Il debitore assoggettato a liquidazione giudiziale: capacità processuale e limiti soggettivi del giudicato tributario
13 Gennaio 2021
Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d'ora in poi CCI), la cui entrata in vigore è stata differita all'1.9.2021 (cfr. art. 5 D.L. n. 23/2020), senza mutare - nella sostanza - i termini delle questioni, ha sostituito, dal punto di vista terminologico, il termine “fallimento” con l'espressione “liquidazione giudiziale”, disponendo, inoltre, nell'art. 349 CCI che nelle disposizioni normative vigenti i termini “fallimento”, “procedura fallimentare”, “fallito” nonché le espressioni dagli stessi derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni “liquidazione giudiziale”, “procedura di liquidazione giudiziale” e “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale”.
Nonostante questa innovazione lessicale, v'è da credere che, nella prassi, ancora per lungo tempo si continuerà a discorrere, sebbene informalmente, di “fallimento” e di “fallito”, se non altro per la maggiore immediatezza rispetto alle espressioni “liquidazione giudiziale” e “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale” (questa notazione è di M. Fabiani, Effetti della liquidazione giudiziale sul debitore, in Foro it., 2019, V, 402). Nel prosieguo della trattazione le coppie fallimento/curatore-liquidazione giudiziale/curatore e fallimento/fallito-liquidazione giudiziale/debitore assoggettato a liquidazione giudiziale saranno, pertanto, utilizzate fungibilmente.
Seguendo una tassonomia tipica del diritto concorsuale, la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale (art. 49 CCI) produce significativi effetti nei confronti del fallito, di natura personale, patrimoniale e, ovviamente, anche processuale e nei confronti dei creditori.
L'entrata in procedura non sottrae al debitore la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nella procedura (S. Pacchi, Commento all'art. 42, in AA.VV., La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli e V. Santoro, I, Torino, 2010, 575 s.; R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1969, 707 ss.; R. Rosapepe, Effetti dei confronti del fallito, in (a cura di) V. Buonocore-A.Bassi, Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, 2010, 236.).
A prescindere dalle varie teorie sull'inquadramento giuridico del fenomeno liquidazione giudiziale [in termini, sotto il profilo oggettivo, di pignoramento universale, esecuzione collettiva, separazione patrimoniale o vincolo di destinazione, e sotto il profilo soggettivo di interdizione o comunque perdita della capacità di agire (Il dibattito è ben riassunto in F. Ferrara jr.-A Borgioli, Il fallimento, 1995, 313 ss., ove all'esito si conclude, con soluzione generalmente condivisa, che si debba parlare di patrimonio separato, destinato al soddisfacimento dei creditori)], è pacifico (giusta la compiuta disciplina legislativa al riguardo), invece, che uno dei suoi effetti consista nella sottrazione al debitore (non della capacità di agire, ma) della disponibilità del suo patrimonio (ciò a far data dalla pubblicazione della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale (art. 49, comma 4, CCI) e, dunque, a prescindere dagli adempimenti pubblicitari del provvedimento giurisdizionale.), quanto a godimento, amministrazione e disposizione dei beni, diritti e facoltà che ne fanno parte (cd. spossessamento) (correlativamente l'amministrazione del patrimonio del fallito/debitore viene assunta dal curatore (art. 128 CCI): costui, dunque, in ragione del suo ufficio gestisce il patrimonio fallimentare sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori), da taluno estesa anche ai comportamenti omissivi che abbiano riflessi patrimoniali (come ad esempio gli atti interruttivi della prescrizione, o il decorso dell'usucapione a favore di terzi).
L'effetto suddetto discende dal principio fondamentale della par condicio creditorum. Questo principio generale, inespresso sia nella legge fallimentare che nel CCI, si esplicita nel criterio della “universalità oggettiva” [l'universalità dell'esecuzione fallimentare comporta la soggezione di tutti i creditori al cd. “concorso sostanziale”, così da consentire a ciascuno di partecipare alla spartizione del patrimonio liquidato in posizione paritetica (art. 2740 c.c.), sia pur nel rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.)] contenuto nell'art. 142 CCI diretto appunto ad impedire all'imprenditore di amministrare e disporre del proprio patrimonio a far data dal momento in cui entra in procedura, cui fanno da corollario l'art. 143 CCI (perdita della legittimazione processuale del fallito e subentro del curatore in tutte le controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale, fatto salvo l'intervento del fallito nei casi previsti dalla legge o in relazione a possibili imputazioni di bancarotta), l'art. 144 CCI (inefficacia relativa di atti e pagamenti posti in essere o ricevuti dal fallito dopo il fallimento) (o anche prima se compiuti a determinate condizioni e nel periodo sospetto (art. 166 CCI).) e l'art. 145 CCI (inefficacia relativa delle formalità dirette a rendere opponibili gli atti compiuti prima del fallimento, sempre a presidio della intangibilità del patrimonio fallimentare). Ed è, altresì, correlato al principio della “universalità soggettiva” espresso dall'art. 151 CCI, per il tramite dei criteri della cd. cristallizzazione della massa passiva (comma 1, ai sensi del quale il fallimento apre il concorso di tutti creditori sul patrimonio del fallito) e della esclusività del concorso formale (comma 2), per cui, una volta che il creditore abbia scelto di far valere il proprio credito all'interno della procedura concorsuale, soggiace alle regole fissate nei sub-procedimenti di accertamento del passivo (artt. 200-210 CCI) e ripartizione dell'attivo (artt. 220-232). E ciò anche negli ormai rari casi di esonero dal concorso sostanziale di cui all'art. 151 CCI (comma 3), che sancisce il divieto assoluto di azioni esecutive e cautelari sui beni compresi nel fallimento, fatte salve solo le eccezioni stabilite dalla legge, tra le quali - per ciò che qui interessa - non figura più l'esecuzione esattoriale, avendo l'art. 16 D.Lgs. n. 46/1999 eliminato la disposizione dell'art. 51 d.P.R. n. 602/1973, per cui l'azione esecutiva del concessionario per la riscossione delle imposte dirette poteva essere esercitata anche in pendenza di fallimento. Ed è così che il principio della “universalità soggettiva” e del corrispondente principio del cd. “concorso formale” trova concreta esplicazione nel disposto dell'art. 150 CCI, che priva i creditori della possibilità di aggredire autonomamente il patrimonio del debitore durante tutto il tempo in cui la procedura è aperta. La legittimazione processuale del debitore assoggetto a liquidazione giudiziale
Il fallito/debitore - quale conseguenza della perdita dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di apertura della liquidazione giudiziale - è privato della capacità di stare in giudizio nelle controversie che vertono in materia di diritti patrimoniali compresi nel fallimento (cfr. C. Vocino, Il fallito nel suo processo, in Dir. fall., 1972, I, 249; G. De Semo, Perdita della legittimazione processuale del fallito e suoi limiti, in Riv. dir. civ.,1960, I, 312.), spettando la legittimazione processuale, attiva e passiva, per i giudizi a venire e per quelli in corso (tali sono quelle instaurate mediante notificazione dell'atto di citazione o deposito del ricorso anteriormente alla dichiarazione di fallimento.), esclusivamente al curatore, il quale appunto opera allo scopo di liquidare il patrimonio del debitore (sullo stretto legame tra le disposizioni contenute rispettivamente nell'art. 42 e nell'art. 43 l.fall., e per quanto ne consegue sul piano dell'estensione della legittimazione processuale del curatore, v., per tutti, G. De Ferra-L. Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1986, 30 ss. Nello stesso senso in giurisprudenza, cfr. Cass. 15 febbraio 1999,n. 1236, in Fallimento, 2000, 151. Il rilievo, come si vedrà anche nel prosieguo della trattazione, può dirsi oramai generalmente accolto.).
