Le presunzioni tributarie

Melvio Maugeri
19 Gennaio 2021

Nel presente contributo vengono considerate la struttura, il funzionamento e l'efficacia delle presunzioni (legali e semplici) e la loro applicazione in campo tributario, ed evidenziate al contempo le principali criticità.
Premessa. Le presunzioni

Le presunzioni sono strumenti concessi al giudice dagli artt. 2727 e 2729 c.c., che permettono di considerare conosciuto un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione probatoria.

Tali articoli si riferiscono a due fenomeni diversi tra loro, vale a dire le presunzioni legali e le presunzioni semplici, che necessitano di una distinta trattazione.

Le prime vengono definite dall'art. 2727 c.c. come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato». Esse sono previste da norme giuridiche, hanno valore di legge e impongono al giudice di considerare determinati fatti come veri (sebbene, quantomeno in taluni casi, sia possibile fornire la prova contraria).

Le stesse determinano un'attenuazione dei principi generali sulla ripartizione dell'onere probatorio e, in particolare, della regola generale dettata dall'art. 2697 c.c., secondo cui chi fa valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi ne eccepisce l'inefficacia, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui si fonda l'eccezione.

All'interno della categoria delle presunzioni legali occorre poi ulteriormente distinguere quelle assolute, in presenza delle quali il meccanismo normativo non ammette la prova contraria, da quelle relative, che invece ammettono la possibilità di fornire tale prova.

Quanto alle presunzioni semplici, esse, a differenza di quelle legali, sono atipiche: l'art. 2729 c.c., infatti, le definisce soltanto in via generale e residuale, indicandole come presunzioni che «non sono stabilite dalla legge» e che, quindi, sono «lasciate alla prudenza del giudice».

Il loro impiego è ammesso solo quando esse siano gravi, precise e concordanti.

La presunzione è grave allorquando la stessa presenti un rilevante grado di attendibilità, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, basato anche su regole di esperienza.

La precisione va intesa come idoneità a produrre conclusioni chiare, convergenti e non equivoche sui fatti ignorati.

Infine, il requisito della concordanza si ritiene sussistente qualora ci si trovi in presenza di elementi presuntivi non confliggenti, ma coerenti tra loro e non smentiti da altri dati.

Secondo un'interpretazione testuale della norma, tale requisito richiederebbe la presenza di più presunzioni che conducano alla medesima conclusione.

Una siffatta interpretazione, tuttavia, comporterebbe una limitazione eccessiva del campo di applicazione della norma e, quindi, dell'ambito di operatività delle presunzioni. Pertanto, l'orientamento oggi prevalente ritiene che anche una singola presunzione, purché sufficientemente grave e precisa, possa costituire il fondamento dell'accertamento del fatto ignorato.

L'accertamento tributario

Il meccanismo presuntivo trova ampia applicazione in materia di accertamento tributario, il quale può essere definito come quel complesso di atti mediante i quali l'Amministrazione finanziaria, sulla base dei dati resi in dichiarazione dal contribuente, valuta la correttezza dei comportamenti dello stesso procedendo, in caso di anomalie, all'adozione di un avviso di accertamento. Detto accertamento costituisce, dunque, l'attività di affermazione amministrativa della pretesa tributaria conseguente alla rideterminazione dell'imposta o dell'imponibile in misura diversa da quella rappresentata dal contribuente, oppure alla determinazione dell'imponibile e dell'imposta nell'ipotesi di omessa dichiarazione.

Il legislatore ha previsto diverse tipologie di accertamento, le quali si distinguono a seconda dei presupposti che ne legittimano l'adozione o a seconda dei criteri di quantificazione del reddito.

Innanzitutto, è possibile distinguere fra accertamento analitico ed accertamento sintetico.

La prima forma di accertamento costituisce il metodo ordinario e svolge la funzione di ricostruire la base imponibile del reddito muovendo da un'analisi delle singole componenti reddituali.

La seconda tipologia, invece, non si basa su dati precisi ma su presunzioni. In quest'ultimo caso, quindi, l'Amministrazione finanziaria ricostruisce il reddito del contribuente non già in ragione delle sue fonti produttive di reddito, bensì in ragione di fatti economici (consumi e investimenti personali).

