Ordinanze del giudice istruttore

Roberta Nardone
12 Gennaio 2021

L'ordinanza come provvedimento giurisdizionale: nozione, caratteri e regime nel codice di procedura civile...
Inquadramento

Il codice vigente, come per la sentenza e il decreto, non fornisce alcuna definizione dell'ordinanza. Tuttavia l'art. 134 c.p.c., ponendo l'obbligo della motivazione anche per tale provvedimento, consente di ritenere superata sia l'impostazione del Chiovenda (Chiovenda G., op. cit., p. 807 e ss.) che ne individuava il presupposto nella mera necessità di svolgimento del processo (da cui la ritenuta non necessità della motivazione), che del Carnelutti (Carnelutti F., op. cit., pp. 6 e ss. e 308 e ss.) che, nella propria classificazione degli atti processuali, poneva l'ordinanza esclusivamente nella categoria degli ordini (atti che provvedono sul processo), ricompresa in quella più vasta degli atti di governo processuale.

L'art. 176 c.p.c., anche in combinato disposto con l'art. 186 c.p.c., individua nell'ordinanza il provvedimento tipico del giudice istruttore attraverso il quale questi esercita i poteri propri di impulso e direzione del processo - poteri istruttori latu sensu intesi e di preparazione della decisione -. La dottrina, infatti, ne sottolinea la natura «istruttoria e preparatoria» che ne giustifica i minori requisiti formali e ne evidenzia le funzioni, peraltro eterogenee, di provvedimento a volta ordinatorio, istruttorio, cautelare o diretto a risolvere provvisoriamente una questione o a chiudere un procedimento, cui si associa, non di rado, anche la funzione di «risolvere questioni» (cfr. l'accenno contenuto nell'art. 279 c.p.c. che, sia pure con riferimento alle ordinanze del Collegio, precisa che questo «…pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza…»). Certamente l'ordinanza è qualificabile come un «atto giuridico» compiuto nell'ambito del processo e attraverso il quale il giudice esplica il proprio potere di direzione di questo differenziandosi, rispetto alla sentenza, per non essere un provvedimento decisorio e, rispetto al decreto, per essere emessa in contraddittorio fra le parti. Lo strumento dell'ordinanza presuppone, infatti, che sulle questioni sulle quali il giudice deve provvedere, le parti siano state sentite («sentite le loro ragioni»: art. 186 c.p.c.) e, quindi, sia stato attivato il contraddittorio e le eccezioni ed istanze siano state previamente trattate in udienza.

Tale sistema risulta coerente con la struttura del processo del codice vigente improntato alla oralità ed unicità della sentenza di merito.

Normalmente, quindi, la sentenza è il provvedimento decisorio per eccellenza, mentre l'ordinanza svolge una funzione propulsiva dell'andamento del processo e il decreto, infine, è variamente utilizzato dal legislatore, ma comunque prevalentemente a fini istruttori.

Esistono, tuttavia, apparenti discrasie, casi in cui viene meno proprio quella congruenza tra forma e funzione del provvedimento: si tratta, in realtà, di precise scelte del legislatore. Il riferimento è alle ordinanze c.d. decisorie, che rappresentano titolo esecutivo e sopravvivono all'estinzione del processo, introdotte dalla l. n. 353/1990 e dalla l. n. 534/1995: ordinanza di pagamento delle somme non contestate, ordinanza di ingiunzione, ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, cui può aggiungersi l'ordinanza di cui all'art. 702-ter c.p.c. (introdotta con l. n. 69/2009), emessa a conclusione di un procedimento sommario di cognizione considerato come un processo di cognizione ordinaria ancorché semplificata.

La scelta dell'ordinanza in funzione decisoria del processo riguarda, tuttavia, esclusivamente ipotesi di condanna ed è, più specificamente, funzionale alla formazione di un titolo esecutivo di pronta disponibilità per l'avente diritto, ottenibile in tempi più ristretti rispetto a quelli necessari per la pronuncia della sentenza. Mentre l'attribuzione dell'efficacia di giudicato all'ordinanza è manifestazione di una specifica volontà del legislatore, che va oltre l'esecutività della stessa e realizza una tendenza alla sostituzione della sentenza per mezzo dell'ordinanza, in ottemperanza a ragioni di celerità.