La correlazione tra il subentro del curatore nei processi [ovvero, la legitimatio ad processum attribuita al curatore (la legitimatio ad processum, come riflesso sul terreno del processo della capacità di agire, costituisce un presupposto processuale.)] e lo spossessamento del debitore sul terreno sostanziale (e, perciò, l'attribuzione allo stesso curatore della legitimatio ad causam. "La legittimatio ad causam (cd. legittimazione ad agire), corrispondendo alla titolarità attiva o passiva dell'azione, costituisce una condizione dell'azione".) è, dunque, evidente. Le due disposizioni (142 e 143 CCI) sono, cioè, perfettamente speculari. Tutto ciò che è inibito sul piano sostanziale non può essere gestito nemmeno dal punto di vista processuale. Ne discende che il fallito può continuare a stare personalmente in giudizio sia nelle controversie di carattere strettamente personale, ancorché dall'esito delle stesse possano discendere anche effetti di tipo patrimoniale (al più potendosi ipotizzare, in relazione a tali riflessi, un intervento del curatore), sia nelle controversie concernenti i rapporti che l'art. 146 CCI esclude dalla massa attiva (Cass. 20 giugno 2000, n. 8379). Per la medesima ragione, la legittimazione processuale del curatore persiste con riferimento ai cespiti originari o sopravvenuti che non siano stati acquisiti o vengano abbandonati dalla curatela per effetto di un'espressa autorizzazione degli organi della procedura quando i costi di acquisto e di conservazione o l'attività di liquidazione non rivelino convenienza, quale implicita conseguenza del fatto che tali beni sono o divengono estranei al patrimonio fallimentare.
Le decisioni della Suprema corte riconoscono, inoltre, un'eccezione alla privazione della legittimazione processuale passiva del debitore allorché la controparte, nel riassumere un giudizio interrottosi a seguito dell'apertura della liquidazione, o nell'intraprendere un nuovo giudizio, dichiari esplicitamente di mantenersi estraneo alla procedura concorsuale, optando esclusivamente per il conseguimento di un titolo non opponibile ex se alla massa, ma da far valere nei confronti del sottoposto alla liquidazione quando questi sarà tornato in bonis per effetto della chiusura della procedura (Cass. 8 gennaio 2016, n. 128; Cass. 5 febbraio 2014, n. 2608; Cass. 26 giugno 2012, n. 10640; Cass. 5 agosto 2011, n. 17035; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28481; Cass. 5 marzo 2003, n. 3245; Cass. 20 ottobre 1972, n. 3165)
Questa ipotesi, peraltro, assume rilievo marginale nel caso del rapporto fiscale, avendo il contenzioso tributario carattere impugnatorio (Cass. 11 agosto 2016, n. 16956); ne consegue che l'amministrazione non ha interesse a coltivare il giudizio in quanto la sua mancata instaurazione e la sua estinzione hanno come conseguenza la definitività dell'atto impositivo (Che il processo tributario sia annoverabile tra i processi di “impugnazione-merito” è stato di recente affermato da Cass. SU 24 dicembre 2019, n. 34447, par. 4 della motivazione, nonché confermato da Cass. SU 14 aprile 2020, n. 7822, par. 5.1. e 6.1. della motivazione.).
Il caso più interessante ai fini del presente lavoro si verifica quando il curatore è rimasto del tutto inerte, dimostrando totale disinteresse rispetto alle relative controversie. Secondo l'orientamento ancora diffuso in giurisprudenza, infatti, il debitore recupererebbe una legittimazione processuale “suppletiva” rispetto a quei rapporti di diritto patrimoniale che, pur essendo in astratto suscettibili di essere inclusi nella liquidazione giudiziale, non vi rientrino in concreto, essendosene disinteressati gli organi della procedura, per aver questi del tutto omesso di agire o resistere in giudizio per la tutela dei medesimi. Di fronte alla deliberata inerzia degli organi preposti alla liquidazione, il debitore dovrebbe ritenersi capace di provvedere, per proprio conto e a proprie spese, alla tutela giudiziale dei relativi rapporti, senza che la controparte o il giudice possano eccepire o rilevare opporgli la carenza di legittimazione (per tutti, cfr. Ferrara jr.-A Borgioli, Il fallimento, cit., 484.).
Con specifico riferimento alle controversie relative all'accertamento di crediti tributari sorti prima della dichiarazione di fallimento (l'anteriorità al fallimento va accertata con riguardo al fatto generatore del credito (al titolo, causa, o situazione giuridica anteriore: Cass. 29 settembre 2004, n. 19533) e non in base al momento della liquidazione), occorre evidenziare, infatti, che, a seguito della dichiarazione di fallimento, il contribuente non è privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario* e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio (una eventuale esdebitazione del fallito (che anche nel CCI non ha carattere automatico), nel liberarlo dai debiti tributari, non cancellerebbe, ad esempio, né le conseguenze penali dell'illecito tributario non aventi natura patrimoniale ma personale, né il fatto in sé stesso della violazione tributaria commessa, come accadimento del quale occorra tener conto ai fini della determinazione della sanzione applicabile in occasione di eventuali successive violazioni, stante quanto disposto dall' art. 7, comma 2,d.lgs. n. 472/1997. Di qui il persistente interesse del fallito nonostante la possibilità di ottenere l'esdebitazione al termine della procedura), che conseguono alla “definitività” dell'atto impositivo (Cass. 30 aprile 2014, n. 9434; Cass. 18 marzo 2014, n. 6248; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4253; Cass. 14 maggio 2002, n. 6937; Cass. 20 novembre 2000, n. 14987).
Ciò comporta che la dichiarazione di liquidazione giudiziale non priva il contribuente del legittimo diritto di impugnare gli atti impositivi relativi a periodi anteriori alla dichiarazione di fallimento, soprattutto quando la definizione del rapporto tributario sia suscettibile di effetti penali. A tal fine, gli accertamenti tributari devono essere sempre portati a conoscenza del fallito, anche da parte del curatore, se non vi abbia previamente provveduto l'ente impositore*.
