Nullità del licenziamento per g.m.o. per violazione del divieto della legge sull'emergenza Covid-19 e applicazione della tutela reale “piena”
18 Gennaio 2021
Massima
E' affetto da radicale nullità, con conseguente applicabilità della tutela reale “piena” prevista dall'art.18, comma 1, St. lav. e dall'art. 2, d.lgs. n. 23/2015, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in violazione dell'espresso divieto introdotto dai decreti legge nn.18/2020, 34/2020, 104/2020 e 137/2020 per fronteggiare l'emergenza Covid-19. Il caso
La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, intimato ad una commessa di un negozio di abbigliamento, nella vigenza del divieto generalizzato di licenziamento previsto dai decreti legge nn.18/2020 e 34/2020 nel periodo di emergenza sanitaria per l'epidemia Covid-19 e motivato sulla base di una intervenuta cessazione dell'attività aziendale che, all'esito dell'istruttoria, era risultata in realtà insussistente, per essere il datore di lavoro titolare di altri punti vendita rimasti attivi, con conseguente possibilità di repêchage della lavoratrice licenziata e correlata piena operatività del divieto di legge. La questione giuridica
Come è noto, l'art. 46 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in l. 24 aprile 2020, n. 27 (c.d. decreto “Cura Italia”) ha previsto, per fronteggiare le pesanti ricadute sul tessuto sociale ed economico dell'emergenza pandemica Covid-19, un generalizzato divieto, indipendentemente dal numero di lavoratori impiegati, di intimare licenziamenti collettivi ovvero individuali per giustificato motivo oggettivo.
Tale eccezionale misura, di natura temporanea ed inizialmente scadente il 17 maggio 2020, è stata successivamente prorogata sino al 17 agosto dall'art. 80 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito in l. 17 luglio 2020, n. 77 (c.d. “Decreto Rilancio”), ed ulteriormente procrastinata dall'art. 14 del d.l. 14 agosto 2020, n. 104, convertito in l. 13 ottobre 2020, n. 126 (c.d. “Decreto Rilancio 2”), che ha tuttavia previsto una scadenza “mobile”, correlata alla integrale fruizione degli ammortizzatori sociali e delle agevolazioni contributive riconosciute in favore del datore di lavoro in relazione all'emergenza epidemiologica da Covid-19.
La scadenza è stata da ultimo prorogata dall'art. 12, commi 9 e ss., del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (c.d. “Decreto Ristori”), che l'ha fissata alla data del 31 gennaio 2021, superando così il meccanismo della “scadenza mobile” introdotto dal precedente decreto, il quale – correlando il divieto di licenziamento alla fruizione dell'ammortizzatore o degli sgravi – aveva prestato il fianco ad alcuni problemi interpretativi ed applicativi.
In forza dell'assetto normativo sopra descritto, dunque, fino al 31 gennaio 2021 i datori di lavoro, a prescindere dal requisito dimensionale, non possono procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della l. n. 604/1966 ed è, altresì, sospesa la procedura ex art. 7 della stessa legge.
Nello specifico, il Tribunale di Mantova, accertata in punto di fatto la violazione del predetto divieto di licenziamento, ha dichiarato la nullità del recesso per contrarietà a norme imperative, ed ha conseguentemente applicato il regime di tutela reale “piena”, condannando il datore di lavoro a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato ed a pagare in suo favore la retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (trattandosi di rapporto di lavoro a tutele crescenti) dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio, salva la facoltà della prestatrice di optare per l'indennità sostitutiva. Le soluzioni giuridiche
Come ben evidenziato nella sentenza in commento, siamo in presenza di una misura di natura eccezionale, dettata dalla grave emergenza pandemica in atto, tesa ad assicurare una “tutela temporanea della stabilità rapporti per salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico”, e quindi di un intervento “di politica del mercato del lavoro e di politica economica collegata ad esigenze di ordine pubblico”.
