. L'euforia dell'estate ha forse un poco assecondato la nostra intima, silenziosa e segreta illusione che tutto fosse, ormai, passato e che il Covid 19 si fosse arenato sulle spiagge della nostra memoria, lasciando, certo, pesanti detriti, ma schiudendo, al contempo, inesplorate possibilità di rinascita. I confini entro i quali si muoveva la percezione di quella apparente serenità sono stati, tuttavia, travolti da una seconda ondata che ha riaperto il sipario su scene che nessuno si augurava di rivedere.

Il virus ha bussato ancora alla porta, costringendoci, beffardo e prepotente, ad indagare più a fondo l'enigma della sua sequenza (genica e numerica, date le percentuali di contagio), e a fare i conti non solo con i bollettini e con le curve dei grafici quotidiani, ma anche, e prima ancora, con i nostri limiti. E con la nostra difficoltà ad accettarli, tanto più là dove si manifestano con una violenza tale da frantumare le chimeriche pretese di invulnerabilità che sembrano abitare l'uomo del terzo millennio.

Suggestioni morali ed etiche ci inducono dunque a riflettere sulla necessità di considerare l'attuale emergenza e la perdurante difficoltà di fronteggiarne le conseguenze come un segno dei tempi e dell'esigenza di ammettere alcune nostre ineluttabili fragilità. Fragilità troppe volte dimenticate, specie quando si corre dietro ad un'idea di benessere che sovente mistifica il senso della cura medica, equiparandola ad aspettativa certa di guarigione. Il Covid, pur nella sua drammaticità, ha saputo dunque mettere a fuoco il senso autentico dell'impegno richiesto al sistema sanitario, che è quello non di guarire, sempre e comunque, ma di strutturarsi per poter prendere in carico, nei limiti del possibile, anche le più sfidanti difficoltà, trasformando i nuovi rischi clinici in esperienze e competenze.

La domanda sorge dunque spontanea: al cospetto di questa seconda “ondata” tutti gli stakeholders del sistema sanitario hanno fatto quanto era in loro potere per – se non impedire – arginare la recrudescenza del fenomeno ed il suo impatto sui complessivi assetti socio economici del sistema paese? È facile pensare che i cittadini – pazienti – utenti nutrissero – e nutrano, oggi - aspettative di un certo livello; che si attendano cioè che, nel volgere dei mesi che hanno caratterizzato questa “bolla di sospensione”, chi di dovere (lo Stato, gli organi di vertice, le strutture preposte) abbia assunto le decisioni necessarie e portato a termine il programma di azioni indispensabile per reggere gli urti successivi, peraltro ampiamente prevedibili.

Spostando l'angolo visuale, tali domande vanno di pari passo con altri interrogativi, anch'essi di fondo e da calare nella straordinarietà di un fenomeno pandemico che ha superato i nostri confini territoriali, ponendo in evidenza criticità che non appartengono soltanto al nostro “sistema paese”.

Vi è infatti da chiedersi se negli attuali scenari mondiali di crisi abbia davvero senso cercare a tout prix risposte riparatorie, in qualche modo egoistiche e individuali, all'interno del sistema della responsabilità civile. O se non sia preferibile provare a ritrovare in primo luogo una più autentica coesione sociale, del tipo di quella che pareva intravedersi all'inizio della pandemia, quando il motto “ce la faremo”, forse un po' retoricamente sbandierato ovunque, sottendeva la forza di un'unione solidale tale da far sì che prevalesse la logica e la morale dello “stare con” su quella dell'“essere contro”.

Al di là delle dichiarazioni di principio, tuttavia, non vi è dubbio che il costante ridimensionamento dello Stato sociale rischia di trasformare il concetto di salute da fattore di equità e (promessa) di universalismo a sintomo di una certa insostenibilità strutturale che oggi, proprio nell'”emergenza” è riemersa, rivelando limiti che, durante questa seconda ondata, rischiano di alimentare, più che in passato, malcontenti diffusi e conflitti sociali. Conflitti che possono incontrare terreno fertile vuoi nella gravissima recessione economica indotta dalla pandemia, vuoi nella stanchezza psicologica indotta in una larga fetta della nostra popolazione da un così drastico mutamento negli stili di vita (senza convincenti prospettive di superamento a breve della crisi).

E dunque, se nella prima fase della pandemia, per vari motivi, non si è assistito alla temuta inflazione di inopportuni contenziosi, la situazione sembra oggi decisamente più agitata, lasciando prefigurare possibili futuri profluvi di azioni promosse a tutela dei diritti a vario titolo impattati dal Covid, alla salute in primis.

Sotto il profilo delle potenziali situazioni di danno astrattamente azionabili non vi sono, ovviamente, le sole ipotesi di contagio “nosocomiale”, ma tutti i casi in cui la presa in carico del paziente Covid abbia avuto un esito infausto o comunque critico per effetto di una (asserita) intempestività o inappropriatezza dell'intervento sanitario. O, ancor di più, per effetto della selezione dei pazienti ai quali riservare determinati percorsi di cura, a fronte di risorse limitate, specie al tempo in cui i dispositivi medici erano insufficienti e le terapie intensive risultavano incapienti (è questo il tema del cd. Last bed dilemma). Per non dire dei casi in cui, per difetto di assistenza di prossimità, pazienti Covid non abbiano potuto fruire di cure e siano deceduti tra le mura domestiche. Una ulteriore e vasta casistica riguarda infine le omissioni di cura “COVID correlate”, ravvisabili in tutte quelle ipotesi in cui percorsi di intervento già previsti siano stati modificati, allungati o rimandati per effetto della impossibilità di erogazione delle prestazioni, a seguito del ripensamento emergenziale degli assetti strutturali ed organizzativi degli enti di cura.

Ciò detto, mettendo da parte per ora le pur rilevantissime questioni etiche e, diremmo giusnaturalistiche, circa i limiti connaturati al sistema della responsabilità civile negli attuali contesti pandemici, è opportuno misurarsi in termini più pragmatici con quella che potrebbe essere la scena in cui si andranno a calare i possibili contenziosi di nuovo corso.

Sulle pagine di questa Rivista avevamo espresso (M. Hazan D. Zorzit, 10.03.2020, “Corona Virus e Responsabilità (medica e sociale)”; id. 19.05.2020 “Covid 19 e sicurezza delle cure: scenari prospettici per una responsabilità in cerca d'autore”), durante il primo lock- down, le nostre impressioni, che già allora trovavano un filo conduttore nella necessità di scongiurare l'accendersi di conflitti e contrapposizioni, e di evitare l'esplosione di (costosissimi) ed (incerti) contenziosi. Prendendo le mosse dalla ricognizione del quadro normativo, le cui coordinate parrebbero ben inserirsi entro le maglie dell'art. 2236 c.c. e di quella straordinaria emergenza che rende difficili anche le cose facili, avevamo enfatizzato il ruolo che il principio di solidarietà dovrebbe assumere nel governo di situazioni tanto estreme, fino a far divenire eccezione – e non la regola – l'individuazione di precise responsabilità risarcitorie, vincolate da un rigoroso (quanto complesso) accertamento, caso per caso, di una colpa e, soprattutto, di un nesso.

Ma di fronte alla “seconda ondata” sono ancora utilizzabili i paradigmi che fanno leva sulla assoluta straordinarietà del fenomeno? Il dubbio ha la sua ragion d'essere dato che ci troviamo, oggi, in una situazione che sembra aver perso i caratteri di dirompente novità (rispetto a quella manifestatasi primo tempore), tanto da apparire come una (prevedibile) riedizione di ciò che è già stato.