Inoltre, l'attività di accertamento può essere di tipo deduttivo o di tipo induttivo: la prima tipologia di accertamento è fondata su prove dirette, mentre la seconda è fondata su presunzioni semplici.

L'accertamento analitico-induttivo e le presunzioni semplici

L'accertamento analitico-induttivo, detto anche presuntivo, consiste nella contestazione dell'evasione mediante il ricorso a presunzioni «qualificate», ovvero gravi, precise e concordanti. Il fondamento normativo di tale accertamento si rinviene nelle seguenti norme:

- l'art. 38 comma 3 del D.p.r. n. 600/1973, in base al quale, relativamente alle persone fisiche, l'incompletezza, la falsità e l'inesattezza dei dati indicati in dichiarazione «possono essere desunte dalla dichiarazione stessa, dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie di cui all'articolo precedente anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti»;

- l'art. 39 comma 1 lett. d) del D.p.r. n. 600/1973, secondo cui, nel reddito d'impresa, «l'esistenza di attività non dichiarate o l'inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti».

Le presunzioni semplici, quindi, costituiscono la base dell'accertamento analitico-induttivo, ma, di per sé sole, non possono essere utilizzate dall'Amministrazione finanziaria per rettificare il reddito imponibile di un contribuente, necessitando di essere corroborate da ulteriori elementi indiziari della presunta evasione. Di conseguenza, i fatti sui quali le presunzioni semplici si fondano devono essere provati dall'Amministrazione finanziaria, sulla quale grava l'onere di dimostrare che gli elementi presuntivi posti a base della pretesa impositiva siano effettivamente gravi, precisi e concordanti.

Questa regola, tuttavia, conosce due eccezioni, entrambe espressamente previste dalla legge. Più nel dettaglio, in presenza di violazioni particolarmente gravi (art. 39 comma 2 del D.p.r. n. 600/1973, per gli accertamenti induttivi, e art. 41 comma 2 del D.p.r. cit., per l'ipotesi di omessa dichiarazione) viene consentito all'Amministrazione di effettuare la rettifica anche sulla base di presunzioni semplici sprovviste dei caratteri di gravità, precisione e concordanza (c.d. presunzioni «semplicissime»).

Le presunzioni legali tributarie

Diversamente dalle presunzioni, quelle legali hanno valore probatorio riconosciuto dalla legge, essendo dunque sufficienti a legittimare la rettifica del reddito imponibile e gravando il contribuente, per contro, dell'onere di fornire la prova contraria.

Orbene, la differenza tra presunzioni semplici e presunzioni legali non pone alcun problema allorquando queste ultime siano assolute, atteso che per le stesse non è ammessa prova contraria; viceversa, detta differenza è problematica con riguardo al rapporto tra presunzioni semplici e presunzioni legali relative.

Tale problema si risolve considerando che in questi casi vi è una diversa ripartizione dell'onere probatorio.

Ed infatti, nel caso di presunzioni semplici è l'Amministrazione finanziaria a dover dimostrare che esse soddisfino i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Ove non vi riesca, non le rimarrà altra alternativa se non quella di dare prova piena in merito alla sussistenza dei fatti costitutivi della pretesa impositiva.

Quanto alle presunzioni legali relative, invece, esse assurgono a fatti costitutivi della pretesa tributaria senza onerare l'Amministrazione finanziaria di provarne i caratteri della gravità, precisione e concordanza, invertendo di conseguenza l'onere della prova e ponendolo a carico del contribuente, il quale dovrà dimostrare l'inefficacia della ricostruzione reddituale presuntiva adducendo e provando fatti modificativi o estintivi della stessa.

La differenza tra presunzioni semplici e presunzioni legali relative, inoltre, assume rilevanza anche sotto un altro punto di vista, atteso che i fatti posti alla base dell'avviso di accertamento possono essere valutati in maniera differente in sede processuale: infatti, mentre nel primo caso il giudice può valutare gli elementi presuntivi secondo il suo libero apprezzamento ex art. 116 c.p.c., nel secondo caso non gli è concessa una tale possibilità, dovendosi limitare a valutare se la prova contraria in ipotesi offerta dal contribuente sia o meno in grado di smentire la presunzione legale (relativa).

