Illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto se la malattia è causata da nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro (mobbing)
25 Gennaio 2021
Massime
In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme.
Il presupposto fondamentale perché possa parlarsi di discriminazione è che il fattore discriminante di volta in volta ricorrente sia noto a colui che abbia posto in essere la condotta potenzialmente vietata. Tale profilo risulta insito nel rapporto eziologico - manifestato dal fatto che le norme in materia pongono tra l'atto censurato e il fattore discriminante una correlazione testuale rappresentata dalla locuzione “a causa” – che deve sussistere tra i due poli (fattore personale e atto) della fattispecie. Ciò risulta di palmare evidenza allorché si sia in presenza di una discriminazione diretta, poiché in questo caso si assiste ad un trattamento differenziato (e meno favorevole) per quanti appartengano ad una data categoria di soggetti; invero, qualora fosse ignota quell'appartenenza, il trattamento sfavorevole non verrebbe senz'altro in considerazione, poiché al soggetto, considerato estraneo ad una certa categoria, verrebbe applicato il diverso trattamento ordinario. Tuttavia, benché in termini apparentemente più sfumati, la necessaria notorietà del fattore discriminante s'impone anche nel caso delle discriminazioni indirette, le quali si verificano, all'opposto, quando la situazione di svantaggio è derivante dall'applicazione di un trattamento generalizzato – apparentemente neutro – a soggetti che, per l'appartenenza ad una data categoria, finiscono per esserne svantaggiati.
Deve ritenersi ormai acquisita la applicabilità ai fini della responsabilità civile, nella verifica del nesso causale tra la condotta illecita ed il danno, dei principi posti dagli artt. 40 e 41 del codice penale (c.d. teoria della condicio sine qua non). Un evento è pertanto da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo in assenza del secondo non si sarebbe verificato hic et nunc ovvero nei termini di tempo e nelle precise circostanze in cui si è manifestato (in termini: Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576, ove si individua un correttivo del rigore del suddetto criterio di imputazione causale nel principio della "regolarità causale"). Sotto il profilo probatorio l'accertamento del nesso causale deve essere compiuto sulla base delle migliori cognizioni scientifiche disponibili; ove, tuttavia, esse non consentano una assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio muta sostanzialmente nel processo penale ed in quello civile: nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328) mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non". Con la ulteriore precisazione che lo standard di cd. "certezza probabilistica" della materia civile "non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)" (così Cass. pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, cit.; Cass. n. 47/2017).
Il caso
Un lavoratore delle Ferrovie dello Stato impugna, dinanzi al Giudice del lavoro del Tribunale di Pavia, il licenziamento comminatogli dalla datrice di lavoro per superamento del periodo di comporto, sostenendone, per un verso, la nullità in quanto discriminatorio e, per altro verso, l'illegittimità per insussistenza dei presupposti temporali, in considerazione della stigmatizzata erroneità del calcolo compiuto dalla datrice, la quale avrebbe computato, in sede di calcolo utile ai fini dello sforamento del comporto, anche le assenze per malattia ingenerate dalla condotta mobbizzante perpetrata in suo danno sul posto di lavoro.
Più in particolare e quanto al primo profilo di censura, il ricorrente, dopo aver evidenziato di essere affetto da un handicap/disabilità rilevante riguardante il sofferto disturbo della personalità di tipo schizoide, ha censurato la discriminazione indiretta asseritamente posta in essere da parte datoriale con il comminato licenziamento ed insita, a suo dire, nel non aver considerato il datore di lavoro la situazione di svantaggio in cui si trovava il lavoratore portatore di handicap rispetto agli altri lavoratori non affetti da alcuna disabilità.
In relazione al secondo profilo di impugnazione, invece, il ricorrente ha evidenziato come l'insorgenza della patologia psichiatrica diagnosticatagli sarebbe stata la conseguenza diretta della condotta datoriale consistita nella privazione di ogni mansione, invocando, pertanto, l'impossibilità di computo ai fini della decorrenza del periodo di comporto delle assenze per malattia cagionate da tale comportamento mobbizzante, con conseguente illegittimità del recesso intimato.