Non è facile rispondere, e queste brevi righe mirano solo a riproporre, in chiave aggiornata, il problema, nel tentativo di trovare qualche riferimento od appiglio per una soluzione che solo i tempi futuri e gli sviluppi che ne verranno saranno in grado di offrire.

Ci muoveremo, per quanto possibile, con ordine, separando i profili di responsabilità a vario titolo implicati.

La responsabilità degli operatori sanitari per la propria condotta

a) Le regole di condotta

Se, in accordo con la giurisprudenza più recente (S. Martino 2019), muoviamo dal presupposto che il contenuto della obbligazione sanitaria è “operare secondo le leges artis”, e dunque che la responsabilità non dipende tout court dal mancato conseguimento del risultato, ma presuppone la colpa, ossia la mancanza di diligenza, prudenza, perizia, la prima domanda che si pone all'interprete è questa: cosa sappiamo oggi del Covid? Esistono indicazioni/prescrizioni sufficientemente consolidate che devono essere osservate nella cura o comunque nell'approccio alla patologia? E se alcune “prassi” si sono formate, assurgono esse al livello di “regole di condotta”? O sono ancora troppe le incertezze (scientifiche) per poter dire che, secondo un “corretto agire in medicina”, un dato comportamento (es. somministrazione di un certo farmaco) è da reputarsi “doveroso” e la sua omissione rimproverabile?

È chiaro che se mancano i parametri di riferimento (le leges artis) o le “linee guida o buone pratiche” a cui fa riferimento l'art. 5 della l. 24/2017, ogni giudizio di “valore” diventa per ciò solo di estrema complessità.

Probabilmente, di fronte ad una malattia che ancora nasconde molto di sé ( e salva, s'intende, ogni valutazione riservata alla competenza degli specialisti e dei medici legali) , non sembra siano maturi i tempi per poter sostenere che, d'ora in avanti, non potrà più invocarsi l'art. 2236 c.c., essendo anzi ancora attuale – crediamo - la peculiarità che ne giustifica l'applicazione, ossia la consapevolezza che il caso resta «eccezionale e straordinario per non essere stato ancora adeguatamente studiato nella scienza o sperimentato nella pratica, ovvero per essere stato oggetto di proposte e dibattiti nella scienza medica con sperimentazione di sistemi diagnostici e terapeutici diversi ed incompatibili, fra i quali operare la scelta» (ex plurimis, Cass. civ. n. 1132/1976; Cass. civ., n. 6141/1978; Cass. civ., n. 8845/1995; Cass. civ., n. 8875/1998; Cass. civ., n. 2042/2005).

Resta però da capire come muoversi laddove il mondo scientifico abbia medio tempore convenuto sul fatto che una data terapia o misura inizialmente adottata per contrastare il virus sia, oggi, da evitare perché più dannosa che benefica. In merito, pare utile rilevare che nel Documento dell'11 agosto 2020 “Elementi di preparazione e risposta a COVID-19 nella stagione autunno-invernale” il Ministero della Salute ha raccomandato alle Regioni l'adozione di una serie di misure (ad integrazione di quanto già previsto dall'art. 2 del cd. Decreto Rilancio e dalla Circolare n. 11254 del 29.05.2020 emanata in attuazione dello stesso), tra le quali spicca la verifica del «l'aggiornamento/revisione dei percorsi clinico assistenziali e dei protocolli terapeutici previsti nei diversi contesti assistenziali per i diversi quadri clinici associati ad infezione da virus SARS-CoV-2».

Ci si potrebbe chiedere se non sia forse ipotizzabile una “colpa grave” (per gli effetti dell'art. 2236 c.c.) a carico del sanitario che abbia seguito un “protocollo terapeutico” non più aggiornato. D'altro canto, bisognerebbe capire se ci troviamo di fronte ad un quid che possiede il rango della “linea guida” o, più verosimilmente, della “buona pratica” ai sensi dell'art. 5 l. n. 24/2017. Se fosse così (del che comunque si dubita, almeno allo stato), resterebbe pur sempre ferma la necessità che il Giudice vagli il singolo caso, tenendo conto delle “specificità” concrete; ma ogni automatismo (del tipo: inosservanza di quella indicazione = imperizia / negligenza/imprudenza) dovrebbe essere escluso, a fortiori, ove addirittura detta “caratura” difetti, perché non sono ancora compiuti i processi di consensus e “mature” le evidenze che dovrebbero supportare quel “percorso assistenziale”, non potendosi qui escludere in assoluto (in assenza appunto di parametri certi ed indiscussi), che quella opzione risulti giustificata o comunque non irrazionale.

b) Sanitari “applicati” ad ambiti che esulano dalla propria specifica competenza

Le dimensioni e la velocità dell'epidemia stanno peraltro portando alla luce un altro problema, che già si era presentato nel corso della “prima fase”: quello della carenza di specialisti (es. rianimatori, pneumologi ecc.). Di fronte al numero impressionante dei ricoveri, gli ospedali sono costretti a “convertire” non solo i reparti, ma anche, si passi il termine, il personale: i medici di altre branche (es. traumatologi, ginecologi, ortopedici ecc.) vengono “applicati” a settori ed incombenze “Covid”, al fine di garantire comunque la funzionalità dei presidi dedicati ed accogliere la mole dei pazienti che chiedono assistenza. Qui si apre un fronte molto delicato, nel quale si annidano, ed anzi stanno già germogliando, i semi di una rinnovata contrapposizione, che si dovrebbe però scongiurare: gli esercenti la professione sanitaria sono preoccupati, stanchi, delusi e risentiti perché percepiscono questa nuova ondata come -prevedibile - effetto rebound di quello che taluno ha definito un atteggiamento sostanzialmente inerte e attendista delle “autorità precostituite”, di chi avrebbe dovuto attivarsi per tempo per scongiurare il ripetersi di scenari già visti. E sono angustiati; non solo per via della fatica fisica e psicologica, ma anche perché temono di essere, un domani, coinvolti e trascinati in lunghissimi procedimenti giudiziari, costretti a difendersi da addebiti che, in ogni caso, sentono di non meritare.

In questo clima si stanno allora rafforzando quelle tensioni che spingono i medici ad alzare un barrage contro le strutture, e così per esempio a manifestare qualche resistenza di fronte alle decisioni “imposte dall'alto”, come ad es. gli ordini di servizio con cui appunto si chiede di prestare l'attività di cura in ambiti diversi da quelli della propria specializzazione. E tale “malumore” trova la sua ragione nella paura di dover rendere conto, davanti ad un Tribunale, delle proprie azioni, che potrebbero non essere “adeguate” in contesti appunto “extravagantes” rispetto a quelli entro cui si esplica normalmente la loro competenza.

La questione non è certo risolvibile in poche battute, anche perché si colloca a metà strada tra il diritto e la deontologia. Alla domanda se a tali professionisti possano essere mossi addebiti in caso di errore si dovrebbe poter rispondere con l'art. 2236 c.c. e con una valutazione della colpa (grave) che tenga appunto conto della differente area a cui essi sono applicati; ma prima ancora, ci si potrebbe chiedere se ed entro quali limiti questi medici possano “rifiutarsi” di assecondare le scelte aziendali di “riconversione”, specie a fronte di quell'obbligo previsto dall'art. 1 l. n. 24 di «concorrere alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie» che potrebbe anche essere declinato, in un afflato solidale, sino a ricomprendere quanto è necessario per cercare di gestire una situazione di assoluta emergenza; ciò al fine di tutelare la salute dei cittadini e, quindi , di offrire la sicurezza - ma forse, prima ancora, la garanzia - delle cure, che è il presupposto principe dalla norma, anziché chiudere i battenti e lasciare che chi chiede aiuto sia lasciato a se stesso. Ancora una volta il principio di fondo dovrebbe essere improntato a solidarietà e non a divisione, quanto mai inopportuna sul fronte comune delle attività sanitarie, siano esse individuali o strutturali.