Tutto ciò con la precisazione che l'accertamento tributario relativo a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta deve essere notificato non solo al curatore, in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività o dei beni acquisiti al fallimento, ma anche al contribuente.
Pur continuando le obbligazioni tributarie a far capo al fallito, è il curatore, che ha la esclusiva disponibilità delle scritture contabili ex art. 88 l.fall. (ora art. 197 CCI), a dover fornire informazioni all'amministrazione finanziaria, con la conseguenza che legittimamente questa invia al curatore un questionario con richiesta di dati e notizie, ai sensi dell'art. 32, comma 1, n. 4, d.p.r. n. 600/1973[8]. La dissociazione tra titolarità e legittimazione consequenziale alla dichiarazione di fallimento comporta infatti, che, una volta dichiarato il fallimento, l'esercizio dei poteri istruttori ha quale suo naturale destinatario il curatore. È il curatore a succedere al fallito nella gestione dell'impresa e nella tenuta della contabilità; per cui non può che essere il curatore stesso il soggetto che, meglio del fallito, può e deve collaborare con l'organo verificatore. L'esercizio dei poteri istruttori da parte dell'ente impositore ha, dunque, come destinatario il curatore al quale dovrà, conseguentemente, essere rivolta la richiesta di dati e chiarimenti di natura contabile, nonché di esibizione dei libri stessi (Cass. 27 novembre 2002, n. 16793). Va da sé che eventuali richieste di chiarimenti ben possono continuare ad essere rivolte al fallito essendo lui meglio del curatore in grado di fornire informazioni utili per verificare il corretto assolvimento degli obblighi fiscali formali e, soprattutto, sostanziali nel periodo precedente la sentenza di fallimento. Peraltro, ove l'imprenditore in seguito fallito non abbia esibito la documentazione contabile specificamente richiesta dall'amministrazione finanziaria, ciò non determina l'inutilizzabilità della stessa se prodotta in causa dal curatore fallimentare, trattandosi di soggetto distinto da quello che ha posto in essere uno specifico comportamento doloso volto ad eludere la verifica (Cass. 9 novembre 2018, n. 28711).
Sebbene l'ipotesi dovrebbe essere più teorica che pratica stante l'obbligo per l'amministrazione di notificare la pretesa tributaria contemporaneamente al curatore e al fallito, può accadere che quest'ultimo venga a conoscenza della pretesa impositiva soltanto a seguito della comunicazione del curatore e quasi sempre quando sono già scaduti i termini per l'impugnazione.
Il giudice tributario dovrà tener conto di tali circostanze e potrà ritenere innanzitutto che la mancata notificazione dell'atto al fallito abbia impedito l'inizio del decorso del termine per proporre il ricorso (La mera comunicazione da parte di un soggetto diverso dall'ente impositore non costituisce una notifica rituale, né può essere considerato un atto ad essa equipollente ed idoneo per il decorso del termine.). L'accertamento operato dall'ufficio non può che decorrere, per il fallito, dal momento in cui sia eseguita nei suoi confronti la notifica del relativo avviso, ed egli sia così posto nell'effettiva condizione di difendersi. Ciò comporta la non definitività di un avviso di accertamento non notificato all'amministratore di una società fallita, ma al solo curatore (Cass. 18 marzo 2016, n. 5392. Cass. 19 marzo 2007, n. 6476).
Alternativamente (M. Miccinesi, (voce) Fallimento nel diritto tributario, Dig. disc. priv., sez. comm., V, 1990, 476, ritiene, infatti, che la legittimazione processuale del fallito sussista anche nell'ipotesi in cui l'atto impositivo sia notificato solo al curatore rimasto inerte) si potrebbe ritenere che il dies a quo per impugnare decorra dal momento in cui il fallito ha ricevuto la comunicazione da parte del curatore e correlativamente che, in mancanza di notifica anche al fallito, per quest'ultimo il termine non sia cominciato a decorrere fino all'effettiva conoscenza dell'esistenza dell'atto impugnabile (In linea con quest'ultima interpretazione la giurisprudenza ha già ritenuto che, in caso di omessa notifica dell'atto impositivo, il ricorso tributario è proponibile, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dall'effettiva conoscenza del provvedimento da parte del fallito: Cass. 28 aprile 1997, n. 3667).
Sotto quest'ultimo profilo, è applicabile la regola generale dettata dall'art. 153, comma 2, c.p.c., secondo cui “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell'art. 294, secondo e terzo comma”. L'art. 294, comma 2, c.p.c. dispone, a sua volta, che “Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell'impedimento, e quindi provvede sulla rimessione in termini delle parti”. Queste norme si applicano ancheal processo tributario in virtù del rinvio ad esse contenuto nell'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992.
A tal riguardo, pur in mancanza di un'espressa disposizione normativa in tal senso, si è, infatti, ritenuto:
Poiché il debitore rimane il soggetto passivo del rapporto tributario, nel caso di liquidazione giudiziale è munito di una concorrente legittimazione ad agire e resistere. Occorre, però, tener ben presente che la legittimazione del fallito si presenta sempre come una “deroga eccezionale” all'esclusività della legittimazione del curatore a proporre ricorso davanti alla commissione tributaria, giustificata solo in determinate circostanze.
La prima ipotesi di deroga all'esclusività della legittimazione del curatore è costituita dalla facoltà per il debitore assoggettato a liquidazione giudiziale di intervenire nel giudizio per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico oppure quando l'intervento è espressamente previsto dalla legge (art. 143, comma 1, CCI).
La lettura a contrario della norma induce a ritenere che una legittimazione processuale di tipo suppletivo del fallito va esclusa nel giudizio in cui sia parte il curatore, quale che sia in concreto la sua condotta processuale, con la conseguenza che, in detto giudizio, l'attività processuale del fallito, sub specie dell'intervento adesivo autonomo, può ritenersi ammissibile solo se e nei limiti in cui sia riconducibile all'ipotesi d'intervento prevista dall'art. 143, comma 2, CCI e, dunque, per i soli giudizi in cui dalle questioni dedotte dipenda direttamente la possibilità dell'inizio di un procedimento penale per bancarotta a carico di lui. Al di fuori di tale eccezione, eventuali interventi del fallito nelle cause in cui sia parte il curatore sono configurabili soltanto sub specie dell'intervento adesivo dipendente, alla cui stregua va escluso il diritto del fallito medesimo di impugnare la sentenza autonomamente e indipendentemente dall'impugnazione del curatore.
Ne consegue che al contribuente-fallito non dovrebbe essere consentita la possibilità di impugnare l'atto impositivo laddove il curatore abbia autonomamente promosso il giudizio e ciò sebbene si possa trattare di questione dalla quale può dipendere un'imputazione di bancarotta a carico del primo. E ciò anche quando il fallito ritenga che il ricorso proposto dal curatore (per i motivi ivi svolti) non sia idoneo a contestare utilmente l'atto impositivo emesso nei suoi confronti. Questa opzione interpretativa non appare lesiva del diritto di difesa del fallito, poiché in seguito alla illegittimità costituzionale dell'art. 56, ult. comma, d.p.r. n. 600/1973, è escluso che l'accertamento tributario faccia stato incondizionatamente in sede penale. È intuibile, peraltro, che non sempre da una violazione fiscale può derivare un'imputazione per bancarotta
La seconda è relativa all'ipotesi di inerzia del curatore rispetto all'atto impositivo notificatogli, circostanza che legittima il fallito ad impugnare l'atto.