Struttura dell'ordinanza e nullità

Le ordinanze possono essere pronunciate dal giudice in udienza (in applicazione del principio dell'oralità) e in questo caso l'ordinanza, inserita nel processo verbale, deve essere sottoscritta dal cancelliere (art. 57 ult. comma c.p.c.) e dal giudice, anche se la nullità del provvedimento per mancata sottoscrizione deve essere eccepita dalla parte interessata nella prima udienza successiva, ex art. 157 comma 2 c.p.c.

Il codice non contiene una norma in materia di nullità dell'ordinanza. Come per la sentenza occorre fare riferimento all'art. 156 c.p.c. Pertanto, nonostante il silenzio della legge, l'ordinanza deve contenere l'indicazione del giudice che l'ha emessa (o ne deve consentire la individuazione), essendo in caso contrario, nulla ai sensi dell'art. 156 comma 2 c.p.c.

Dal combinato disposto degli artt. 134 e 176 c.p.c. si ricava che l'ordinanza deve essere succintamente motivata. La mancanza di motivazione determina la nullità del provvedimento qualora lo renda inidoneo al raggiungimento dello scopo: tuttavia tale nullità è sanata dall'espletamento dell'atto disposto con la medesima ordinanza.

Nell'esercizio dei propri poteri discrezionali il giudice può riservarsi, pronunciando il provvedimento fuori udienza, con deposito in cancelleria, ma nei cinque giorni successivi alla stessa (art. 186 c.p.c.): la scelta del giudicante di riservarsi è insindacabile. Il predetto termine di cinque giorni per lo scioglimento della riserva è termine ordinatorio e la sua inosservanza non incide sulla validità dell'atto.

Il giudice, nello scioglimento della riserva non è vincolato all'oggetto precedentemente individuato dalla le parti, potendo estendere il suo esame ad altre questioni salva la necessità di rispettare il contraddittorio (art. 101 c.p.c.). Se è pronunciata fuori dell'udienza, l'ordinanza è scritta in calce al processo verbale oppure in foglio separato (in caso di riserva), munito della data e della sottoscrizione del giudice o, quando questo è collegiale, del presidente.

Regime di conoscibilità

Il regime di conoscibilità delle ordinanze si differenzia a seconda della loro pronuncia in udienza o a seguito di scioglimento di riserva. Nel primo caso, precisato che il verbale di causa fa piena prova della circostanza che l'ordinanza sia stata emessa in udienza (Cass. civ., 12 gennaio 2009, n. 440), le ordinanze si intendonoconosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi e, quindi, le parti costituite assenti (Cass.civ., 10 marzo 2004, n. 4929) sulle quali graverà, quindi, l'onere di informarsi circa l'esito dell'udienza. A tale proposito non può invocarsi la disciplina dettata dagli artt. 82 e 115 c.p.c. (che prevedono l'obbligo di comunicazione del decreto di rinvio dell'udienza alle parti non presenti alla pronuncia del provvedimento) in quanto dettata per la diversa ipotesi del rinvio disposto prima (e fuori) dell'udienza dal giudice.

La giurisprudenza ha chiarito che si intendono pronunciate in udienza le ordinanze per le quali il verbale contenga la dicitura «il giudice dispone con separata ordinanza» giacchè l'udienza non viene chiusa e l'ordinanza viene pronunciata una volta esaurita la trattazione della causa, ma prima della fine dell'udienza facendo sorgere in capo alle parti l'obbligo di attivarsi per conoscere il contenuto del provvedimento (Cass.civ., sez. III, 8 aprile 2003, n. 5510).

L'art. 134 c.p.c. stabilisce che il cancelliere comunica alle parti l'ordinanza pronunciata fuori dell'udienza, salvo che la legge ne prescriva la notificazione.

Nel caso di ordinanze, emesse fuori udienza a seguito di scioglimento di riserva, le dette vanno comunicate a cura del cancelliere alle parti costituite entro i tre giorni successivi (art. 176 comma 2 c.p.c.). Il predetto termine è ordinatorio, sicchè nessuna nullità deriva dal ritardo dell'eseguita comunicazione (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2016, n. 10607).

Modalità di comunicazione dell'ordinanza a cura della cancelleria

Il d.l. n. 35/2005 convertito, con modifiche, dalla l. n. 80/2005 aveva introdotto la possibilità per le cancellerie di provvedere alle comunicazioni ai difensori delle parti costituite attraverso il numero di fax e l'indirizzo di posta elettronica indicati nel primo atto difensivo utile, purchè «nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici» (art. 136 c.p.c.).

La l. n. 183/2011 (legge di stabilità per l'anno 2012) ha modificato, all'art. 25 rubricato «impiego della posta elettronica certificata nel processo civile», il regime delle comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria prevedendo che le dette siano effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante - ai sensi dell'art. 16 del d.l. n. 179/2012 - da pubblici elenchi o comunque accessibili da pubbliche amministrazioni.

Le Sezioni Unite (Cass. Civ., sez. un., 20 giugno 2012, n. 10143), atteso il novellato contesto normativo, hanno fornito una lettura «adeguatrice» dell'art. 82 r.d. n. 37/1034 che prevede che: «[I procuratori], i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del Tribunale al quale sono assegnati, devono, all'atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. In mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria».

La Suprema Corte ha quindi concluso ritenendo poco ragionevole e incompatibile con la garanzia della tutela giurisdizionale espressamente sancita dall'art. 24 Cost., far derivare dalla mancata elezione di domicilio di cui all'art. 82 cit. l'effetto della domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio anche nel caso in cui il difensore abbia indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata.

Omessa e tardiva comunicazione dell'ordinanza emessa fuori udienza

La mancata comunicazione dell'ordinanza emessa fuori udienza alla parte costituita determina la nullità dell'atto per difetto dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, e la conseguente nullità di tutti gli atti processuali successivi (Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8002). Nel predetto caso di nullità intervenuta nel giudizio di primo grado per la omessa comunicazione ad una delle parti costituite dell'ordinanza emanata fuori udienza, il giudice d'appello ha l'obbligo di decidere nel merito provvedendo alla rinnovazione degli atti istruttori compiuti in violazione del contraddittorio (Cass. civ., sez. II, n. 1073/2009).

La nullità predetta è, comunque sanabile con la comparizione della parte alla quale la comunicazione è stata omessa, alla successiva udienza e con la rinuncia della detta, implicita o esplicita, a fa valere il vizio procedimentale.

Diversamente, il ritardo nella comunicazione dell'ordinanza non produce alcuna nullità del provvedimento, a meno che non si risolva in una lesione del diritto al contraddittorio (Cass. civ., sez. II, 23 maggio 2016, n. 10607). Infatti, il termine - 3 giorni - prescritto per la comunicazione delle ordinanze del giudice istruttore è ordinatorio, non perentorio, mancando un'espressa previsione di legge in tal senso.

Efficacia e impugnabilità

L'art. 177 c.p.c. enuncia il carattere provvisorio dei provvedimenti emessi dal giudice istruttore nel corso del giudizio che, in quanto tali, non possono mai costituire un vincolo per il giudice che procede, né acquistare autorità di cosa giudicata in senso sostanziale. Ne discende che la revocabilità e modificabilità delle ordinanze è l'espressione del potere di autocontrollo riservato al giudice, salve le eccezioni specificamente previste dall'art. 177 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 22 novembre 2018, n. 30161). Le ordinanze sono provvedimenti revocabili e modificabili (da cui la inapplicabilità del procedimento di correzione ex artt. 287 e 288 c.p.c. riservato alle ordinanze irrevocabili), sia da parte dello stesso giudice istruttore che le ha emesse, sia da parte del Collegio, nelle cause la cui decisione gli spetti ai sensi dell'art. 50-bis c.p.c. Il primo può esercitare il potere di revoca o modifica per tutto il corso della fase istruttoria proprio in ottemperanza all'esigenza di propulsione del processo e lo può fare sia d'ufficio che su istanza di parte; il secondo - ma anche il giudice unico in funzione decidente - può esercitare lo stesso potere sia ai sensi dell'art. 178 comma 1 c.p.c., su istanza delle parti che intendano sottoporre ad esso le questioni già risolte dall'istruttore con ordinanza, sia in quanto potere generale, officioso, riconosciuto dal legislatore all'art. 177 comma 1 c.p.c., che esclude l'efficacia vincolante dell'ordinanza istruttoria in sede decisoria.

Le richieste di modifica o di revoca delle ordinanze istruttorie devono essere reiterate in sede di precisazioni delle conclusioni giacchè - in mancanza - le stesse non possono essere riproposte in sede di impugnazione. Tale principio trova applicazione anche quando il giudice istruttore, decidendo sulle istanze istruttorie proposte dalle parti, non ne prenda in considerazione alcune: anche in questo caso la non reiterazione, con l'annessa precisazione delle conclusioni dell'istanza, assume la valenza di rinunzia (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2012, n. 10748).