D'altro canto, però, non può trascurarsi l'esigenza di salvaguardare quello che potremmo definire il requisito di base, cioè la necessità di un “minimo di compatibilità” tra le “abilità” del medico destinato ad altro settore con quelle oggettivamente richieste dal tipo di prestazione che è chiamato ad assolvere: non potrebbe, crediamo, discutersi il rifiuto opposto dal dermatologo di eseguire un intervento chirurgico ai polmoni.

Rimangono poi sullo sfondo le potenziali difficoltà che si potranno registrare sul piano assicurativo, là dove una copertura assunta per un determinato rischio sia invocata a garanzia di responsabilità derivanti da attività sanitarie diverse da quelle dichiarate all'atto della stipula della polizza.

c) L'art. 21 del DL 76/2020: gravi disarmonie di sistema

Discorrendo della responsabilità dei sanitari occorre dare atto di una recente modifica normativa a cui non pare sia stata data l'evidenza che meritava (almeno sui siti specializzati): ci riferiamo all'art. 21 del DL 76/2020 (convertito dall'art. 1, comma 1, l. 11 settembre 2020, n. 120), rubricato “Responsabilità erariale”, che recita:

«1. All'articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo è inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso”.

2. Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

La disposizione incide sulla disciplina sostanziale della cd. responsabilità erariale scolpita nella L. n. 20 /1994 ed ha una portata generale, riferendosi a tutti i soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica. Essa dunque coinvolge certamente anche gli esercenti la professione sanitaria che si trovino in “rapporto di servizio” con la P.A. e, seppur destinata ad avere una durata limitata, interseca, all'attualità, il disposto dell'art. 9 della L. 24/2017 (legge Gelli–Bianco) (si veda in particolare il comma 5, che regola la rivalsa delle strutture sanitarie pubbliche, richiamando espressamente la L. 20 /1994 oggetto appunto di reformatio).

L'intervento è dettato dalla necessità di fronteggiare la situazione di emergenza sanitaria (nella Premessa del D.L. n. 76/2020 si legge: «Ritenuta altresì la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell'amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all'emergenza epidemiologica da Covid-19»); e la ratio che parrebbe sostenere l'art. 21 in esame è quella di “colpire” i comportamenti dilatori / attendisti, di scongiurare l'immobilismo che, verosimilmente, potrebbe rappresentare una comoda tentazione ed un rassicurante ripiego in frangenti tanto delicati come quelli attuali.

Stando alla norma, dunque, il medico che abbia tenuto una condotta attiva, con ciò cagionando un danno per il quale la P.A. abbia ad erogare un risarcimento al paziente, nei rapporti interni non risponderà per colpa grave (come sarebbe la regola), ma solo per dolo. La disposizione pone, peraltro, non pochi problemi ed interrogativi, a cui qui si può solo accennare.

-A parte il fatto che non si sa bene che differenza ci sia tra condotta omissiva ed “inerte”, non è affatto semplice stabilire quando un comportamento possa dirsi propriamente attivo, e beneficiare pertanto della limitazione introdotta. Si pensi al medico che si adopera in tutti i modi per soccorrere e curare il malato e, tuttavia, non formula la diagnosi corretta, cagionando così la morte dell'assistito. La ratio dell'art. 21 in esame sembrerebbe quella, come si è detto, di agevolare chi “si prende il rischio” (contrariamente a chi lo rifugge), sollevandolo appunto da responsabilità (salvo il dolo); ma quid iuris nell'esempio ora fatto ove ben si può dire che siamo di fronte ad una omissione che ha provocato l'exitus?

-La norma incide poi sul cd. “doppio binario”: se è vero (vd. Cass. civ., n. 21992/2020 e, ora, l'art. 9 L. 24/2017, con il testuale rinvio all'art. 1916 c.c.) che il medico pubblico può essere convenuto in rivalsa o davanti all'AGO o innanzi alla Corte dei Conti, pare del tutto irragionevole che la limitazione di responsabilità valga (per come testualmente disposto dall'art. 21) solo in sede contabile; e tale asimmetria pare ancor più stridente se si considera che questo differente trattamento dipenderebbe da una scelta discrezionale dell'Ente di appartenenza, che appunto potrebbe esso stesso decidere di promuovere l'azione ex art. 9 L. 24/2017 innanzi al Giudice civile (anziché attendere che sia il PM contabile ad assumere l'iniziativa).

-Resta poi da chiedersi perché questo regime di favor – suggerito appunto dalla “temperie Covid” debba essere riservato ai soli medici dipendenti pubblici, con esclusione di quelli delle strutture private (che resterebbero soggetti all'azione per colpa grave ex art. 9 comma L. 24/2017). Forse che per gli uni l'emergenza è diversa rispetto agli altri?

Sia chiaro, l'art. 21 in commento non costituisce esso stesso uno “scudo” (come impropriamente definiti quelli che si sarebbero voluti introdurre in sede di conversione del cd. Decreto Cura Italia attraverso gli emendamenti poi ritirati) perché il professionista resta comunque esposto all'azione del terzo secondo le regole generali. È evidente però che le incongruenze sopra tratteggiate rivelano una grave incoerenza di fondo ed una disarmonia di sistema assai poco comprensibile e giustificabile, di fronte alle quali torna forse attuale l'esigenza di un intervento – questa volta più razionale – volto ad introdurre regole uniformi per (ri)definire la responsabilità – di tutti gli esercenti - in tempo di Covid.

d) La posizione dei medici di base

Un altro tema su cui occorrerebbero più approfondite riflessioni riguarda l'”inquadramento” dei medici di medicina generale (MMG).

Le cronache hanno riferito – ma si tratta ovviamente di dati ancora tutti da verificare – di “carenze” e difficoltà organizzative, di cittadini che si sono trovati nella impossibilità di raggiungere /contattare il proprio medico di famiglia, verosimilmente già “assediato” da mille altre richieste di aiuto, e sono stati costretti a rivolgersi ai Pronto Soccorso. Ma i media hanno raccontato anche storie di professionisti che si sono spesi con generosità ed abnegazione, al punto di rischiare - e talora addirittura di perdere - la vita pur di curare i propri assistiti.

Anche qui le domande che si pongono faticano a trovare, almeno nell'immediato, risposte pronte: il perimetro delle (eventuali ed ipotetiche) responsabilità (della ASL che non avrebbe fornito i necessari presidi, mascherine in primis; dei medici stessi verso i pazienti) è tutto da definire, anche perché la L. 24 ne ha ridisegnato le coordinate.

L'art. 7 della Legge Gelli è molto chiaro nel prevedere, ai commi 1 e 2, che la struttura sanitaria risponde anche del fatto colposo o doloso degli esercenti che svolgono prestazioni in regime di convenzione con il SSN.

Ma questa è una novità, almeno se si guarda al quadro “tradizionale”; la giurisprudenza “tradizionale” infatti aveva sempre negato che la ASL potesse rispondere del fatto del medico di base (Cass. pen., Sez. IV, 11 aprile 2008 n. 36502; Cass. pen., 16 aprile 2003 n. 34460); si escludeva l'applicabilità dell'art. 1228 c.c. (in assenza di un rapporto contrattuale tra Ente e paziente); né si poteva dire che la fattispecie rientrasse nell'art. 2049 c.c. mancando, in capo alla Azienda, poteri di direzione e controllo, richiesti dalla norma per configurare la “preposizione”.