Detto ciò, va rilevato che negli ultimi anni si è assistito ad un deciso incremento dei casi di presunzioni legali relative in campo tributario, casi che si passano qui in rassegna.

Una prima ipotesi è quella disciplinata dall'art. 12 del d.l. n. 78/2009 che individua una presunzione di evasione per gli investimenti esteri non dichiarati. Tale norma, in particolare, stabilisce che, ai soli fini fiscali, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato in violazione degli obblighi di dichiarazione previsti dalla normativa sul monitoraggio fiscale, si presumono costituiti mediante redditi sottratti a tassazione, salvo prova contraria fornita dal contribuente.

Secondariamente, vengono in rilievo alcune disposizioni dettate in tema di residenza fiscale. Si tratta, in particolare, dell'art. 2 comma 2-bis del T.u.i.r., nel quale è previsto che, salvo prova contraria, si considerano fiscalmente residenti i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi delle popolazioni residenti allorquando risultino trasferiti in paesi con fiscalità privilegiata, nonché dell'art. 73 comma 3 del T.u.i.r., il quale, per le persone giuridiche, statuisce che si considerano residenti ai fini fiscali, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi caratteristiche analoghe nei paesi a fiscalità privilegiata in cui almeno uno dei beneficiari del trust sia fiscalmente residente.

Particolare attenzione deve essere rivolta anche all'art. 32 del D.p.r. n. 600/1973 in materia di accertamenti bancari. Con riguardo a tale fattispecie, oggetto delle indagini fiscali sono non soltanto i conti correnti formalmente intestati al contribuente, ma anche tutti quei rapporti che, intestati ad altri soggetti, sono ragionevolmente riferibili, in base ad elementi probatori anche di ordine presuntivo, al contribuente medesimo.

A tal proposito va sottolineato che le presunzioni stabilite dalla legge fiscale in tema di rapporti finanziari (per cui ai versamenti e ai prelevamenti corrispondono ricavi o compensi) trovano applicazione ai conti intestati o cointestati al contribuente; viceversa, esse non trovano applicazione ai conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorché legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, a meno che l'Ufficio provi in sede giudiziale che l'intestazione a terzi sia fittizia o altrimenti imputabile al contribuente.

Parimenti, il rapporto familiare molto stretto è stato ritenuto elemento idoneo, ma non sufficiente, a riferire al contribuente accertato operazioni riscontrate su conti correnti bancari di prossimi congiunti: il legame familiare, infatti, non basta per superare la presunzione di effettiva titolarità del rapporto bancario in capo all'intestatario formale. Ciò significa che, al fine di riferire dette operazioni al contribuente, sarà onere dell'Amministrazione provare che è proprio questi ad operare sul conto corrente intestato ad altro soggetto.

Infine, va fatto un cenno alla presunzione legale assoluta concernente le spese di sponsorizzazione sportiva di cui all'art. 90 comma 8 della l. n. 289/2002.

Più nel dettaglio, in giurisprudenza vi era chi le considerava come spese di rappresentanza (a deducibilità limitata) e chi le considerava come spese pubblicitarie (a deducibilità piena). Recentemente, però, proprio quest'ultima tesi ha finito per prevalere, precisandosi che dette spese sono assistite da una presunzione legale assoluta circa la loro natura pubblicitaria a condizione che il beneficiario sia una associazione o società sportiva dilettantistica, sia rispettato il limite complessivo di spesa di duecentomila euro, la sponsorizzazione miri a promuovere l'immagine e i prodotti dello sponsor e il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale quale controprestazione.

Le presunzioni di «fonte giurisprudenziale»

Oltre ai meccanismi presuntivi espressamente previsti dalla legge, la giurisprudenza ha contribuito ad individuare una serie di ipotesi nelle quali, in presenza di fatti noti, si verifica un'inversione dell'onere probatorio in capo al contribuente.

Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati. Graverà, quindi, sul contribuente l'onere di fornire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione per essere stati invece accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti. In queste circostanze l'Ufficio - il quale non ha, nella maggior parte dei casi, alcuna prova concreta che le somme non contabilizzate siano state effettivamente distribuite ai soci - procede alla rettifica dei redditi dei singoli, ritenendo presunta la distribuzione fittizia di utili pro quota.