Sul punto giova osservare che per inerzia del curatore si intende il totale disinteresse degli organi fallimentari in ordine all'opportunità di proporre o meno ricorso. Di conseguenza è stato affermato che, spettando al fallito una legittimazione processuale di tipo suppletivo soltanto nel caso di totale disinteresse degli organi fallimentari, deve escludersi tale legittimazione allorché il curatore abbia preso parte al processo, indipendentemente dalla sua concreta condotta processuale. Come il debitore non può, di regola, intervenire nelle cause in cui sia costituito il curatore, allo scopo di integrare o modificare la difesa dei diritti patrimoniali compresi nella liquidazione, così pure egli non può promuovere nuovi giudizi per gli stessi fatti che formano oggetto di una causa pendente, iniziata o proseguita dal curatore o nei confronti di quest'ultimo. In questa ipotesi, la temporanea perdita di capacità processuale del fallito è indiscutibile, atteso che il fallimento è il successore processuale del fallito (e quindi, per un certo periodo e in relazione a determinati rapporti, è il fallito stesso), onde sarebbe illogico (oltre che inutile e foriero di possibili conflitti di giudicati) ottenere da due giudici diversi (quello ordinario e quello fallimentare) due pronunce in relazione ai medesimi rapporti e nei confronti della medesima parte (il fallito e il fallimento). L'improponibilità di una siffatta domanda, come meglio si vedrà in prosieguo, può essere eccepita da chiunque.
Nel caso in cui il curatore abbia proposto il ricorso tributario avverso l'atto impositivo, il fallito può, pertanto, svolgere attività processuale unicamente nei limiti dell'intervento ex art. 143, comma 2, CCI, cioè per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico, o nei limiti dell'intervento adesivo dipendente, che comunque non gli attribuisce il diritto di impugnare la sentenza in autonomia dal curatore (Cass. 14 maggio 2012, n. 7448. L'ammissibilità dell‘intervento adesivo dipendente nel processo tributario è pacificamente riconosciuto, anche in via di obiter dictum, dalla giurisprudenza più recente: Cass. 9 agosto 2017, n. 19817; Cass. 28 febbraio 2018, n. 4597; Cass. 6 luglio 2018, n. 17926.).
Nella delineata prospettiva, il curatore rimane titolare della qualità di “giusta parte” della controversia (ha lui la c.d. legitimatio ad causam) e, come tale, si radica in capo al curatore il potere di gestire la res litigiosa (Si è già detto nel par. 2 che, per effetto dell'apertura della liquidazione giudiziale il fallito, perde la legittimazione attiva e passiva, che passa al curatore.); il fallito altro non farebbe che aderire alla domanda proposta dal curatore senza per questo assumere la qualità di “legittimo contraddittore” (È noto che il soggetto è non solo parte, ma “giusta parte” (o legittimo contraddittore) quando sia o almeno sia affermato soggetto dal lato attivo o passivo del rapporto sostanziale dedotto: E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, Milano, 2002, 86).
Per configurare la legittimazione straordinaria del fallito non è sufficiente che la curatela si sia astenuta da iniziative processuali, ma occorre che si sia “totalmente disinteressata” della vicenda processuale, rimettendone esplicitamente o implicitamente la gestione al fallito stesso (Cass. 25 ottobre 2013, n. 24159). Non può parlarsi, dunque, di inerzia quando la mancata attivazione degli organi della procedura è conseguenza di una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia (Cass. 3 aprile 2018, n. 8132; Cass. 6 luglio 2016, n. 13814) quando cioè l'inattività della curatela rappresenta l'esito di una scelta ponderata (ad esempio conseguita ad una valutazione di inopportunità o di scarsa consistenza della pretesa azionata), se del caso, autorizzata dagli organi fallimentari, dopo aver valutato l'opportunità di tutela giurisdizionale nonché i margini di tutela ottenibili in sede contenziosa e le ragioni ostative alla proposizione del ricorso. L'improponibilità di una siffatta domanda, come meglio si vedrà in prosieguo, può essere eccepita da chiunque.
Ne consegue che la diligente e corretta valutazione dei margini di insuccesso connesse all'impugnazione giudiziale impedisce la configurabilità della condotta “inerte”. La rinuncia ad impugnare costituisce, invero, in difetto di contrari elementi di giudizio, una forma di esercizio del potere processuale e non una manifestazione di disinteresse dei confronti della difesa giudiziale. Perciò tale rinuncia non è idonea a giustificare la legittimazione del fallito a gestire il rapporto tributario di cui la curatela si sia “disinteressata”.
Poiché quando la rinunzia all'azione sia stata ponderata dagli organi della procedura non è ravvisabile l'inerzia legittimante il recupero della capacità processuale del fallito, dovrebbe ritenersi che il disinteresse di fatto sia sufficiente a superare il disposto dell'art. 143, comma 1, CCI (Sul punto appare particolarmente significativa Cassazione, 5 novembre 1990, n. 10612, in Fallimento, 1991, 661, ove si legge: “il fallito conserva la capacità processuale rispetto a quei rapporti di diritto patrimoniale che, pur essendo suscettibili di essere acquisiti al fallimento, di fattonon vi rientrano per essersene gli organi fallimentari disinteressati, omettendo di agire in giudizio per la tutela dei medesimi”. Dalle parole della Cassazione emerge chiaramente l'ammissione di una rinuncia di fatto a specifiche componenti dell'attivo fallimentare, idonea a fondare, rispetto a quelle medesime componenti, la capacità processuale del fallito. Ma si v. anche Cass. 6 luglio 2016, n. 13814, che legittima il fallito in caso di “inerzia non motivata”.).
Diversamente, infatti, non sarebbe mai ravvisabile la totale inerzia del curatore. Residuerebbe, invero, soltanto l'ipotesi in cui gli organi della procedura abbiano espressamente autorizzato il fallito a coltivare l'azione a proprie spese, avendola ritenuta eccessivamente onerosa ed incerta; in questo caso, non essendovi stata alcuna ‘derelizione' dell'azione, la procedura potrebbe pur sempre beneficiare dell'esito favorevole per il fallito.
Lo stesso principio è stato enunciato, sia pure sotto diversa angolazione, con riferimento alla possibilità da parte del fallito, in caso di inerzia del curatore, di presentare l'istanza di definizione agevolata delle liti fiscali pendenti, prevista dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sempre sul rilievo che il fallito non è privato, per effetto della dichiarazione di fallimento, della qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, restando esposto ai riflessi anche sanzionatori che conseguono alla definitività dell'atto impositivo.