La L. 24/2017 sembra aver fatto propria la diversa impostazione definita dalla nota sentenza n. 6243/2015 della Cassazione (sia consentito rinviare a D. Zorzit, “La Cassazione, il fatto del medico di base e la responsabilità contrattuale della ASL: nuove geometrie (e qualche perplessità)”, in Danno e Responsabilità, 8/9 2015, 794) secondo cui la ASL risponde ex art. 1228 c.c. dell'operato del medico di base, quale “ausiliario” di cui si avvale per adempiere la propria obbligazione (ex lege) di assistenza primaria nei confronti dei cittadini.

C'è un nodo, però, che resta aperto: ma si può dire, oggi, che la ASL abbia davvero quei poteri di direzione/coordinamento che dovrebbero appunto giustificare e fondare la posizione di “ausiliario” in capo al MMG? In dottrina, con riferimento all'art. 1228 c.c., (M. Bianca, Commentario del Codice Civile Scialoja- Branca, Dell'inadempimento delle obbligazioni: Art. 1218 – 1229, 1979, 460) sottolinea che «Il richiamo della formula alla circostanza che il debitore si avvalga dell'opera del terzo implica ulteriormente che tale opera sia svolta su iniziativa, e cioè su incarico del debitore stesso. La rilevanza letterale di questo dato ha, del resto, la sua ragione in quanto risponde all'esigenza che sia assicurato al debitore la possibilità predeterminare e di controllare l'opera dell'ausiliario di cui deve rispondere».

Secondo l'orientamento consolidato (che portava appunto a negare la responsabilità della ASL), i medici in convenzione «sebbene assoggettati ad una disciplina specifica in ordine alle procedure di conferimento e all'oggetto della prestazione, ai sensi della Legge di riforma sanitaria l. 23 dicembre 1978 n. 833, art. 48 (richiamato dalla legislazione successiva, D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 art. 8, comma 1), svolgono una prestazione d'opera professionale autonoma, ancorchè nell'ambito di una relazione cd. di “parasubordinazione” (vedi, tra le numerose decisioni, Cass. civ., 8 aprile 2008 n. 9142)» (Cass. civ., 21 marzo 2011 n. 6370; Cass. civ., SS.UU., 22 novembre 1999 n. 813).

Ma oggi, fino a dove si spinge e come si giustifica – in questo mutato quadro normativo, in cui il medico di base è un “ausiliario ex art. 1228 c.c.” – quella “autonomia libero professionale” che ne ha sempre caratterizzato il profilo? Quanto può “chiedere” la ASL e fino a dove può essa “ingerirsi”, in ragione del fatto che di quelle condotte sarà poi essa stessa a dover rispondere?

La responsabilità delle strutture

Richiamando quanto già osservato nel precedente contributo, al di là della questione della applicabilità o meno alle strutture dell'art. 2236 c.c. (con riguardo all'adempimento delle prestazioni gestionali), pare si possa dire che anche per gli enti che erogano prestazioni sanitarie, come per i medici, le coordinate della responsabilità siano da riferire al paradigma della colpa, intesa come (in)osservanza delle misure, delle regole oggettive di corretta organizzazione: il dato testuale dell'art. 7 della L. Gelli e la costruzione di un “sistema” fondato sulla indicazione e predisposizione di “buone pratiche per la sicurezza” da osservare nella prevenzione e nel governo del rischio clinico inducono infatti a ritenere che il modello congegnato dal Legislatore voglia enfatizzare la dimensione dell' “agire secondo parametri predefiniti”, che costituiscono il contenuto e l'argine della prestazione diligente (sul punto sia consentito rinviare a D. Zorzit, “Il diritto alla sicurezza delle cure nella Legge Gelli: (verso) una nuova responsabilità civile in sanità”, in Responsabilità medica, Diritto e Pratica Clinica, 4, 2017, 497).

Seguendo allora lo stesso schema di ragionamento di cui sopra, la questione sembrerebbe porsi in questi termini: potranno oggi le strutture appellarsi alla urgenza ed alla straordinarietà di un fenomeno che, forse, ha perso parte della sua “novità”, presentandosi come – prevedibile - “seconda fase” di un precedente già vissuto?

Chi scrive non ha certo la pretesa di risolvere un tema così intricato, ma solo di focalizzare l'attenzione su alcuni punti, prendendo le mosse da brevi considerazioni.

La prima riguarda gli aspetti legati alla disponibilità di mezzi e di personale in numero sufficiente per affrontare la “seconda ondata”. La via della (possibile) responsabilità passa attraverso una serie di quesiti: a) quali interventi erano necessari per prepararsi in modo adeguato? b) c'erano il tempo e le risorse per farlo?

Così, per es., sarebbe predicabile una colpa (forse anche grave) in capo alla struttura che, pur avendone la possibilità (materiale e finanziaria), non si sia per tempo rifornita di camici /mascherine/ presidi (ove reperibili sul mercato); o di quella che non abbia compiuto scelte organizzative idonee a recuperare (attraverso un processo di riconversione già attuato nella “fase uno”) il maggior numero possibile di posti letto. Ma resterebbero le innegabili difficoltà della prova di un nesso che risulta quanto mai arduo “imbrigliare” (come dimostrare che il virus è stato contratto in ambiente ospedaliero e non altrove? o che un maggior numero di respiratori avrebbe consentito proprio al sig. X – a fronte di altre centinaia di pazienti in attesa, tutti nelle medesime condizioni - di sopravvivere?).

Segue: Il contenuto dell'obbligo di “ fare quanto necessario” per prepararsi alla seconda ondata

Ma il vero problema sta forse a monte: cosa vuol dire, qual è il significato concreto dell'imperativo “mettere in atto quanto occorre” per evitare il ripetersi degli scenari tragici a cui abbiamo assistito?

Ed è forse da quest'ultima domanda che bisognerebbe prendere le mosse.

Il fatto è che il “mostro” da affrontare è sempre lo stesso, non è cambiato nella sua deflagrante portata. Si tratta di una epidemia che ha una dimensione numericamente spaventosa, a causa dell'elevato livello di contagiosità e diffusività, e la sua ampiezza è talmente lata da sfuggire, forse, ad ogni possibile controllo.

Gli strumenti della responsabilità e della “colpa” sembrano cioè difficilmente adattabili ad una situazione così complessa: come si può ragionare in termini di prevedibilità e prevenibilità di un fenomeno che non è governabile con i rimedi che sono pensati e strutturati per gestire la “normalità”? e che ha messo in ginocchio il mondo intero (compresi i sistemi sanitari di Paesi assolutamente evoluti e moderni)?

Sotto la lente del diritto viene da chiedersi: cosa è esigibile secondo i parametri che orientano la “buona” organizzazione? Fino a dove il debitore è tenuto a spingersi per evitare un rimprovero?

Qual è la misura dello sforzo richiedibile? L'obiettivo imposto dalla diligenza è assicurare a tutti coloro che lo richiedano (potenzialmente fino a 60 milioni di italiani) soccorso/supporto in caso di contagio? Certamente questa è l'aspettativa (si direbbe legittima) di ognuno di noi. Bene, ma è oggettivamente possibile?

Esemplificando: se in un solo giorno – e per molti di fila - mille pazienti avranno necessità di assistenza ospedaliera in una data città, si potrà muovere un rimprovero in termini di colpa al soggetto (alla struttura, agli organi di vertice, e a chi sta sopra di loro, fino agli enti territoriali, ipotizzando una scala ascendente) che non riuscirà a soddisfare queste istanze?