Il legislatore, sin dal “Decreto Rilancio 2”, ha tuttavia chiarito che i divieti e le preclusioni inerenti i licenziamenti “non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività” (v. art. 14, comma 3, d.l. n. 104/2020 ed art. 12, comma 11, d.l. n. 137/2020).
Nella fattispecie disaminata dal Tribunale di Mantova era tuttavia emerso, in punto di fatto, che la motivazione addotta dal datore di lavoro (“chiusura della sede operativa e successiva cessazione dell'attività dell'azienda”) era in realtà risultata insussistente, dal momento che l'attività commerciale era invece proseguita, quanto meno parzialmente, presso altri punti vendita rimasti operativi, con la conseguenza che la chiusura di una sola unità produttiva non aveva determinato alcuna deroga al blocco dei licenziamenti.
Orbene, se è vero che nello specifico il licenziamento era stato intimato anteriormente all'entrata in vigore del “Decreto Rilancio 2”, è tuttavia altrettanto vero che l'art. 14, comma 3, del d.l. n. 104/2020 e l'art. 12, comma 11, del d.l. n. 137/2020 dettano un principio di portata generale, plausibilmente applicabile anche anteriormente alla loro vigenza, con la conseguenza che correttamente il Tribunale di Mantova ha ritenuto che, non essendo ravvisabile una cessazione definitiva dell'attività dell'impresa (con messa in liquidazione della società e senza continuazione, anche parziale, dell'attività commerciale), la fattispecie in esame rientrasse appieno nel divieto di licenziamento per motivi economici.
La decisione in commento appare quindi pienamente condivisibile laddove statuisce che “dal carattere imperativo e di ordine pubblico della disciplina del blocco dei licenziamenti consegue la nullità dei licenziamenti adottati in contrasto con la regola, con una sanzione ripristinatoria ex art. 18, comma 1, l. n. 300/1970 e ex art. 2 d.lgs. n. 23/2015 (derivando la nullità "espressamente" con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria “piena” prevista dalle sopra indicate disposizioni. Osservazioni
La sentenza in commento, pur con motivazione concisa, dà pienamente conto della disciplina di riferimento e dell'iter logico-giuridico seguito dal giudicante, il quale ha scrupolosamente vagliato la fattispecie sottoposta al suo esame e, applicando i corretti principi giuridici, ne ha tratto le dovute conseguenze.
In realtà, la linearità del ragionamento seguito dal giudice è stata agevolata anche dalla circostanza che, alla data del licenziamento (giugno 2020), non era ancora entrata in vigore la disposizione del “Decreto Rilancio 2” (detto anche “Decreto Agosto”), che aveva comportato i maggiori problemi interpretativi.
Come si è detto, il d.l. n. 104/2020 ha eliminato la previsione di un termine fisso di durata dell'efficacia del divieto di licenziamento, prevedendo invece una scadenza “mobile”, ancorata alla fruizione degli ammortizzatori sociali e delle agevolazioni contributive previsti in favore del datore di lavoro nel periodo di emergenza sanitaria per l'epidemia Covid-19. In altri termini, il “Decreto Rilancio 2” ha previsto una sorta di divieto “condizionato”, consentendo ai datori di lavoro di avviare le procedure di licenziamento collettivo ex l. n. 223/1991 e di intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, una volta concluso il periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali previsti dall'art. 1 del suddetto Decreto ovvero una volta goduto integralmente dell'agevolazione contributiva prevista dal successivo art.3 (si è parlato di “relativizzazione del termine”).
Ciò posto, va considerato che l'art. 1 del d.l. n. 104/2020 aveva previsto un periodo di ammortizzatori sociali da utilizzare nel periodo tra il 13 luglio 2020 ed il 31 dicembre 2020 per una durata massima di 18 settimane, mentre l'art.3 aveva introdotto un' agevolazione contributiva per i datori di lavoro che non utilizzino il nuovo periodo di ammortizzatori sociali, “per un periodo massimo di quattro mesi, fruibili entro il 31 dicembre 2020, nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei predetti mesi di maggio e giugno 2020”.