Il lavoratore, ha, quindi concluso, invocando la declaratoria di nullità e/o di illegittimità del comminato licenziamento, con richiesta di reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 18 comma 1 l. n. 300/70, o in subordine dell'art. 18 comma 4 e comma 7 l. n. 300/70 e condanna della datrice alla corresponsione delle retribuzioni globali di fatto maturate e maturande sino al giorno dell'effettiva reintegrazione, in uno al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali in favore dello stesso per il medesimo periodo.
La datrice di lavoro resistente, costituitasi in giudizio, ha contestato le deduzioni avverse, rimarcando la piena legittimità del proprio operato e concludendo per il rigetto della domanda. La questione
La decisione in esame affronta la questione del licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, sotto il duplice profilo della nullità conseguente alla natura discriminatoria dello stesso (con particolare riferimento all'ipotesi della discriminatorietà indiretta) e dell'illegittimità del recesso per intervenuto computo, nel conteggio temporale, anche delle assenze per malattia cagionate dal comportamento mobbizzante di matrice datoriale. La soluzione giuridica
Il Tribunale di Pavia ha accolto la domanda del ricorrente sotto il profilo relativo all'illegittimità del comminato licenziamento per erroneo computo delle assenze per malattia cagionate dal comportamento datoriale, evidenziando in massima come “le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme”,respingendo, invece, l'istanza di nullità del recesso stesso per discriminatorietà.
In particolare, partendo dalla disamina del profilo di nullità, il Giudice di primo grado ha evidenziato come il presupposto fondamentale perché possa parlarsi di discriminazione è che il fattore discriminante, di volta in volta ricorrente, sia noto a colui che abbia posto in essere la condotta potenzialmente vietata, con ciò escludendone la ricorrenza nella fattispecie in esame, essendo emerso come la datrice di lavoro non fosse a conoscenza della situazione di handicap del lavoratore.
Secondo il Tribunale di Pavia, invero, vi sarebbero due ragioni ostative all'accoglimento della reazione antidiscriminatoria invocata dal lavoratore: in primo luogo, nonostante la giurisprudenza abbia da tempo evidenziato come “la discriminazione- diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente - ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro” (Cass. n. 6567/2018), tale orientamento non può essere inteso nel senso di escludere la necessità che il soggetto agente sia consapevole della sussistenza del fattore potenzialmente discriminante, vuoi perché “ragioni soggettive dell'azione” e “presupposti di conoscenza della stessa” sono categorie nient'affatto coincidenti, vuoi perché, “diversamente opinando, e ritenendo qualificabile come discriminatoria una condotta “inconsapevole”, si finirebbe per giungere ad una sorta di responsabilità oggettiva che non pare in alcun modo predicata dalla norma e che, del resto, pare positivamente esclusa dall'universo disciplinare in materia discriminatoria”.
In secondo luogo, in ragione del nesso eziologico che ricorre tra “fattore discriminante” (causa) e “trattamento discriminatorio” (effetto), deve ritenersi che la serie logico-causale tratteggiata dalla legge proceda dal primo elemento verso il secondo, mentre, nella fattispecie in esame, il ricorrente avrebbe prospettato un percorso invertito, per cui sarebbe il trattamento discriminatorio (causa) a cagionare l'handicap (effetto), con conseguente inapplicabilità della disciplina antidiscriminatoria invocata, in favore della più adatta soluzione risarcitoria del danno biologico connesso all'effetto prodotto.