Volendo ricorrere ad un esempio: se il pericolo preannunziato è l'abbattersi di un meteorite di proporzioni gigantesche, di fronte al quale i prevedibilissimi danni sono solo in minima parte – con le risorse tecnologiche e materiali disponibili – evitabili, a nessuno verrebbe in mente di avanzare pretese risarcitorie sull'onda di una (pur comprensibile) pretesa di “protezione” da parte dello Stato.

Tentando allora di calare questa primissima suggestione nel contesto di cui stiamo discorrendo si potrebbe sostenere che è ragionevole pensare che l'ente di cura (o chi per esso) sia chiamato, nell'ottica dell'art. 1218 c.c., che costituisce il paradigma di riferimento ai sensi dell'art. 7 della Legge Gelli, ad adottare ed attuare le misure che gli sono imposte dalla diligenza di cui all'art. 1176 c.c. (Cass. civ., 25 settembre 2012, n. 16254 «Nell'adempimento dell'obbligazione professionale va infatti osservata la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2 (che costituisce aspetto del concetto unitario posto dall'art. 1174 c.c.:cfr. Cass. civ., 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. civ., 22 dicembre 1999, n. 589), quale modello di condotta che si estrinseca (sia esso professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi».

Il criterio della diligenza assurge a “regola tecnica che misura la qualità dello sforzo richiesto dal debitore nell'esecuzione della singola prestazione nonché nell'evitare, prevedere o prevenire le cause dell'impossibilità della prestazione” (P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, cit., p. 283).

Il debitore dovrebbe quindi essere liberato da responsabilità ai sensi dell'art. 1256 c.c. quando l'esecuzione della prestazione richieda uno spiegamento di mezzi e di forze anomale, tenuto conto della natura della prestazione e della sua organizzazione. Osserva il Bianca (Negligenza, in Noviss. DIg. It. 1965, p. 190): «un criterio di normalità, se riferito alla diligenza, deve tener conto esclusivamente di quei comportamenti – attinenti a determinate attività – che possono qualificarsi come diligenti (..). La diligenza per quanto ridotta è in se stessa applicazione di sforzo adeguato al fine. Una misura che superi lo sforzo minimo sufficiente a segnare il comportamento come diligente implica dunque già una buona diligenza».

Ma qual è il livello di esigibilità?

Con riguardo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. dei datori di lavoro assume oggi importanza decisiva l'art. 29-bis del DL Liquidità (23/2020), convertito dalla legge 40/2020, recante "obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19", a mente del quale: «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Tale norma ha definito il contenuto di ciò che è esigibile dal datore, di modo che il «perimetro della responsabilità ex art. 2087 c.c. dovrà ragionevolmente dirsi contenuto, ed esaurito, oggi nell'obbligo di “puntuale e diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo previste nel Protocollo e dalla normativa emergenziale in evoluzione”; non potendosi allo stato attuale delle conoscenze scientifiche (peraltro in rapida evoluzione) sul Covid 19 – esigere oggettivamente più di questo. Al datore che abbia rispettato e puntualmente attuato quelle misura non potrà dunque essere imputata alcuna responsabilità in caso di contagio avvenuto in occasione di lavoro» (S. Giubboni, “Covid 19, obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori”, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT – 417/2020, che a propria volta cita, tra le virgolette, M. Marazza “L'art. 2087 c.c. nella pandemia (Covid-19”), in Riv. it. dir. lav., - Anno XXXIX - 2020).

Quanto ora evidenziato riguarda precipuamente i rapporti tra i datori (ivi comprese le strutture sanitarie) e i lavoratori, ma si può pensare che l'art. 29-bis del Decreto liquidità costituisca espressione di un principio generale, laddove appunto individua nella osservanza dei protocolli (per come definiti allo stato delle conoscenze scientifiche e in corso di evoluzione) il parametro di riferimento per valutare la colpa dell'agente e, quindi, la misura dello “sforzo” richiesto nell'adempimento. Ciò tanto più ove si consideri che per la Cassazione (Cass. civ., n 749/2018; Cass. civ., n. 14468/2017; Cass. civ., n. 12347/2016) la responsabilità di cui all'art. 2087 c.c. non ha carattere oggettivo, ma si modella secondo il paradigma dell'art. 1218 c.c. (norma che appunto viene in considerazione quando si tratti di inquadrare il rapporto tra ospedale e malato).

Venendo poi a valutare il profilo che attiene alla prestazione erogabile in favore del paziente, un altro punto di riferimento potrebbe essere costituito dalle indicazioni contenute nell'art. 2 del Decreto Rilancio (decreto-legge 19 maggio 2020, n.34) e dalle “Linee di indirizzo organizzative per il potenziamento della rete ospedaliera per emergenza Covid 19” di cui alla Circolare del Ministero della Salute n. 11254 del 29.05.2020, oltre che dal Documento del Ministero della Salute dell'11 agosto 2020 “Elementi di preparazione e risposta a COVID-19 nella stagione autunno-invernale” sopra menzionato.

L'art. 2 del Decreto Rilancio stabilisce che l'incremento dei posti letto (da attivare o riconvertire, secondo una specifica Tabella allegata alla citata Circolare n. 11254 e suddivisa per ciascuna Regione) deve soddisfare la soglia dello «0,14 per mille abitanti».

Ci si può chiedere se questo “tetto” rappresenti l'optimum, consenta cioè (in proiezione) di assicurare “a tutti” il livello di cure necessario, o se invece corrisponda a ciò che è obiettivamente raggiungibile, allo standard di esigibilità (che potrebbe anche coincidere con il massimo richiedibile, come sforzo estremo, in termini sia organizzativi che di costo in queste contingenze). Ma sorge un timore: nella circolare del Ministero n. 11254 (riferita alla “prima ondata”) si afferma che: «La lettura dei dati di contesto mostra che circa il 50% dei pazienti COVID-19 positivi ha necessitato di ricovero ospedaliero e, di questi ultimi, il 15% circa ha richiesto il ricovero in terapia intensiva o, comunque, assistenza in area ad alta intensità di cure (con l'utilizzo del supporto alla ventilazione con metodiche non invasive NIV -CPAP o invasive con IOT/TRACHEOSTOMIA fino a trattamenti in ECMO) per periodi lunghi anche di tre o più settimane».

Ebbene: se, nel peggiore degli scenari, quel 50 % della popolazione ammalata superasse di gran lunga la disponibilità garantita dallo «0,14 per 1000 abitanti»?

Di fronte ad una “proiezione” così spaventosamente dilatata, sarà allora inevitabile che una “parte” di coloro che avranno chiesto tutela (es. ricovero o cure) resterà fuori, sarà purtroppo esclusa (ma ci auguriamo con tutto il cuore che uno scenario siffatto non abbia assolutamente a verificarsi); e ciò a causa di insuperabili limiti ontologici/strutturali che, guardati sotto la lente giuridica, dovrebbero impedire l'insorgenza di una responsabilità, appunto perché non superabili con la diligenza richiedibile, ove pure intesa come sforzo massimo in contingenze emergenziali.

Resterebbe poi da capire come regolare il caso dei “criteri di scelta”: quale paziente ha la “preferenza” sugli altri in caso di limitatezza delle risorse? Se e come è sindacabile l'opzione? (Il tema è stato affrontato sul piano etico, si vedano - Società Rianimatori Marzo 2020 “Raccomandazioni di etica clinica”; Comitato Nazionale di Bioetica Aprile 2020 “Decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del triage in emergenza pandemica”; SIMLA “Orientamento etico - deontologico in ambito di responsabilità civile nel contesto Covid”).

La “catena” della ricerca a ritroso di eventuali responsabilità. Quali responsabilità per lo Stato o le Regioni?