Ora, tenuto conto della diversità delle discipline introdotte dalla due predette disposizioni, il primo giorno utile per procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo avrebbe potuto risultare sensibilmente diverso a seconda dei casi. L'agevolazione contributiva di cui all'art. 3, infatti, è pari al doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno, per cui un datore di lavoro che abbia fruito di poche ore di cassa integrazione nei mesi di maggio e giugno avrebbe potuto procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo in termini sensibilmente più brevi rispetto ad altri datori di lavoro che avessero fruito di un maggior numero di ore di integrazione salariale. Non era quindi affatto inverosimile la possibile verificazione di situazioni di irragionevole disparità di trattamento tra la posizione di prestatori che, pur versando in analoga condizione soggettiva, avrebbero potuto giovarsi dell'ombrello protettivo del divieto di licenziamento per un periodo di tempo assai differente a seconda del numero di ore di cassa integrazione di cui il proprio datore di lavoro aveva beneficiato nei mesi di maggio e giugno 2020. In altre parole, essendo il divieto di licenziamento collegato al tempo di fruizione effettiva dei previsti ammortizzatori sociali, minori erano stati questi ultimi, prima sarebbe cessata l'efficacia del divieto. È stato addirittura sostenuto in dottrina che, non essendo previsto alcun automatismo nell'accesso ai benefici (essendo comunque necessaria una domanda del datore di lavoro) e non essendo stato imposto un periodo minimo di loro fruizione, un imprenditore che non avesse goduto affatto di ammortizzatori sociali Covid-19 o di sgravio contributivo ex art. 3 avrebbe potuto procedere in ogni tempo a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Da alcuni è stato persino sostenuto che, considerato che l'art. 14, d.l. n. 104/2020 opera unicamente nei confronti di quei datori che abbiano sospeso o ridotto “l'attività lavorativa per eventi riconducibili all'emergenza epidemiologica da Covid-19” (art. 1, comma 1, d.l. n. 104/2020), sarebbero esclusi dal divieto anche tutti quei datori di lavoro che abbiano avviato procedure di licenziamento collettivo ovvero licenziamento per g.m.o. per eventi non riconducibili all'emergenza Covid-19 (in tali termini, Nicola Verzaro, La condizionalità del divieto di licenziamento nel decreto “Agosto, in Lavoro Diritti Europa - Rivista Nuova di Diritto del Lavoro, 20 febbraio 2020).
In realtà, appare preferibile un'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle suddette disposizioni, in base alla quale appare chiaro che la volontà del legislatore è stata quella di circoscrivere temporalmente il divieto di licenziamento, senza creare disparità di trattamento, all'interno del periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali o dell'esonero contributivo, e cioè di quelle misure di carattere straordinario e transitorio che il legislatore stesso ha riconosciuto per fronteggiare le pesanti ricadute sul tessuto sociale ed economico dell'emergenza pandemica Covid-19.
E' peraltro verosimile che tale problema interpretativo possa porsi solo in un numero limitato di casi, potendo riguardare esclusivamente i licenziamenti intimati nel periodo dal 15 agosto 2020 (data di entrata in vigore del d.l. n.104/2020) al 28 ottobre 2020 (data di pubblicazione in G.U. del d.l. n. 137/2020), atteso che, come si è detto, nell'evidente consapevolezza che il criterio della la scadenza “mobile” aveva comportato l'insorgenza di non facilmente risolvibili problemi interpretativi, il legislatore è nuovamente intervenuto in materia con il “Decreto Ristori”, eliminando la relativizzazione del termine e tornando al previgente criterio della scadenza a data fissa dell'efficacia del divieto di licenziamento, che andrà quindi a scadere, per ciascun datore di lavoro, alla data del 31 gennaio 2021 (destinata con ogni probabilità ad essere prorogata al 31 marzo 2021 a seguito della Legge di Bilancio 2021). |