Con riferimento, invece, al profilo dell'annullabilità del licenziamento per violazione dell'art. 2087 c.c. in considerazione della stigmatizzata condotta mobbizzante, il Giudice del lavoro del Tribunale pavese ha condiviso l'impostazione attorea, dopo aver accertato la fondatezza della tesi del lavoratore in riferimento al sostanziale demansionamento perpetrato in suo danno e causa della contrazione del disturbo psichico che l'avrebbe condotto ad inanellare un numero di assenze per malattia decisivo per il superamento del periodo di comporto.
In particolare, il Giudice di prime cure, ha ricordato come in mancanza di un riscontro scientifico certo “deve ritenersi ormai acquisita la applicabilità ai fini della responsabilità civile, nella verifica del nesso causale tra la condotta illecita ed il danno, dei principi posti dagli artt. 40 e 41 del codice penale (c.d. teoria della condicio sine qua non). Un evento è pertanto da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo in assenza del secondo non si sarebbe verificato hic et nunc ovvero nei termini di tempo e nelle precise circostanze in cui si è manifestato (in termini: Cass.S.U. 11 gennaio 2008, n. 576, ove si individua un correttivo del rigore del suddetto criterio di imputazione causale nel principio della "regolarità causale"). Sotto il profilo probatorio l'accertamento del nesso causale deve essere compiuto sulla base delle migliori cognizioni scientifiche disponibili; ove, tuttavia, esse non consentano una assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio muta sostanzialmente nel processo penale ed in quello civile: nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328) mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non". Con la ulteriore precisazione che lo standard di cd. "certezza probabilistica" della materia civile "non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)" (così Cass. pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, cit.; Cass. n. 47/2017).
Per tali ragioni, alla luce della gravità della rilevata condotta datoriale, il Tribunale di Pavia ha ritenuto “più probabile che non”, e dunque provato, che l'assenza per malattia del lavoratore si sia protratta a causa delle condizioni lavorative per un numero di giorni superiore a quello eccedente il periodo di comporto e che, dunque, il comminato recesso dovesse considerarsi illegittimo per mancato superamento del termine di decorrenza, con conseguente applicabilità del disposto dell'art. 18 comma 4, in base al quale “il giudice […] annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Osservazioni
La pronuncia in esame ci consente di operare una complessiva rilettura degli istituti del licenziamento discriminatorio (specie in riferimento all'ipotesi della c.d. discriminatorietà indiretta) e del licenziamento per superamento del periodo di comporto in ipotesi di malattia causata dalle illegittime condotte del datore di lavoro.
Partendo, dunque, dall'analisi del primo istituto ed anticipando la collocazione dogmatica nel sistema delle fonti regolatrici, la figura del licenziamento discriminatorio affonda le proprie “radici” normative nell'art. 4 della l. n. 604 del 1966, nell'art 15 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300/70) e nell'art. 3 della l. n. 108 del 1990, dalle quali è possibile ricavare una prima definizione, non esaustiva, dell'alveo contenitivo dell'istituto in parola.
In particolare, infatti, si considera discriminatorio il licenziamento «determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali […] indipendentemente dalla motivazione adottata» o irrogato al lavoratore «a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero o […] dirett[o] a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basat[o] sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». Ma non è tutto.