E se si vuol provare a ragionare in un'ottica di contenzioso, ci si potrebbe domandare: ove volessero ottenere un risarcimento, che linea dovrebbero seguire i congiunti del paziente che sia deceduto per Covid a causa della denegata assistenza?

Uno spazio per l'affermazione di responsabilità potrebbe forse sussistere ove si possa dire che se la Regione avesse garantito il numero di posti letto “dovuto” (secondo le indicazioni del Decreto Rilancio, così per es. 1.400), quel determinato soggetto avrebbe potuto ottenere le cure e salvarsi. Ma se quel paziente era il n. 1399 di 1500 che richiedevano, in quel dato giorno, di essere assistiti, e che si trovavano tutti nelle medesime condizioni? Chi può dire che avrebbe avuto la “precedenza”? E come si potrà mai dimostrare tutto ciò? E come andrebbe ripartito il carico probatorio tra mera allegazione di inadempimento, controprove e sussistenza del nesso?

Ci pare che si tratti di profili che involgono complessità non agevolmente districabili, e su cui verosimilmente si aprirebbero discussioni e controversie assai lunghe e dall'esito non prevedibile, oltre che sicuramente costose (si dovrà disporre una perizia tecnico- contabile per valutare il rispetto degli standard organizzativi?).

Ciò che si vuol evidenziare è che il fenomeno contro cui stiamo combattendo è così diffuso e generalizzato che non appare agevolmente comprimibile e risolvibile entro gli schemi logici ed operativi della responsabilità, del “cosa sarebbe accaduto se si fosse agito diversamente?” o del “quale era il comportamento realisticamente esigibile?” o entro le categorie del “era prevedibile, era evitabile?”.

Domande che si fanno ancor più complesse e a cui è oltremodo difficile rispondere se si pensa che per poter arginare una epidemia occorre intervenire su più livelli, che a loro volta implicano altri centri di imputazione. Così per esempio: partendo dagli ospedali, che dovrebbero essere l'ultimo presidio, e risalendo all'indietro, bisognerebbe considerare la situazione della cd. medicina del territorio, ma prima di essa, occorrerebbe guardare ai meccanismi che servono per intercettare e limitare il più possibile l'infezione, come ad esempio le misure per regolamentare i trasporti, l'attività didattica nelle scuole e così via.. Ed allora, tanto per fare alcuni esempi, si dovrebbe ipotizzare una responsabilità del Ministero dei Trasporti sostenendo che avrebbe dovuto meglio presidiare e gestire la situazione? E come? Come si fa – ragionevolmente, nei limiti di quella “esigibilità” che assume una misura tutta peculiare in una pandemia - a fare in modo che i milioni di italiani che necessitano di spostarsi con i mezzi pubblici possano farlo “in sicurezza”? È pensabile sottoporre tutti al tampone ed attenderne la negatività per ammetterli su un aereo o su un treno? Fino a che punto è realizzabile un distanziamento su bus e metro? Dove si spinge quella diligenza richiesta per prevenire? Avanti di questo passo si potrebbe arrivare ad ipotizzare (ammesso che ne sussistano i presupposti, tutti da verificare) una responsabilità dello Stato per non aver immediatamente disposto il lock down, sì da precludere ab imis una ulteriore diffusione di un patogeno ormai non più controllabile.

Le osservazioni da ultimo svolte ci inducono a soffermare l'attenzione, senza alcuna pretesa di completezza, su un aspetto che, almeno nell'ambito dei convegni che si sono tenuti sul tema, è stato toccato e sui cui sarebbero necessari adeguati approfondimenti. Ci riferiamo alla possibilità (tutta da esplorare) di ipotizzare una responsabilità in capo allo Stato o alle Regioni per aver “mal governato” la situazione: il profilo che viene in considerazione sarebbe per es. legato al ritardo nell'approvvigionamento delle dotazioni e dei mezzi (mascherine, camici, respiratori ecc.) oppure, più a monte, nella impreparazione generale , nella “inadeguatezza” delle strutture e dei presidi (es. mancanza di posti letto nelle terapie intensive, di personale) dovuta ad una gestione della sanità caratterizzata, negli anni trascorsi, più da “tagli” che da investimenti.

La materia è senza dubbio complessa, anche in considerazione degli aspetti più sopra tratteggiati, né è agevole individuare delle coordinate di base. Quelle che seguono sono solo impressioni, suggerite da una sommaria ricognizione.

Guardando ai “precedenti”, nell'ambito dei primi confronti dialettici sull'argomento si è fatto riferimento, come mero spunto, alle pronunzie della Cassazione (Cass. civ., n. 576/2008) che hanno affermato una responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero della salute per omissione dei controlli sull'attività di raccolta e distribuzione delle sacche di plasma utilizzate per scopi terapeutici. È difficile dire se questo “filone” possa costituire la base per futuri scenari in ambito Covid: ci pare però che il contesto di oggi, per le ragioni sopra dette, sia ben diverso, proprio in considerazione del fatto che ci troviamo di fronte ad un fenomeno diffuso, generalizzato e difficilmente arginabile.

In quelle fattispecie lo “schema” parrebbe dirsi più lineare: la legge individuava specifici compiti di vigilanza sulla raccolta e distribuzione e, già in base ad un ragionamento di senso comune, era sostenibile che se il Ministero avesse effettivamente imposto l'esecuzione dei test preventivi (es. transaminasi) per rilevare la presenza di agenti patogeni nei donatori, non si sarebbe verificato il fenomeno delle trasfusioni infette. Come a dire: il comportamento dovuto – e non tenuto - era agevolmente individuabile, delimitato e circoscritto, e la derivazione causale del danno da quella specifica omissione era argomentabile senza soverchie difficoltà, non venendo qui in discussione i profili, più sopra illustrati, relativi alla misura dello sforzo diligente ed alla intrinseca non governabilità di un fenomeno come il contagio da Covid, posto che la diffusione non avviene attraverso il sangue, e quindi non è né immediatamente né agovelmente controllabile “alla fonte”.

Si potrebbe poi ragionare in un'ottica più ampia, ed uno spunto in tal senso potrebbe essere tratto dal fatto che, come si legge su alcuni articoli di stampa, il Ministro della Salute stia lavorando ad un Piano (“Proposta di Piano Sanitario Riforma e Resilienza”) che chiede di essere finanziato parzialmente dal Recovery Found. E tale piano mirerebbe a superare le lacune mostrate dal sistema durante l'epidemia, attraverso una ambiziosissima serie di interventi strutturali (come la creazione di 6.000 Case della comunità, strutture aperte 24 ore dove si formeranno equipe con i medici di famiglia , infermieri e specialisti).

Si potrebbe allora sostenere che, se per fronteggiare in modo più efficace la pandemia, per essere cioè preparati, sarebbe stato addirittura necessario un intervento così incisivo, dal costo stimato di 65 miliardi, la responsabilità (civile) dell'accaduto dovrebbe ascriversi allo Stato, che non ha, nel corso degli anni, predisposto ed attuato un sistema sanitario “adeguato”. Ma è davvero percorribile una simile strada?

Il dubbio si pone se si considera, per un verso, che la decisione sul concreto assetto di un sistema sanitario parrebbe propriamente “politica”, si tratta cioè di aspetti su cui il Parlamento sarebbe dovuto intervenire legiferando e individuando le risorse da destinare allo scopo.