Tuttavia, tale presunzione sembra potersi porre in contrasto con il divieto praesumptum de praesumpto,in virtù del qualele presunzioni semplici, per non restare meri indizi, come tali irrilevanti, non possono ridursi ad un risultato solamente «possibile» di una determinata deduzione, ma devono essere conseguenza altamente probabile di detta deduzione. Tali caratteristiche, però, quantomeno secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, non ricorrono allorquando esse si basino su altre presunzioni.

Nell'ipotesi in esame, infatti, l'Ufficio, partendo da un accertamento induttivo a carico di società con utili conseguiti ma non contabilizzati, arriva alla conclusione che essi siano stati distribuiti ai soci. Si realizza, quindi, una combinazione di due presunzioni: la prima sugli utili non dichiarati dalla società, che assume dunque la funzione di fatto noto; la seconda presunzione, la quale vede direttamente i soci come percettori degli utili non dichiarati dalla società.

In tale ottica si spiega come mai una parte della giurisprudenza ritiene più corretto inquadrare la fattispecie de qua nell'alveo delle presunzioni semplici, con conseguente onere dell'Ufficio di provare i requisiti della gravità, precisione e concordanza.

Un'altra presunzione di matrice giurisprudenziale riguarda l'accertamento del valore attribuito al bene venduto (azienda, immobile, ecc.) sulla base di quanto determinato in via definitiva ai fini dell'imposta di registro. In particolare, per la giurisprudenza di legittimità, il valore accertato ai fini del registro è una prova presuntiva dotata dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, sufficiente come tale a dimostrare il prezzo di vendita ai fini dell'imposizione sul reddito. Viene invertito, così, l'onere della prova, il quale viene posto a carico del contribuente.

Infine, è possibile citare le detrazioni dell'Iva da parte del soggetto che acquista un bene o servizio nei casi in cui il cedente o il committente non abbiano assolto agli obblighi fiscali: in tale ipotesi, infatti, di fronte all'accertamento dell'Amministrazione finanziaria, si presume la mala fede dell'acquirente, sul quale grava per contro l'onere di dimostrare la propria buona fede.

Tuttavia, l'orientamento appena esposto non è condiviso dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la quale sostiene che debba essere l'Ufficio a dare prova della mala fede del contribuente, intesa come consapevole partecipazione dello stesso alla frode fiscale.

L'accertamento sintetico

L'accertamento sintetico (o redditometro) di cui all'art. 38 del D.p.r. n. 600/1973 è un meccanismo basato sulle caratteristiche esteriori dell'attività commerciale o professionale (ad es. disponibilità di immobili, autoveicoli, ecc.) attraverso il quale l'Amministrazione finanziaria viene dispensata da qualunque ulteriore prova rispetto all'esistenza di fattori indicativi di capacità contributiva, restando a carico del contribuente l'onere di dimostrare che il reddito presunto non esista affatto ovvero esista in misura minore.

Sulla natura della presunzione su cui poggia il redditometro si registrano due opposti orientamenti giurisprudenziali.

Secondo il primo, maggiormente diffuso in passato, essa sarebbe una presunzione legale, in quanto è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) della disponibilità di taluni beni l'esistenza di una certa capacità contributiva.

Secondo il più recente e ormai prevalente orientamento, invece, si tratterebbe di una presunzione semplice: i coefficienti utilizzati per la determinazione sintetica del reddito complessivo, infatti, sarebbero sostanzialmente equiparabili a quelli previsti in tema di studi di settore, basandosi entrambi su dati statistici che, come tali, non potrebbero mai essere considerati «autosufficienti». Compito dell'Amministrazione, dunque, sarebbe quello di dimostrare la sussistenza dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.

A seguito delle modifiche apportate dall'art. 22 del d.l. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, in l. n. 122/2010, pare ormai risolto tale contrasto in favore della seconda interpretazione: infatti, mentre la precedente formulazione faceva riferimento ad «elementi e circostanze di fatto certi», nel nuovo testo non v'è più alcun riferimento a tali elementi, né tantomeno si fa espresso richiamo alle presunzioni.