L'assoluto disinteresse della curatela, come condizione negativa perché possa riconoscersi al fallito la legittimazione supplementare ed eccezionale, esige una rigorosa e specifica allegazione ed un accertamento preliminare, altrimenti generandosi una incontrollabile serie di giudizi a catena e una confusione di ruoli (o peggio l'uso strumentale di tale possibilità, per finalità estranee al corretto ed imparziale svolgimento della procedura), il cui onere di allegazione specifico, sostenuto con rigore probatorio, spetta a colui che affermi i fatti di disinteresse e chieda di surrogarsi alla curatela, poichè “la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all'attore allegarla e provarla” ( Cass. SU 16 febbraio 2016, n. 2951). La rilevabilità del difetto di capacità processuale del debitore assoggettato a liquidazione giudiziale
A questo punto, occorre interrogarsi sull'an e sul quomodo della rilevabilità del difetto di legittimazione processuale del debitore il quale, dopo l'apertura della procedura, abbia proposto ricorso avverso l'atto impositivo notificato successivamente alla dichiarazione di fallimento.
Il triplice punto di partenza è costituito: a) dal fatto che, in seguito alla dichiarazione di fallimento, la situazione del fallito non può essere qualificata in termini di vera e propria incapacità processuale, piuttosto dovendosi qualificare la sua capacità come avente carattere suppletivo o vicario, tassativamente subordinata al contegno di inerzia o disinteresse mostrato dagli organi della procedura nei confronti del rapporto o bene della vita concretante la res in iudicium deducta; b) l‘estensione del difetto di legittimazione, salvo l‘inerzia non motivata, anche alle controversie da instaurare dopo il fallimento si coglie dal comma 1 dell'art. 143, secondo il quale nelle controversie “anche in corso” relative a diritti patrimoniali del fallito sta in giudizio il curatore; c) avviata l'azione da parte del fallito successivamente al fallimento non può trovare applicazione l'art. 143, comma 3, CCI poiché la controversia non è pendente.
La giurisprudenza di legittimità, ritenendo che non può attribuirsi carattere assoluto alla perdita della capacità processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento, reputa conseguentemente che il difetto di legittimazione processuale del fallito possa essere eccepita esclusivamente dal curatore nell' interesse della massa dei creditori. Con il corollario che, in mancanza, il processo prosegue regolarmente ed al giudice è inibito respingere la domanda per difetto di legittimazione. Sicché nell'inerzia e disinteresse degli organi della procedura fallimentare per la controversia, il fallito è legittimato ad agire o resistere per impedire che il terzo possa conseguire un titolo da far valere nei suoi confronti una volta tornato “in bonis”. La legittimazione esclusiva del curatore a far valere il difetto di capacità processuale dell'attore esclude che lo stesso possa essere rilevato d'ufficio o su eccezione della controparte. A dispetto di quanto lascia intendere la lettera dell'art. 143 CCI, il fallito non deve, dunque, ritenersi spogliato della capacità di stare in giudizio rispetto alle controversie inerenti a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento. Detto altrimenti, intanto la mancata attivazione o l'impossibilità di attivarsi da parte del curatore può assumere rilievo al fine di fondare la legittimazione suppletiva del fallito in quanto si ritiene che l'incapacità processuale di quest'ultimo, essendo relativa alla massa dei creditori, rimanga subordinata all'attivarsi dell'organo gestorio della procedura, sicché venendo a mancare tale attivazione, la capacità del fallito di compiere atti processuali per proprio conto, pur virtualmente compromessa dall'apertura della procedura, rimarrebbe nella sostanza intatta. Ad uguali conclusioni perviene la giurisprudenza nel caso in cui la dichiarazione di fallimento sopravvenga ad un giudizio già instaurato dal fallito. Anche in questa ipotesi, dunque, la perdita della capacità processuale del fallito, a seguito della dichiarazione di fallimento, non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto è consentito eccepirla, sicché, se il curatore rimane inerte, il processo continua validamente tra le parti originarie. L'orientamento appena citato è stato sottoposto in dottrina ad un riesame critico, volto in particolare a rendere la cd. legittimazione suppletiva del fallito compatibile con il carattere assoluto della perdita di capacità processuale del medesimo fallito, per il quale depone l'interruzione automatica del processo che, ai sensi dell'art. 143, comma 3, consegue oggi alla dichiarazione di fallimento. Epperò non sembra influire sulla soluzione del problema il comma 3 dell'art. 143 CCI sia perché l'interruzione è concepibile solo per i giudizi in corso, sia in quanto una cosa è il potere officioso di interrompere il giudizio ed altra quello di dichiarare d'ufficio la carenza di legittimazione ad processum di una parte. Resta confermato, dunque, che il difetto di capacità processuale del fallito è relativo tanto nel caso in cui la controversia sia stata già instaurata al momento della dichiarazione di fallimento, quanto qualora sopravvenga all'apertura della procedura. Il che, del resto, a ben vedere, è nient'altro che una conseguenza del fatto che, nonostante l'apertura a proprio carico della procedura fallimentare, il fallito conserva la capacità di agire, di cui la legitimatio ad processum rappresenta in definitiva il risvolto processuale, rendendo allora chiaro che quest'ultima, come la prima, permane in capo al fallito nonostante il fallimento, con le sole limitazioni rese necessarie dalle finalità della procedura. Tanto è vero che la stessa Cassazione, nell'affermare che l‘incapacità processuale del fallito deve intendersi meramente relativa, osserva che ciò è conseguenza del fatto che l'art. 43, comma 1, viene “ad esplicitare, con riferimento all‘ambito processuale, l‘ulteriore previsione di cui alla l.fall., art. 44, che prevede la generale inopponibilità ai creditori fallimentari di ‘tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti‘ (comma 1), nonché dei ‘pagamenti ricevuti dal fallito‘ (comma 2) dopo la sentenza dichiarativa di fallimento”. Quanto appena esposto, come brevemente accennato in precedenza (v. par. 3.1.), soffre eccezione nel caso in cui il fallimento sia parte della controversia e sia perciò destinataria della sentenza di merito e la curatela abbia espresso, a giustificazione del maturato disinteresse a ricorrere per cassazione, una propria negativa valutazione, poiché, in tal caso, trattandosi di rapporto ormai acquisito al fallimento, è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito ed il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto, sicché è rilevabile anche d‘ufficio e non rientra nella sola disponibilità dal curatore.
Ne deriva che l'improponibilità della domanda azionata dal fallito successivamente all'entrata in procedura può rilevata d'ufficio sia quando il curatore ha egli stesso avviato il processo, sia quando gli organi del fallimento si siano concretamente attivati e abbiano ritenuto non conveniente intraprendere o proseguire la controversia, sia quando vocati in ius (attraverso il meccanismo del litisconsorzio meramente processuale) siano contestualmente il fallito e il curatore. Il discrimen è costituito, quindi, “dall'interesse” manifestato dalla curatela, nel senso che laddove questa sia “attivata” la carenza di legittimazione processuale del fallito può essere rilevata d‘ufficio. Il carattere relativo del difetto di capacità processuale residua, pertanto, solo nelle ipotesi di inerzia non motivata.