Ed allora ogni possibile dissertazione sul punto deve fare i conti con il principio, ribadito anche di recente dalla Cassazione (che si è più volte pronunciata in merito alla dibattuta ed annosa questione della responsabilità per omessa attuazione di direttiva comunitaria) secondo cui: «a fronte della libertà della funzione politica legislativa (art. 68 Cost., comma 1, art. 122 Cost., comma 4), non è ravvisabile un'ingiustizia che possa qualificare il danno allegato in termini di illecito, e arrivare a fondare il diritto al suo risarcimento» Cass. civ., 22 novembre 2016 n. 23730.

L'altro principio che condiziona inevitabilmente ogni valutazione è quello del pareggio di bilancio introdotto dall'art. 81 COst. . Non si può certo qui approfondire un tema che, nella sua complessità, da tempo è oggetto di attento studio; possiamo solo dire che nella giurisprudenza della Consulta sin dagli anni 90 si è affermata l'idea secondo cui l'attuazione e la soddisfazione dei cd. diritti sociali, tra cui in particolare, quello alla salute, sono necessariamente influenzate dalla concreta disponibilità di risorse organizzative e di bilancio (v. Corte cost. n. 455/1990), tanto che la dottrina ha coniato l'espressione di “diritti finanziariamente condizionati”; sul punto v. Molaschi, Introduzione allo studio dei rapporti di prestazione nei servizi sociali - Rapporti di prestazione e situazioni giuridiche soggettive, Roma, 2006.

La pronuncia che fa da spartiacque è Corte cost. n. 455/1990 con cui la Corte afferma che “considerato come diritto ad ottenere trattamenti sanitari, il diritto alla salute è basato su norme costituzionali di carattere programmatico e condizionato all'attuazione che ne dà il legislatore ordinario: attuazione, costituzionalmente obbligatoria, da realizzare gradualmente attraverso il ragionevole bilanciamento – sindacabile dalla Corte Costituzionale – con altri interessi o beni assistiti da pari tutela costituzionale nonché con l'obiettiva disponibilità di risorse organizzative e finanziarie”.

Nella sentenza n. 304/1994, sempre in tema di diritto alla salute, la Consulta pur ribadendone il carattere di diritto “finanziariamente condizionato”, precisa tuttavia che “nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore deve compiere al fine di dare attuazione al diritto ai trattamenti sanitari, le esigenze relative all'equilibrio della finanza pubblica non possono assumere un peso assolutamente preponderante, tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all'inviolabile dignità della persona umana, costituendo altrimenti esercizio macroscopicamente irragionevole della discrezionalità legislativa.”

Come osservato dagli studiosi della materia, tuttavia, il concetto di “nucleo essenziale” dei diritti risulta essere “sfuggente”, “inafferrabile”: la Corte ne individua, di volta in volta, caso per caso il contenuto e il limite di invalicabilità (C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali – Relazione al XXVIII convegno annuale dell'AIC., in Rivista AIC, n. 4 /2013 p. 10.).

Il danno risarcibile

Per provare a concludere il nostro ragionamento si pone il tema afferente alla necessità di comprendere le peculiarità del danno risarcibile, nelle ipotesi in cui, alla fine di un percorso che abbiamo visto non annunciarsi troppo agevole, si riescano effettivamente ad individuare determinate responsabilità risarcitorie. Senza alcuna pretesa di completezza, ci interessa qui rimarcare la possibilità che lo straordinario pathos emotivo che accompagna il presente momento storico, unitamente ai racconti di talune terribili sofferenze morali, patite (dai pazienti e dai congiunti) nel corso della malattia o a seguito dell'isolamento forzato di chi abbia contratto il virus, si riverberi sui criteri di quantificazione del danno non patrimoniale liquidabile, assecondando una enfatizzazione straordinaria della sua componente morale.

Ciò vale, in particolare, per coloro i quali siano deceduti nella drammatica solitudine di una stanza d'ospedale, senza poter neppur ricevere una carezza dai propri cari. Ma anche per i loro parenti, la cui disperazione nel non poter abbracciare chi se ne stava “andando” integra drammi psicologici del tutto nuovi, per frequenza e intensità, nel già drammatico contesto emozionale della perdita del rapporto parentale. Ciò, ovviamente, sul presupposto che possa predicarsi una responsabilità (ad es. muovendo dall'assunto che un più tempestivo intervento assistenziale già in sede domiciliare avrebbe scongiurato il peggioramento del paziente ed impedito l'evolversi della malattia verso l'esito letale).

E qui viene anche in linea di conto la figura del danno terminale da lucida agonia, sofferto da tutti i coloro i quali hanno vissuto consapevolmente la paura di morire, prima di arrendersi definitivamente al Covid 19. Ma anche coloro i quali ce l'abbiano fatta, passando attraverso - nei casi più gravi – la dolorosa esperienza delle terapie intensive, possono aver patito sofferenze inenarrabili, nell'angoscia di una fine imminente poi, per fortuna, scongiurata. Si potrebbe, in quest'ultimo caso, parlare di danno terminale “putativo”, figura non elaborata in giurisprudenza e neppure considerata, allo stato, dalle tabelle dell'Osservatorio del tribunale di Milano, che si è occupato del danno da lucida agonia soltanto quando lo stesso esita, effettivamente, nel decesso.

Al netto di quanto sopra, la componente morale del danno non patrimoniale pare davvero trovare, nel contesto del Covid 19, il proprio terreno di elezione più fertile per ambire a riconoscimenti nuovi e rilevantissimi, anche in forza di personalizzazioni che potrebbero appoggiarsi sulla suggestione emotiva indotta dai dolorosi racconti, individuali e collettivi, di coloro i quali abbiano dovuto affrontare la malattia o la morte di un congiunto. La questione vale soprattutto per i danni da perdita del rapporto parentale e per quelli da “postumi” macropermanenti (superiori al 10%), che ben potrebbero verificarsi (secondo quanto sembra esser sostenuto dalla migliore medicina legale) nei casi di più grave polmonite intersiziale indotta dal Coronavirus. Mentre, infatti, per i postumi di entità inferiore (dallo 0 al 9%) il risarcimento dovrà essere quantificato in base alla tabella dell'art. 139 CAP, che contiene il compendio risarcitorio entro precisi limiti di personalizzazione (anche in tema di sofferenza morale), per quelli di portata superiore mancano le tabelle di legge, mai attuate ancorchè previste dall'art. 138 del Codice delle Assicurazioni a far tempo dal 2005. Altrettanto dicasi per i danni da perdita del rapporto parentale, la cui valutazione, in mancanza di previsione normativa, è rimessa alla misurazione equitativa proposta dalle Corti di merito e, in particolare, dall'Osservatorio del Tribunale di Milano, le cui tabelle sono considerate dalla Cassazione (a far tempo dalla sentenza del 7 giugno 2011, n. 12408) quale il parametro liquidativo a cui normalmente riferirsi sull'intero territorio nazionale.

In assenza di parametri risarcitori certi, il rischio è che, una volta individuata una data responsabilità, la misura del risarcimento del danno da Covid (al netto delle già difficili tematiche quantificative connesse ai casi di perdita di Chances per non aver ricevuto cure nei casi cd “Covid correlati”) incontri le più diverse valorizzazioni, rimesse alla mano libera di una equità giudiziale dai contorni mobili e incontrollabili. Il che non gioverebbe al sistema rendendo peraltro precarie le possibilità di transazione che pur la legge Gelli (l. n. 24/2017) ha caldamente auspicato, estendendo alla responsabilità sanitaria le medesime regole contenitive proprie dei risarcimenti del danno alla persona nella rc auto (il riferimento espresso è proprio agli artt. 138 e 139 del CAP).