Va precisato, tuttavia, che la presunzione sulla quale si fonda l'accertamento sintetico non opera immediatamente in quanto l'Ufficio, perché possa emettere un atto accertativo, dovrà attendere la fase c.d. endoprocedimentale. Si tratta di un vero e proprio procedimento amministrativo durante il quale il contribuente potrà, se vuole, esporre le proprie ragioni prima che venga emesso l'atto accertativo, ferma restando la possibilità per il contribuente di attendere detto atto per impugnarlo autonomamente.

La rilevanza penale delle presunzioni tributarie

Infine, merita un cenno la problematica relativa al rapporto tra presunzioni tributarie e processo penale.

Più nel dettaglio, essa si verifica allorquando l'Amministrazione, muovendo da una base imponibile individuata mediante presunzioni, addivenga alla determinazione di un'imposta presuntivamente evasa in misura superiore alle soglie di punibilità penale previste, per le singole fattispecie, dal d.lgs. n. 74/2000.

In tale ipotesi, infatti, l'accertamento fiscale si tramuta in notitia criminis e l'applicazione dei principi di diritto tributario sopra esaminati rischia di determinare un vulnus alle garanzie previste in favore del contribuente/indagato dal codice di procedura penale, secondo il quale questi non è tenuto a collaborare con l'organo inquirente, dovendo essere quest'ultimo a fornire la prova della colpevolezza del primo.

Più nel dettaglio, ove emergano indizi di reità durante la verifica tributaria, trova applicazione l'art. 220 disp. att. c.p.p., secondo cui «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice». Le disposizioni in questione sono quelle contenute negli artt. 63 e 191 c.p.p., che a loro volta stabiliscono che la verifica tributaria non è utilizzabile nel processo penale se assunta senza il rispetto delle garanzie difensive che tutelano il contribuente quando rilascia dichiarazioni indizianti di valenza penale.

Nel processo penale, dunque, Pubblico Ministero e Giudice non potranno fondare il loro operato sulle risultanze di un atto amministrativo che poggi su presunzioni valide esclusivamente nell'ambito tributario, ma potranno solamente prenderne le mosse per ricercare altrove riscontri oggettivi, la cui presenza consenta di accertare la colpevolezza del contribuente oltre ogni ragionevole dubbio, come richiesto dall'art. 533 comma 1 c.p.p. In sede penale, allora, in tanto è possibile condannare il contribuente in quanto siano stati effettivamente provati gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, pena la violazione del principio di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost.

Questo principio è stato da ultimo affermato dalla Corte di cassazione (Cass. civ., 14 marzo 2019, n. 7242), la quale ha ribadito che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire da sole una valida prova della commissione del reato ipotizzato, trattandosi esclusivamente di circostanze dal valore indiziario, che possono sì essere utilizzate dal giudice, purché siano confermate da ulteriori elementi di riscontro che attestino l'effettiva esistenza della condotta criminosa.

In conclusione

Alla luce di quanto finora detto, può dirsi che la tendenza del legislatore è quella di generalizzare la possibilità per l'Amministrazione finanziaria di fare leva su meccanismi presuntivi allorquando essa sia chiamata a ricostruire induttivamente il reddito del contribuente.

Questa tendenza, tuttavia, se da un lato si spiega agevolmente in considerazione della necessità di colmare gli inevitabili deficit informativi che caratterizzano l'operato della Pubblica Amministrazione, dall'altro rischia di gravare eccessivamente la posizione del contribuente, onerandolo di fornire quella che talvolta diventa una vera e propria probatio diabolica.

Ad ogni modo, questa prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato, se ammissibile quando vengono in rilievo interessi strettamente economici, non è più tollerabile in presenza di beni aventi un rango primario nella Costituzione. È proprio in quest'ottica che si spiega la non utilizzabilità del meccanismo presuntivo nel processo penale.

Riferimenti
  • Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005;
  • Tesauro, Istituzioni di Diritto Tributario, part.gen., Milano, 2011;
  • Tundo, L'avviso di accertamento come titolo esecutivo e precetto, in Corr. Trib. 2011;
  • Taruffo, Onere della prova, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIII, Torino, 1997;
  • Taruffo, Presunzioni, I, Diritto processuale, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991;
  • Taruffo, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992;
  • Vassallo, Le prove e gli indizi nel processo tributario. Teoria e pratica del diritto, Milano, 2014.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario