Ragionevole durata del processo
01 Febbraio 2021
Inquadramento
L'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rubricato «diritto ad un processo equo», prevede, con particolare riguardo al processo civile, che ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine di determinare i suoi diritti ed obblighi di carattere civile, nonché che la sentenza deve essere resa pubblicamente. Pertanto, come ha più volte ribadito la Corte di Strasburgo, il rispetto della durata ragionevole del processo rientra tra le garanzie del processo equo ai sensi dell'art. 6 della CEDU ed è uno strumento per garantire l'efficienza e la credibilità della giustizia (cfr. già Corte europea dir. uomo, 24 ottobre 1989, H c. Francia). Con la riforma realizzata dalla l. cost. n. 2/1999 il principio della ragionevole durata del processo è stato quindi annoverato tra i caratteri del giusto processo anche dall'art. 111 Cost. Di qui, nella giurisprudenza interna, il principio della ragionevole durata del processo è più volte assurto quale canone di interpretazione delle disposizioni processuali, quali, ad esempio, quelle in tema di preclusioni. Determinazione della durata del processo
La precisa delimitazione della durata di un giudizio è premessa essenziale per valutare se tale durata può considerarsi ragionevole. A tal fine occorre individuare, da un lato, il momento nel quale il processo civile ha inizio e, da un altro, quello in cui si conclude. Il dies a quo è così costituito dal momento nel quale è adita l'autorità giudiziaria mediante il deposito del ricorso presso la cancelleria della stessa (e ciò anche per i processi che, seguendo il rito ordinario di cognizione sono introdotti mediante atto di citazione). La Corte europea dei diritti dell'uomo ha precisato che nell'ipotesi di giurisdizione c.d. condizionata, i.e. quando è possibile adire l'autorità giudiziaria soltanto dopo aver svolto una determinata attività (cfr., tra le altre, Corte europea dir. uomo, 29 luglio 2003, Santoni c. Francia; 26 aprile 1994, Vallée c. Francia; 31 marzo 1992, X c. Francia), è necessario considerare nella durata complessiva del procedimento anche il tempo necessario allo svolgimento di siffatte attività (quali, ad esempio, un tentativo di conciliazione o di mediazione che viene previsto dal legislatore come condizione di procedibilità della domanda giudiziale). Momento conclusivo del processo rispetto al quale apprezzare la durata complessiva dello stesso è, secondo la Corte europea, quello in cui la pronuncia è diventata definitiva, ossia per il processo civile quello in cui la stessa è passata in giudicato. Nondimeno, è essenziale considerare che in ogni ipotesi in cui, ai fini della concreta soddisfazione dei diritti della parte vittoriosa, è necessaria l'esecuzione della sentenza, almeno secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, il processo può ritenersi concluso solo dopo che la decisione ha avutocompiuta esecuzione (per i leading case: Corte europea dir. uomo, 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia; 26 settembre 1996, Di Pede e Zappia c. Italia). A partire dalla fondamentale pronuncia König,la Corte europea dei diritti dell'uomo ha individuato i parametri con riferimento ai quali deve essere valutata, in concreto, la ragionevolezza della durata della procedura, i.e. la complessità della controversia, il comportamento del ricorrente e quello delle autorità nazionali (Corte europea dir. uomo, 28 giugno 1978, König c. Repubblica Federale tedesca). La valutazione avente ad oggetto la durata ragionevole, o meno, di un processo non si traduce invero in un apprezzamento astratto, fatta salva l'ipotesi-limite in cui lo Stato convenuto sia stato già condannato per una prassi incompatibile con la Convenzione, ma costituisce un apprezzamento concreto che deve tenere conto delle richiamate circostanze. Criterio fondamentale rispetto al quale deve essere valutata la durata del giudizio è quello della complessità della causa, da considerare sia in relazione ai fatti oggetto della stessa sia alle questioni giuridiche sollevate. I fatti oggetto della controversia possono essere ritenuti complessi e giustificare una maggiore durata della procedura, ad esempio, quando è necessario espletare una consulenza tecnica (Corte europea dir. Uomo, 4 ottobre 2001, Ilowiecki c. Polonia, par. 87; 23 febbraio 1993, Billi c. Italia, par. 19) o dividere un unico bene tra più eredi o comproprietari (Corte europea dir. uomo, 27 febbraio 1992, Vorrasi c. Italia, par. 102). Quanto alla complessità delle questioni giuridiche, la Corte ha fatto riferimento, tra le altre, alla novità della legge da interpretare (Corte europea dir. uomo, 8 dicembre 1983, Pretto c. Italia), alla proposizione di una questione di legittimità costituzionale (Corte europea dir. uomo, 26 novembre 1992, Giancarlo Lombardo c. Italia, par. 2), all'esigenza di interpretare ed applicare una legge straniera o un Trattato internazionale (Corte europea dir. uomo, 24 gennaio 1994, Beaumartin c. Francia, par. 33). Non si può trascurare, inoltre, che la giurisprudenza europea ha ritenuto che la causa può considerarsi complessa