L'argomento è oggi più che mai sugli scudi, dopo che la Suprema Corte è recentemente intervenuta trattando nuovamente del danno morale da lesione fisica, e confermandone, una volta più, l'autonomia rispetto al danno biologico. Ci riferiamo alla sentenza n. 25164 del 10 novembre 2020 (si veda sul punto D. Spera, “I 10 punti del danno biologico: commento a Cass. civ., n. 25164/2020 su danno morale, personalizzazione e tabella milanese”, in Ridare, 17.11.2020), la quale, dando piena continuità a quanto a più riprese affermato, conferma che la voce di danno morale mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel c.d danno biologico, “trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo”. Ci troviamo, secondo la Cassazione, di fronte a conseguenze dannose diverse da quelle “dinamico relazionali” che integrano sempre e necessariamente la natura del danno alla salute. Il “compenso” aggiuntivo per danno morale non è però dovuto in via automatica, dal momento che quel tipo di danno deve essere accertato, caso per caso. Di fronte alla difficoltà di fornire tale prova, spesso confinata nel racconto di chi afferma di aver intimamente sofferto, la Corte conferma il ben possibile ricorso allo strumento delle presunzioni, a loro volta fondate su massime di esperienza tali da poter sostenere un rapporto di proporzionalità diretta tra la gravità della lesione e la misura della sofferenza soggettiva. Ribaditi tali concetti, già consolidati nella giurisprudenza di legittimità, la sentenza dà per scontata, e quindi conferma, la necessaria e generalizzata applicazione della tabella milanese. Ma con un chiaro caveat. Tale tabella, pur non dichiarandolo espressamente, contiene già una separata valutazione del danno morale. Più precisamente, accanto all'iniziale valorizzazione del parametro di base (detto punto “biologico”), la tabella milanese indica un secondo valore (denominato danno non patrimoniale) incrementato sulla base di coefficenti automatici prestabiliti. Nella prassi, è questo secondo valore ad esser preso quale punto di riferimento della liquidazione di base del danno alla salute. E talvolta il danno morale viene ulteriormente aggiunto, sovente a titolo di personalizzazione del danno biologico di partenza. Ora, secondo la Cassazione questa prassi è da ritenersi errata. Il danno morale, se provato, sta proprio nella seconda voce contenuta nelle tabelle milanesi, e quindi in quell'incremento indicato per liquidare complessivamente il danno non patrimoniale da lesione. E dunque, se provato, anche su base presuntiva, quel danno morale non potrà essere aggiunto ai valori complessivamente espressi dalla tabella milanese (trattandosi, in caso, contrario di indebita duplicazione della medesima posta). Viceversa, in assenza di prova, la componente morale del danno dovrà essere esclusa con conseguente necessità applicare la tabella milanese per la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale. Altra cosa è l'eventuale personalizzazione del danno, che potrà essere riconosciuta soltanto al ricorrere di (comprovate) circostanze eccezionali e specifiche, e che dovrà esser calcolata, in assenza di danno morale, sulla sola componente del danno biologico. Interessante osservare come, pur riferendosi la tabella milanese, la Cassazione non applica le percentuali di personalizzazione dalla stessa previste, ma quella inferiore stabilita dall'art. 138 (sino al massimo del 30%). Questa operazione, se consapevole, ha evidentemente considerato la necessità di utilizzare per i danni da Rc auto, pur in assenza di attuazione della tabella di base prevista da tale norma, i parametri di personalizzazione espressamente (e già chiaramente) stabiliti dal legislatore. Si tratta dunque di una sentenza che potrà impattare non poco sugli attuali processi liquidativi della rc auto. Rimane il fatto che, al di là del costante lavorio giurisprudenziale, il percorso di attuazione dell'art. 138 CAP sembra oggi non poter esser più procrastinato: le esigenze di certezza delle regole risarcitorie hanno assunto un'urgenza, se possibile maggiore dopo l'entrata in vigore della citata legge “Gelli”, che ha definitivamente esteso al settore della rc sanitaria l'applicazione degli artt. 138 e 139 CAP. Il che, a maggior ragione in tempo di Covid, sollecita riflessioni ulteriori e interventi indifferibili, posto che tale infida malattia ha aperto scenari sofferenziali drammaticamente nuovi, che meritano certamente di essere adeguatamente valorizzati nell'ambito di una più che opportuna personalizzazione dei compendi risarcitori. Sempre, però, tenendo un occhio vigile sulle esigenze di sostenibilità del sistema e sulla necessità di evitare che le inclinazioni emotive di questi tempi difficili facciano sì che talune discrezionalità equitative trasmodino in arbitrio.

Alcune considerazioni conclusive

Lo spazio di queste pagine non consente se non qualche cenno ad un altro tema, fortemente connesso ed anzi implicato dalla straordinaria emergenza che stiamo vivendo: quello della sicurezza sociale. Recentemente (Daily 24 Il sole 24 ore, 26 Ottobre 2020) Il Presidente della Repubblica Mattarella ha convocato il Consiglio Supremo di Difesa: la pandemia suscita anche preoccupazioni di ordine pubblico e si riflette «sugli equilibri strategici e di sicurezza globali», come si legge sul sito del Quirinale, con particolare riferimento a Nato e Ue.

Viene dunque in primo piano l'urgenza di dare risposte, protezione, speranza a chi a gran voce reclama, a chi chiede aiuto o si ribella ad una situazione che, comunque la si guardi, è troppo gravida di problematiche da poter essere ridotta, semplificata e racchiusa anche solo in una definizione (basti pensare ai dibattiti sui limiti del potere autoritativo dello Stato ed alle implicazioni su diritti costituzionali).

Ed allora viene alla mente un lucidissimo saggio edito nel 2019 “Il diritto penale totale”, in cui il Prof. Sgubbi, con estrema schiettezza e vivida efficacia rappresentativa, denuncia la profonda trasformazione intervenuta negli ultimi anni nel diritto penale, che sembra sempre più dominato dal cd. “paradigma vittimario”. L'Autore mette in evidenza come nella collettività e nell'ambiente politico sia progressivamente invalsa la convinzione che il diritto penale sia «il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e ogni male sociale» e debba assecondare «la voce intimidatoria delle vittime, adeguatamente amplificata dai media». Il grido “vogliamo giustizia” (delle persone offese, dei famigliari delle vittime, specie negli eventi catastrofali) viene urlato nei tribunali ed assurge a potente strumento di rivendicazione di pene esemplari “a prescindere” da un rigoroso accertamento della colpevolezza, sino a trasformarsi in energica e vibrante protesta contro quei giudici che si permettono di assolvere imputati considerati, dal “sentire collettivo”, rei “per principio”. E così accade che il «processo sia chiamato a cercare colpe prima ancora che cause».

Ebbene, se è vero che il rimedio penale costituisce una “extrema ratio”, il timore è che il diritto civile, nella sua funzione di strumento di miglior allocazione dei costi, possa oggi diventare un comodo e più facile mezzo per dar voce a quel grido di giustizia che di fronte ad un grande male sociale (l'epidemia) rivendichi come dovuto un risarcimento, senza troppo preoccuparsi di indagarne e verificarne i presupposti che, de iure condito, dovrebbero giustificarlo. Non è questo ciò a cui si dovrebbe tendere.

È questo il tempo dell'unione, e non della divisione a ogni costo.

È il tempo della solidarietà più che del conflitto.

E chi davvero avrà sbagliato, il che è ben possibile anche di fronte alla forza catastrofale di questa emergenza pandemica, dovrà pagare dazio, come è giusto che sia. Ma al riparo da quelle tendenze accusatorie che, assecondando troppo facilmente il malcontento sociale, rischiano di cavalcare l'onda di retoriche speculative di cui oggi, proprio, non si sente il bisogno. O così, almeno, ci pare.

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