In base all'art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, è discriminatorio qualsiasi licenziamento che produca l'effetto di discriminare anche indirettamente i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza, qualora questi ultimi non costituiscano requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ed, ancora, ai sensi degli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 215 del 2003, è discriminatorio qualsiasi licenziamento per razza o origine etnica o apparentemente neutro ma in grado di mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (sempre che non si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima); mentre, per gli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2003 risulta discriminatorio qualunque licenziamento irrogato per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale o apparentemente neutro, ma in grado di mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (e sempre che non si tratti, anche in tal caso, di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima). Infine, ex artt. 25 e 26 del d.lgs. n. 198 del 2006, è discriminatorio il licenziamento che produce un effetto pregiudizievole discriminando i lavoratori in ragione del loro sesso, o del loro stato di gravidanza o di maternità o paternità anche adottive o della titolarità o esercizio dei diritti conseguenti a tali stati, o dell'esercizio di una azione volta ad ottenere il rispetto di tale principio di parità di trattamento, o dovuto al rifiuto o alla sottoposizione a molestie o molestie sessuali, nonché tutti quei licenziamenti apparentemente neutri, ma in grado di mettere i lavoratori portatori di un fattore di cui sopra in una situazione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori non portatori di tali fattori, salvo che si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Su tali presupposti, dunque, il Tribunale di Pavia, dopo aver evidenziato la possibile qualificazione astratta della condotta datoriale posta al suo vaglio quale ipotesi di “discriminazione indiretta” (rinvenibile per l'appunto “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere….le persone portatrici di handicap […] in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone“) perviene, nondimeno, ad escluderne l'effettiva ricorrenza nella fattispecie in esame, sottolineando la mancanza del presupposto ontologico della condotta discriminatoria, insito nella necessaria conoscenza del fatto discriminante da parte del datore di lavoro.
Ed invero, il Giudice del lavoro pavese, ben conscio dell'orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte per cui “la discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente - ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro” (Cass. n. 6567/2018), evidenzia come la ratio sottesa a tale insegnamento (funzionale a distinguere l'area del licenziamento discriminatorio da quello ritorsivo ex art. 1345 c.c., attribuendo esclusivo rilievo al suo esito oggettivo, ossia il trattamento discriminatorio, con esclusione di ogni analisi sulle ragioni soggettive che muovono l'intento lesivo) non possa essere intesa nel senso di escludere la necessità che il soggetto agente sia consapevole della sussistenza del fattore potenzialmente discriminante.
Ciò in quanto, se, per un verso, le locuzioni “ragioni soggettive dell'azione” e “presupposti di conoscenza della stessa” rimandano a categorie nient'affatto coincidenti, per altro verso, qualora si volesse qualificare come discriminatoria una condotta “inconsapevole” del datore di lavoro, si finirebbe per giungere ad una sorta di responsabilità oggettiva dello stesso, nonostante l'insussistenza di qualsivoglia riscontro giuridico/normativo di tal guisa ed, anzi, nonostante l'universo disciplinare in materia discriminatoria vada in senso diametralmente opposto.
Così delineato il profilo inerente la discriminatorietà indiretta del licenziamento in parola, la pronuncia in commento ci consente, nondimeno, di trattare (se pur in maniera sintetica, stante le esigenze di contenimento della trattazione) dell'ulteriore profilo di analisi relativo alla illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, in ipotesi di malattia causata dalle condotte nocive del datore di lavoro.
In particolare, e come è noto, nel nostro impianto ordinamentale il ruolo ricoperto dalla tutela diritto alla salute è da considerarsi di assoluto rilievo e, pur tuttavia, non può non essere contemperato con il paritetico diritto, anch'esso di rango costituzionale, finalizzato alla tutela la libertà di iniziativa economico/imprenditoriale.
Tale tentativo di bilanciamento degli interessi in conflitto (rinvenibili nell'esigenza datoriale, da una parte, di mantenere il livello della produzione mediante l'impiego di personale in grado di svolgere la prestazione lavorativa richiesta e nel diritto del lavoratore, dall'altra, di disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento ed il posto di lavoro) ha trovato, da tempo, la propria cristallizzazione normativa nel disposto dell'art. 2110 c.c., in base al quale (e per quel che interessa ai fini del presente commento) in caso di infortunio o di malattia, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto, a norma dell'art. 2118 c.c., decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità, mentre, specularmente, il lavoratore ha diritto alla conservazione dell'impiego in costanza di malattia o infortunio, purché non si prolunghi oltre un periodo normativamente stabilito, che viene definito comunemente “di comporto”.
La risoluzione del rapporto costituisce, dunque, la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva ed in cui, al di là dei succitati riferimenti normativi, l'effettiva disciplina di dettaglio e di settore è rimessa, come è noto, alle sostanziali previsioni dei contratti collettivi di riferimento.