Il difetto di legittimazione processuale del fallito va, peraltro, tempestivamente eccepito in quanto la mancata impugnazione sul punto della sentenza che ha accolto il ricorso proposto dal fallito comporta giudicato implicito sulla decisione in ordine alla legittimazione di questi.
Senza che questa soluzione, come si vedrà di qui ad un momento (v. par. 4.1.), sia in grado di pregiudicare le esigenze di (legittima) tutela del fallito-contribuente.
Il meccanismo della rilevabilità d'ufficio e quello residuale della rilevabilità ad eccezione del curatore del difetto di legittimazione processuale del fallito dovrebbe, in linea di principio, costituire un valido presidio alle problematiche che di seguito si vanno ad affrontare, nel senso che non dovrebbero essere molti i processi che giungono a sentenza ad iniziativa del fallito (V. par. "L'inerzia del curatore", ove si è esclusa la possibilità per il contribuente-fallito di impugnare autonomamente l'atto impositivo anche qualora ritenga che il ricorso proposto dal curatore (per i motivi ivi svolti) non sia idoneo a contestare utilmente l'atto impositivo emesso nei suoi confronti. Si potrebbe, comunque, ipotizzare che il giudice della causa promossa dal fallito non abbia contezza alcuna del separato giudizio avviato dal curatore, sì da potersi dire che egli non sappia, né possa sapere, di aver a che fare con un soggetto privo della necessaria capacità di stare in giudizio (incapacità, questa, rilevabile anche d'ufficio). Anche se questo dovrebbe ascriversi ad una disfunzione della Commissione tributaria innanzi alla quale anche il curatore (per ragioni di competenza) è onerato a proporre il ricorso tributario.). E ciò, del resto, lo dimostra la casistica giurisprudenziale formatasi sul punto.
Come si vedrà, poiché il ricorso tributario del fallito può solo giovare alla massa, in caso di mancata notifica del ricorso alla curatela non è necessario che la commissione tributaria disponga l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 546/1992[2].
Ad ogni modo, il giudicato formatosi in esito al giudizio, sia se introdotto dal contribuente anteriormente all'apertura della procedura concorsuale, sia se proposto dal contribuente-fallito, non può ritenersi nullo né improduttivo di effetti, spiegando tuttavia efficacia esclusivamente nei confronti delle originarie parti costituite: le sentenze pronunciate nei giudizi in cui è stato parte soltanto il debitore-fallito non esplicano, infatti, alcuna efficacia nei confronti della massa dei creditori (alla quale sono inopponibili), potendo tale titolo giudiziale essere fatto valere soltanto nei confronti del fallito che abbia riacquistato la sua capacità tornando in bonis.
Questo principio sicuramente vale nel caso in cui la sentenza sia sfavorevole per il fallito: rispetto alla massa dei creditori, la pronuncia, infatti, costituisce res inter alios acta.
È, invece, difficile ammettere che alla curatela sia impedito di avvalersi degli effetti favorevoli della sentenza comunque ottenuta (vuoi per rinuncia, vuoi per inerzia del curatore, vuoi per autonoma iniziativa processuale del fallito) dal fallito. Questo principio è stato recentemente applicato dalla Suprema Corte, secondo cui il permanere della duplice, eccezionale, legittimazione a impugnare l'accertamento tributario, operante sotto il controllo del curatore secondo una logica di interesse della massa dei creditori, induce a ritenere che quest'ultimo, al fine di salvaguardare il medesimo interesse collettivo, possa avvalersi dell'esito favorevole dell' azione promossa dal solo contribuente fallito, eccependo il relativo giudicato, onde limitare la pretesa del concessionario insinuatosi al passivo per il recupero dell'intero credito tributario contestato.
Ma per la verità anche in precedenza è stato affermato che “la perdita della capacità processuale del fallito, a seguito della dichiarazione di fallimento, non è assoluta, ma relativa alla massa dei creditori, alla quale soltanto è consentito eccepirla, sicché, se il curatore rimane inerte, il processo continua validamente tra le parti originarie, tra le quali soltanto avrà efficacia la sentenza finale (salva la facoltà del curatore di profittare dell‘eventuale risultato utile del giudizio in forza del sistema di cui agli artt. 42 e 44 l.fall.)”.
Nella sostanza la possibilità per il curatore di approfittare del risultato favorevole ottenuto dal fallito dipende dal meccanismo di attrazione alla massa attiva di cui all'art. art. 142, comma 2, CCI, qui dovendosi aggiungere che la valutazione di convenienza è insita nel minor credito riconosciuto dal giudice munito di giurisdizione.
La facoltà del curatore di avvalersi del giudicato tributario favorevole ottenuto dal contribuente come, prima ancora, di rappresentare la pendenza della lite tributaria è finalizzata, dunque, a “salvaguardare” “l‘interesse collettivo” dei creditori (recte, l‘interesse di tutti gli altri creditori diversi dall‘erario). L‘interesse dell‘erario è affidato in tal modo all‘erario stesso nel senso che, rimasto soccombente nella controversia tributaria, non potrà in alcun modo dolersi dell‘eventuale riduzione o azzeramento integrale della sua pretesa nel caso in cui non abbia proposto impugnazione alla sentenza di primo grado sfavorevole.
L'altra ipotesi da considerare si verifica quando, notificato l'atto impositivo al curatore, questi lo abbia impugnato ed il fallito no. È certo che la sentenza pronunciata dal giudice tributario spieghi - nel caso in cui l'erario abbia proposto domanda di ammissione al passivo - i suoi effetti in sede di verifica dei crediti.
Ma quid iuris allorquando l'erario intenda far valere quella sentenza favorevole (anche o solo) nei confronti del fallito tornato in bonis? (Ovviamente la questione deve essere coordinata con l'esdebitazione che può conseguire alla procedura di liquidazione giudiziale e controllata e che riguarda, senza distinzione di sorta, tutti i crediti, ivi compresi quelli tributari (v. artt. 278-283 CCI)).
La premessa della soluzione sta nella legge del concorso e precisamente nell'art. 204, comma 5, CCI ai sensi del quale sia il decreto di esecutività dello stato passivo, sia le decisioni in cui abbiano a culminare i relativi giudizi d'impugnazione “producono effetti soltanto ai fini del concorso”.
Nella sostanza, il legislatore della riforma fallimentare del 2006, in parte qua rimasta immutata nel CCI, secondo l'opinione prevalente e da condividere, ha in sostanza accolto la ricostruzione sostenuta in dottrina, secondo la quale il procedimento di verificazione del passivo ha ad oggetto solo il diritto al concorso e al conseguente riparto e non dà luogo ad un accertamento avente efficacia di giudicato.