anche quando ciò dipenda da ragioni processuali, quali, ad esempio, la pluralità di parti in causa (Corte europea dir. uomo 8 luglio 1987, H. c. Regno Unito, par. 72), le numerose istanze proposte nel corso del giudizio (Corte europea dir. uomo, 27 ottobre 1993, Monnet c. Francia, par. 28), l'esigenza di effettuare rogatorie all'estero (Corte europea dir. uomo, 23 maggio 2000, Van Pelt c. Francia, par. 41 ss.). La ragionevolezza della durata del processo deve essere considerata alla luce del comportamento delle parti in causa, poiché esclusivamente i ritardi imputabili allo Stato convenuto possono comportare una condanna da parte della Corte europea per violazione della ragionevole durata della procedura (ex multis, Corte europea dir. uomo, 4 dicembre 1995, Ciricosta e Viola c. Italia, par. 28). I comportamenti delle parti suscettibili di incidere negativamente sulla durata della stessa possono concretarsi, tra l'altro, nell'aver inizialmente adito un giudice incompetente (Corte europea dir. uomo, 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, par. 53), nell'allegazione di fatti nuovi successivamente rivelatisi inesatti, nei ritardi nello svolgimento di attività di impulso processuale quali la riassunzione della causa a seguito dell'interruzione della stessa o della riassunzione in sede di rinvio dopo la pronuncia di annullamento della Corte di cassazione (Corte europea dir. uomo, 27 febbraio 1992, Cardarelli c. Italia, par. 17, nella notifica della sentenza alla parte soccombente). Da imputare alle parti sono inoltre tutti i ritardi derivanti dalle richieste di rinvio nella trattazione della causa formulate dalle stesse, ad esempio per tentare di pervenire ad un «bonario componimento». Altro criterio per valutare la ragionevolezza nella durata della procedura è il comportamento delle autorità nazionali, ed in particolare quello dell'autorità giudiziaria. La Corte di Strasburgo ha a riguardo evidenziato che, in generale, gli Stati contraenti sono tenuti ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo da rispettare le garanzie dell'art. 6 par. 1 della CEDU e, tra esse, il principio di ragionevole durata del processo. L'eccessivo carico del ruolo degli uffici giudiziari non esime, in sé e per sé, dal rispetto di tale principio: tuttavia, lo Stato convenuto può evitare la condanna da parte della Corte di Strasburgo se rimedia rapidamente, mediante opportune riforme legislative, alla situazione che impedisce strutturalmente di assicurare giustizia ai cittadini in tempi adeguati. Non spetta peraltro alla Corte europea dei diritti dell'uomo indicare le misure normative che in concreto devono essere adottate dagli Stati contraenti per rimediare alla strutturale inadeguatezza del proprio sistema ad assicurare giustizia in tempi ragionevoli, ma soltanto valutare ex post l'efficacia dei rimedi adottati rispetto all'obiettivo perseguito (tra le tante, Corte europea dir. uomo, 13 luglio 1983, Zimmermann e Steiner c. Svizzera, par. 29 ss.; 25 giugno 1987, Milasi c. Italia, par. 22 ss; 7 luglio 1989, Union Alimentaria Sanders c. Spagna, par. 37-42). Considerazione peculiare deve essere riservata, infine, a quello che finisce con l'essere il canone più importante alla luce del quale va valutata la durata del processo, ovvero la posta in gioco dello stesso per le parti in causa, il c.d. enjeu (che può avere tanto carattere morale che patrimoniale: Corte europea dir. uomo, 26 agosto 1994, Karakaya c. Francia, par. 45). E' evidente, infatti, che molto diverse sono le sofferenze ipoteticamente riconducibili all'eccessiva durata della procedura a seconda dell'oggetto della stessa. In virtù di tale parametro, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha distinto tra le ipotesi in cui l'autorità giudiziaria deve, in relazione alla posta in gioco per la parte, definire celermente i relativi procedimenti con una diligenza particolare rispetto agli altri, dai giudizi nei quali è persino necessaria, a tal fine, una diligenza eccezionale. Nella prima categoria rientrano, con riguardo alla materia civile, le controversie in tema di stato e capacità delle persone (specie qualora la decisione possa incidere sul godimento di un diritto ovvero sul dispetto della vita familiare: Corte europea dir. uomo, 29 giugno 2004, Voleskỳ c. Repubblica Ceca, e 18 febbraio 1999, Laino c. Italia, entrambe in tema di esercizio del diritto di visita sul figlio minore da parte del genitore non affidatario), nonché le cause relative alla vita professionale del ricorrente (ex ceteris, Corte europea dir. uomo, 26 settembre 2000, Garcia c. Francia). Una diligenza eccezionale deve essere osservata dalle autorità giudiziarie nazionali, invece, ai fini di una pronta definizione dei giudizi che riguardano soggetti che soffrono di un male incurabile o con una ridotta prospettiva di vita (Corte europea dir. uomo, 19 marzo 2002, Kritt c. Francia, par. 14) nonché in quelli aventi ad oggetto una restrizione della potestà genitoriale (Corte europea dir. uomo, 19 febbraio 1998, Paulsen-Medalen e Svensson c. Svezia, par. 39). Riferimenti
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