Proprio in ragione della non attitudine al giudicato le ordinanze del giudice istruttore non sono appellabili (artt. 279 comma 4, 323, 339 c.p.c.), salvo espresse disposizioni di legge che stabiliscano diversamente (Tribunale Termini Imerese, 5 febbraio 2018, n. 151).

Non avendo le ordinanze il carattere di «decisorietà» e «definitività» è esclusa anche la ricorribilità in Cassazione (art. 111 comma 6 Cost.).

Infatti, il regime impugnatorio delle ordinanze è direttamente collegato a quello della natura giuridica delle predette. L'ordinanza si caratterizza infatti per essere un provvedimento avente natura non decisoria, ma ordinatoria, avente carattere strumentale/endo-procedimentale finalizzato a disciplinare le diverse fasi del processo.

Con riguardo all'impugnabilità dell'ordinanza, appare ormai superato il principio c.d. dell'apparenza in base al quale ciò che rileva di un atto è l'estrinsecazione - ciò che appare all'esterno - e non il suo contenuto effettivo. Tale tesi, che trovava la sua giustificazione nel principio della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento nei rapporti giuridici (Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 390) per cui le esigenze di certezza dei mezzi di gravame si ritenevano prevalenti sulle ragioni sostanziali, risulta ormai superata. In giurisprudenza è ormai diffuso l'orientamento (affermato anche dal Consiglio di Stato, sez. III, 6 marzo 2018, n. 1434) di valorizzazione del contenuto sostanziale dei provvedimenti al di là della forma e del nomen iuris ad esso attribuito (cfr. ex multis Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2018, n. 16790 e Cass. civ., sez. II, 17 novembre 2017, n. 27311 con riferimento al «provvedimento con il quale il giudice istruttore in funzione di giudice unico dichiara l'estinzione del processo», ritenuto impugnabile con l'appello ove pronunciato dopo che le parti hanno precisato le conclusioni; come il provvedimento con cui il giudice, nel dichiarare l'estinzione del processo per inattività delle parti, regoli le spese di lite secondo il principio di soccombenza, avendo contenuto decisorio e natura sostanziale di sentenza come si legge in Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2017, n. 7397). In applicazione di detto principio la Suprema Corte (Cass. civ., sez. VI, 3 settembre 2018, n.21586) ha stabilito che l'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, pronunciata ai sensi dell'art. 181 comma 1 c.p.c. dal giudice monocratico di primo grado, per la mancata comparizione di entrambe le parti alla prima udienza, produce ex lege l'estinzione del giudizio anche nel caso in cui l'estinzione non sia stata formalmente dichiarata e, conseguentemente, la relativa ordinanza - che ha carattere decisorio, e, quindi, natura sostanziale di sentenza - deve ritenersi appellabile (In senso contrario va, tuttavia, segnalata la pronuncia di Cass. civ., sez. I, 6 febbraio 2018, n. 2811 secondo la quale ancora «l'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale deve essere compiuta in base al principio dell'apparenza, vale a dire con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, indipendentemente dall'esattezza di essa, nonché da quella operata dalla parte, potendo, in ogni caso, il giudice ad quem esercitare il potere di qualificazione, che non sia stato esercitato dal giudice a quo, non solo ai fini del merito, ma anche dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione».)

Riferimenti
  • ANDRIOLI, Ordinanza, EdD, XXX, Milano 1980;
  • G. ARIETA, F. DE SANTIS, L. MONTESANO, Corso di diritto processuale civile, Padova, 2017;
  • F. BARTOLINI, Ordinanza di estinzione del processo e giudice unico: quale impugnazione? In Ilprocessocivile.it, fasc., 5 febbraio 2018;
  • CARNELUTTI F., Sistema del diritto processuale civile, I-III, Padova, 1936-1939: II, 6 e ss. e 308 e ss.;
  • CHIOVENDA G., Principi di dritto processuale civile, 3^ ed. Napoli, 1923, rist. anastatica 1965, 807 e ss.;
  • PUNZI, Il processo civile. Sistema e problematiche, I, I soggetti e gli atti, Torino 2010.

Sommario