Questa regola, per evidenti ragioni di coerenza sistematica, deve essere estesa anche alle parentesi di cognizione extrafallimentare sui crediti chiamate ad assolvere a funzioni strumentali agli obbiettivi della verifica, come appunto deve dirsi per il giudizio promosso davanti alle commissioni tributarie su iniziativa della curatela fallimentare. Ne consegue che identicamente confinati entro il perimetro del fallimento e del concorso tra i creditori debbono intendersi gli effetti del dictum del giudice tributario, innanzi al quale il curatore ha impugnato l'atto impositivo evidentemente per regolare (stante la riserva di giurisdizione posta dall'art. 2 d.lgs. n. 546/1992) gli effetti della domanda di ammissione allo stato passivo. Chiusa la procedura, pertanto, quella sentenza non può essere opposta al fallito tornato in bonis.
Questa soluzione, del resto, è l'unica in grado di salvaguardare le esigenze di tutela del fallito-contribuente che, viceversa, essendo in questa ipotesi privato in senso assoluto della propria capacità processuale (v. par. 3.2.)*, si potrebbe trovare esposto alle conseguenze di una scelta che gli organi della procedura potrebbero adottare per carenza di interesse: si pensi, ad esempio, alla sentenza sfavorevole che il curatore si decida a non impugnare perché il credito erariale non è stato ammesso allo stato passivo o perché, comunque, non troverebbe capienza in sede di riparto.
Proprio alla luce della efficacia solo endofallimentare delle pronunzie sui crediti e delle sentenze tributarie rese nei confronti del curatore può, dunque, trovare spiegazione l'altrimenti difficilmente giustificabile esclusione del fallito della possibilità di contestare formalmente l'ammissione di questo o quel credito e, per i crediti tributari, di impugnare l'atto impositivo notificato al curatore e/o di proseguire il giudizio di questi avviato ogniqualvolta gli organi della procedura abbiano manifestato al riguardo una concreta carenza di interesse. Diversamente vi sarebbe una lesione dell'art. 24 Cost. perché nelle due ipotesi da ultime considerate, esclusa una partecipazione al giudizio diretta e personale del fallito, la tutela ivi indicata non sarebbe nemmeno assicurata dal curatore.
E ciò senza potersi omettere dal rilevare che l'opposta soluzione – quella cioè dell'opponibilità al fallito tornato in bonis della sentenza sfavorevole resa nei confronti del curatore - restituirebbe il frutto avvelenato di un'anacronistica concezione afflittiva del fallimento*, in stridente contrasto, peraltro, con il carattere strumentale dello spossessamento che, senza avere alcuna finalità sanzionatoria, è previsto - come il suo risvolto processuale - quale misura servente al perseguimento dell'obiettivo primario della procedura e, cioè, in funzione del soddisfacimento dei creditori.
L'inopponibilità al fallito della sentenza sfavorevole al curatore comporta, in definitiva, che il contribuente tornato in bonis possa recuperare la propria tutela a seguito della notificazione dell'atto successivo fondato sulla sentenza. Più precisamente, l'atto successivo può essere impugnato dinanzi alle commissioni tributarie, in funzione recuperatoria, per sostenere che il credito vantato dall'ente impositore non poteva essere iscritto a ruolo per inopponibilità della sentenza, con conseguente invalidità riflessa del primo atto successivo.
Nella rara ipotesi di duplice impugnazione dell'atto impositivo da parte del curatore e del fallito, dovrebbe trovare applicazione l'istituto della riunione dei processi (con identico oggetto) separatamente instaurati (sia il fallito sia il curatore dovrebbero rivolgersi alla stessa commissione tributaria provinciale, non influendo l'apertura della procedura sugli ordinari di competenza). Ciò dovrebbe depotenziare il rischio del possibile “conflitto” di giudicati, assicurando un'univoca decisione (nel caso di specie, non è ravvisabile una vera e propria situazione di conflitto di giudicati tra loro incompatibili non tanto e non solo in ragione della loro differente proiezione soggettiva, ma anche e soprattutto perché la sentenza pronunciata vs il curatore non può produrre effetti fuori dal concorso). Difficilmente, infatti, è ipotizzabile un contrasto tra le posizioni dei due possibili ricorrenti, vale a dire del curatore e del fallito, perché entrambi i ricorsi dovrebbero logicamente essere finalizzati ad ottenere una sentenza di annullamento della pretesa tributaria.
Sennonché può accadere che le cause, per un qualsiasi motivo, non vengano riunite o che, pur riunite, non giungano ad uguali esiti stante la natura impugnatoria del giudizio tributario e, quindi, il vincolo derivante dai motivi di impugnazione.
In questa ipotesi può succedere che il fallito ottenga una sentenza più favorevole rispetto a quella pronunciata nei confronti del curatore. Non solo perché il giudicato fa stato tra le parti ma soprattutto perché la sentenza emessa vs il curatore è destinata a spiegare effetti soltanto all'interno del concorso (v. par. 4.1.), occorre giocoforza ammettere che il giudicato formatosi in quest'ultimo giudizio non può essere opposto dal fisco al contribuente tornato in bonis, nei cui confronti risulti pronunciata altra sentenza del giudice tributario, anch'essa passata in giudicato, di annullamento dell'atto impositivo. Viceversa, la sentenza favorevole ottenuta dal fisco vs il curatore spiega i suoi effetti solo nella procedura concorsuale*, senza che, in questa ipotesi, il curatore possa avvantaggiarsi del risultato favorevole ottenuto dal fallito stante la “prevalenza” gli effetti del giudicato formatosi inter partes (fisco-curatore).
Ovviamente alcun problema (di coordinamento) si porrà nel caso in cui entrambe le sentenze siano di rigetto del ricorso tributario.
Ma può anche accadere che il curatore ottenga una sentenza più favorevole rispetto a quella pronunciata nei confronti del fallito. In questa ipotesi, il fallito tornato in bonis non potrà rivendicare per sé il giudicato favorevole formatosi nei confronti della procedura concorsuale, nel cui esclusivo ambito è destinato a spiegare i suoi effetti. Il creditore, pertanto, nemmeno potrà ottenere l'ammissione a passivo sulla base di una sentenza a lui favorevole ma inopponibile alla massa, in quanto resa nei soli confronti del fallito in data successiva alla dichiarazione di insolvenza. Addenda
Le diverse alternative sopra indicate condizionano i limiti soggettivi dell'efficacia dell'accertamento del diritto contenuto nella sentenza di merito:
Ciò significa anche che la notifica dell'atto impositivo solo nei confronti del fallito ne determina l'inopponibilità alla procedura fallimentare.