Ciò posto in via di principio, non può non essere immediatamente evidenziato (anche in funzione servente rispetto al tenore della trattazione in essere), come uno dei problemi di maggiore interesse nella materia in esame abbia da sempre riguardato la computabilità, per il calcolo del periodo di comporto ed ai fini del licenziamento del lavoratore, dell'assenza per malattia professionale o infortunio sul lavoro, in considerazione della parificazione letterale compiuta dal disposto dell'art. 2110 c.c.
Più nel dettaglio, la domanda più ricorrente è se, ai fini del calcolo del periodo di comporto superato il quale il datore di lavoro può recedere dal rapporto di lavoro, vadano calcolate le sole assenze per malattia e non anche quelle per infortunio sul lavoro e malattia professionale, sul presupposto che non potrebbero porsi a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell'attività lavorativa espletata.
La giurisprudenza in materia, infatti, non ha sempre mantenuto un indirizzo univoco.
Ed invero, se in alcuni casi la Suprema Corte (vedasi ad esempio le sentenze della Cass., sez lav, n. 14377/2012, Cass., sez. lav., 12 giugno 2013, n. 14756 e Cass., sez. lav., n. 26005/2015) ha evidenziato come l'esclusione, dal computo del comporto, del periodo di assenza derivante da un infortunio professionale risponda ad un principio di maggiore tutela del lavoratore, che è in linea con le finalità della contrattazione collettiva, la quale si propone anche di introdurre normative di favore rispetto alle previsioni legislative; in altre pronunce l'Organo della Nomofilachia ha sottolineato come ai fini del superamento del periodo di comporto, anche in base alla contrattazione collettiva di settore, “l'assenza per infortunio sul lavoro e quella dovuta a malattia professionale sono equiparate, e devono essere entrambe computate nel calcolo del limite complessivo, oltre il quale è esperibile la risoluzione del rapporto di lavoro” (v. in tal senso Cass., sez. lav., n. 17837/2015 e Cass., sez. lav., n. 5527/2016).
Di recente, tuttavia, l'orientamento maggioritario sembra esser stato ricondotto ad unità su di un profilo in particolare, propendendo i giudici di merito e di legittimità per l'esclusione, dalla computabilità ai fini del superamento del periodo di comporto, delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio imputabile alla responsabilità del datore di lavoro, ovvero per le ipotesi in cui l'infortunio o la malattia abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, stante l'ascrivibilità al datore di lavoro dell'organizzazione dell'impresa anche sotto il profilo del personale ex art. 2049 c.c. (v. ex multis: Cass., n. 22538/2013, Cass., sez. lav., n. 14643/2013, Corte di Cass., n. 74/2017, Cass. n. 19661/2019).
Affinché, dunque, l'assenza possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che si tratti di malattia professionale meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione alla genesi e/o all'evoluzione di tale malattia sussista una responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligazione a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 c.c., che, come è noto, gli impone di porre in essere tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore (v. ex multis: Cass., 4 febbraio 2020, n. 2527). La suddetta responsabilità del datore di lavoro, dunque, ha natura contrattuale e pone a carico dello stesso l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro, restando, invece, a carico del lavoratore, l'onere di provare l'esistenza del danno, così come la nocività dell'ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra l'uno e l'altro elemento.
Ed allora è proprio in tale “solco” che si iscrive, a pieno titolo, la sentenza in commento, la quale, partendo dalla qualificabilità dell'accertato demansionamento del ricorrente come fattispecie tipicamente mobbizzante, nella sua condivisa accezione di complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (v. per tutte: Corte cost. n. 359/2003, Cass. n. 18927/2012, n. 17648/2014), ha ritenuto di dover escludere dal computo del periodo di comporto proprio il periodo di assenza per malattia del lavoratore, protrattosi a causa delle condizioni lavorative, massimando al riguardo come “in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme”.
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