Con riguardo a quest'ultima evenienza, è stato precisato che l'accertamento fiscale avente ad oggetto obbligazioni tributarie i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente ovvero nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, ove sia stato notificato soltanto al fallito, e non anche al curatore del fallimento, conserva la sua validità, ma è inefficace nell'ambito della procedura fallimentare, né può la mancanza di legittimazione del fallito essere rilevata d'ufficio (non avendo la curatela potuto esprimere alcuna valutazione riguardo ad un atto che non le è stato notificato). Tale accertamento, tuttavia, conserva la sua validità ed infatti, qualora il fallito, tornato “in bonis“, abbia ricevuto la notifica di un avviso di liquidazione dell'imposta, può contestare l'accertamento impugnandolo assieme all'avviso di liquidazione, in ragione del fatto che il primo avviso, non essendo stato notificato al curatore, ossia a colui che era dotato della legittimazione ad impugnarlo in pendenza della procedura concorsuale, consente l'azione giudiziale a colui che ha riacquistato la capacità d'impugnarlo.
Siamo in questa ipotesi al cospetto di una (dubbia) tutela di merito in chiave recuperatoria*, astrattamente, invece, in tutti quei casi in cui il fallito tornato in bonis intenda recuperare – con l'impugnazione di un atto successivo a lui notificato - la tutela che si sarebbe potuta esperire nel caso in cui il contribuente avesse avuto conoscenza della cartella e dell'intimazione notificati solo al curatore (per la configurabilità della tutela di merito in chiave cd. recuperatoria, cfr. Cass. SU 14 aprile 2020, n. 7822).
Per concludere può, quindi, affermarsi che l'efficacia del giudicato formatosi nei confronti del curatore, non può essere estesa al fallito, neppure uno volta tornato in bonis, atteso che il debitore-contribuente non ha mai assunto la qualità di parte in quel giudizio, non tanto perché tale giudicato incontra i limiti soggettivi di cui all'art. 2909 c.c., ma soprattutto perché la sentenza emessa nei confronti del curatore spiega effetti soltanto ai fini del concorso ex art. 204, comma 5, CCI.
Come si è anticipato nel precedente paragrafo, la notifica dell'atto impositivo solo nei confronti del fallito ne determina l'inopponibilità alla procedura fallimentare.
Ma a bene vedere se l'erario non intende far valere le proprie pretese verso il fallito nelle forme dell'istanza di ammissione allo stato passivo, la notifica dell'atto impositivo al curatore non dovrebbe consentirgli di contestare le ragioni davanti al giudice tributario, che anzi svolgendo una tale iniziativa, a fronte della perdurante inerzia dell'amministrazione finanziaria in sede fallimentare ovvero dell'impossibilità di presentare la domanda oltre i termini di cui all'art. 208 CCI, correrebbe il rischio di risultare del tutto inutile, se non dannosa (si pensi alle spese di massa per il compenso dell'avvocato e per il pagamento del contributo unificato), per la massa.
Più a monte, risulta decisivo l‘art. 100 c.p.c. ai sensi del quale l‘interesse concreto ed attuale del curatore ad agire, mediante l‘impugnazione dell‘avviso di accertamento, insorge solo a fronte della (e successivamente alla) manifestazione della volontà dell‘amministrazione finanziaria, o per essa dell‘agente della riscossione, di insinuarsi al passivo fallimentare, la quale non può certo desumersi - per tutto quanto detto - dalla precedente notifica dell‘avviso al contribuente in bonis, sia perchè questa assolve, come visto, tutt‘altra funzione e finalità, sia perchè, sino a quando la pretesa tributaria non venga espressamente azionata nei confronti della massa, con la domanda di ammissione al passivo ex art. 201 CCI, il curatore non sarebbe nemmeno legittimato a tutelarne gli interessi, in quanto in ipotesi nemmeno in astratto pregiudicabili. Tra l‘altro, ove si trattasse di domanda presentata dall‘amministrazione finanziaria oltre il termine fissato dall'art. 208, comma 1, CCI (cd. domanda ultratardiva), essa avrebbe notevoli probabilità di essere dichiarata preliminarmente inammissibile, stante l‘estremo rigore della giurisprudenza di questa Corte in ordine alla “prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile”, di cui è onerato l‘istante (art. 208, comma 3, CCI).
Ed a tale ultimo riguardo si deve ricordare che, per far valere il credito tributario nei confronti del fallimento, l‘Amministrazione finanziaria o l‘esattore devono presentare l‘istanza di insinuazione tardiva nel termine semestrale previsto dall'art. 208 CCI (l‘art. 101 l.fall. prevedeva il più lungo termine annuale), senza che i diversi e più lunghi termini per la formazione dei ruoli e per l‘emissione delle cartelle, ai sensi dell‘art. 25 d.P.R. 602/1973, costituiscano di per sé ragioni di scusabilità del ritardo, potendosi considerare, a tal fine, esclusivamente i tempi strettamente necessari all‘Amministrazione finanziaria per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo (Cass. 8 settembre 2015, n. 17787.).
La sincronicità del pensiero impone, allora, di ritenere che il dies a quo per l'impugnazione cominci a decorrere per il curatore (non con la mera notificazione al medesimo dell'atto oppugnando, bensì) con la proposizione della domanda d'insinuazione allo stato passivo.
Un ulteriore passo in avanti potrebbe portare a ritenere che, nel sistema della riscossione ridisegnato dal D.Lgs. n. 46/1999, l‘interesse concreto del curatore ad impugnare il titolo della pretesa tributaria diventi attuale solo all‘esito della decisione del giudice delegato, in sede di accertamento del passivo fallimentare.
Infatti, la previsione dell'art. 88, comma 1, d.P.R. n. 602/1973, art. 88, comma 1, per cui “se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è ammesso al passivo con riserva”, attesta che, a fronte della insinuazione al passivo del credito tributario, ed all‘esito del c.d. “contraddittorio incrociato” tra le parti (disciplinato dall'art. 203 CCI), il giudice delegato potrebbe anche statuire l‘ammissione integrale del credito - provvedimento che tra l‘altro la riforma fallimentare ha assoggettato anche all‘impugnazione del curatore, divenuto parte a tutti gli effetti, ai sensi dell'art. 206, comma 3, CCI), - in alternativa alla sua ammissione “con riserva”, in attesa che la contestazione sul merito della pretesa sia risolta dinanzi al giudice tributario competente, su impulso della parte interessata, in vista della successiva modifica dello stato passivo, ai sensi dell‘art. 228 CCI.
Si deve ricordare, infine, che la notifica dell‘avviso effettuata al contribuente in bonis non è idonea a far decorrere il termine per la sua impugnazione anche nei confronti del curatore del fallimento che sia sopravvenuto in pendenza di detto termine, sicché l‘intervenuta definitività dell'atto non è opponibile alla massa dei creditori, ma è necessario, a tal fine, che lo stesso venga notificato anche al curatore, in modo da rendere manifesta l‘intenzione dell‘Amministrazione finanziaria di procedere all‘insinuazione al passivo fallimentare del credito vantato, facendo conseguentemente sorgere un interesse concreto ed attuale del curatore a contestare l‘atto impositivo a tutela della massa dei creditori (Cass. 14 settembre 2016, n. 18002). |