Medmal e A.T.P. Conciliativo: il lungo excursus procedurale può comportarne l’estinzione senza espletamento della C.T.U.?

Vincenzo Liguori
02 Febbraio 2021

In tema di responsabilità sanitaria può essere dichiarata l'estinzione del procedimento di A.T.P. Conciliativo - la cui durata oltrepassi entrambi i termini di cui all'art. 8, comma 3, L. 24/2017 - senza che sia stata fruttuosamente espletata la C.T.U. medico-legale?

Un danneggiato da medical malpractice instaura un procedimento di A.T.P. conciliativo ex artt. 696-bis c.p.c. e 8 L. n. 24/2017 nei confronti della struttura sanitaria ritenuta responsabile.

Instaurato il contraddittorio, l'iter processuale è costellato da un susseguirsi di rinvii dovuti in parte alle ripetute astensioni dei consulenti nominati ed in parte alla riluttanza del giudice nell'adoperare lo strumento della trattazione cartolare dell'udienza e del giuramento telematico del C.T.U., ex art. art. 221, D.L. 34/2020, convertito in L. 77/2020.

Decorsi, pertanto, infruttuosamente entrambi i termini di cui all'art. 8, comma 3, L. 24/2017, alla prima udienza successiva la struttura sanitaria:

  • eccepisce il mancato rispetto, da parte del ricorrente, dei termini di cui all'art. 8, comma 3, L. 24/2017, per l'introduzione del giudizio di merito;
  • eccepisce l'intervenuta perdita degli effetti sostanziali e processuali della domanda promossa dal ricorrente;
  • chiede l'estinzione del procedimento di A.T.P. conciliativo.

In tema di responsabilità sanitaria può essere dichiarata l'estinzione del procedimento di A.T.P. Conciliativo - la cui durata oltrepassi entrambi i termini di cui all'art. 8, comma 3, L. 24/2017 - senza che sia stata fruttuosamente espletata la C.T.U. medico-legale?

L'art. 8 L. n. 24/2017, sebbene redatto in modo “disordinato” (per usare un eufemismo), non prevede alcuna carambolesca ipotesi di estinzione dell'A.T.P. conciliativo per infruttuoso decorso dei termini di cui al comma 3 (6 mesi + 90 giorni), per le argomentazioni che di seguito esposte.

Il ruolo degli interpreti

Giudici ed avvocati, nell'esercizio dell'attività ermeneutica, incontrano preliminarmente il limite testuale della disposizione da interpretare, ma un'operazione interpretativa più ampia è loro consentita ogniqualvolta quella strettamente letterale palesasse - come nel caso dell'art. 8 L. n. 24/2017 - la propria inidoneità operativa, potendo a questo punto spingersi ad analizzare il contesto storico e valoriale in cui la disposizione è stata approvata (voluntas legislatoris) ovvero giovarsi dell'assonanza con altre norme di analogo tenore (interpretazione analogica) o, ancora, rileggere la disposizione alla luce dell'evoluzione del quadro giuridico complessivo (interpretazione evolutiva).

L'art. 8 L. 24/2017 ha, sin dalla sua entrata in vigore, prestato il fianco ad interpretazioni più o meno coerenti con i principi di rango superiore; tuttavia, a quasi quattro anni dalla sua emanazione, rappresenta ancora un argine rotto al torrente delle opinioni.

La norma in esame, infatti, se ad una prima lettura sembra rappresentare una sorta di dedalo inestricabile, non potrà tuttavia sottrarsi ad un'interpretazione logico-sistematica e costituzionalmente orientata.

L'intervento interpretativo riguardante l'art. 8 L. n. 24/2017, pertanto, dovrà:

  • essere veicolato dall'individuazione della portata della norma nel modo più aderente possibile al fine che ne ha imposto l'adozione;
  • risultare ragionevole ed essere fondato su quegli interessi specifici e circoscritti tipici della norma de qua (la quale, configurandosi come norma speciale, è destinata a regolare la specifica materia della responsabilità professionale da fatto sanitario), in ossequio all'insegnamento tramandatoci da Santi Romano secondo cui “L'interpretazione, infatti, non è che il riflettersi del diritto vigente nell'intelletto di chi vuole conoscere tale diritto, e questo riflettersi è - o almeno dovrebbe essere - come il riflettersi in uno specchio”.

Finalità dell'A.T.P. conciliativo nella L. 24/2017

L'A.T.P. conciliativo (strumento introdotto con la L. 80/2005) assolve ad una funzione sia conciliativa che di istruzione preventiva. Esso, a differenza dell'A.T.P. “standard” disciplinato dall'art. 696 c.p.c., può essere instaurato anche al di fuori delle condizioni di cui all'art. 696 c.p.c., comma 1, il quale fa espresso riferimento al presupposto dell'urgenza (periculum in mora).

La ratio sottesa a questo “nuovo” strumento di istruzione preventiva (il quale, invero, assolve comunque ad una funzione anche latamente cautelare, v. Cass. 26 settembre 2019 n. 23976) è, infatti, quella di:

  • favorire l'interesse pubblico alla deflazione del contenzioso civile, prevenendo liti che potrebbero essere composte prima di giungere alla fase propriamente contenziosa (ponendosi al fianco di altre procedure alternative di risoluzione della lite tra cui spiccano, prime tra tutte, la mediazione finalizzata alla conciliazione disciplinata dal D.lgs. 4 marzo 2010 ,n. 28 e la negoziazione assistita disciplinata dal D.L. 12 settembre 2014 n. 132);
  • anticipare l'assunzione di un mezzo istruttorio in vista dell'eventuale successivo giudizio di merito, in cui potrà essere acquisito ad istanza delle parti, ex art. 696-bis, comma 5, c.p.c. ed utilizzato dal giudice quale fonte oggettiva di prova;
  • rispettare i principi di rango superiore, unionisti e costituzionali, del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata” (ex artt. 6, paragrafo 1, Convenzione Europea, 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e 111, comma 2, ultima parte, Cost.) sia prevenendo liti giudiziali, sia, in caso di insuccesso della composizione bonaria della lite e di successiva instaurazione del giudizio risarcitorio, accelerandone la durata visto che, come accennato, ai sensi dell'art. 696-bis, comma 5, c.p.c., “ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito”.

Deve ritenersi pertanto che il legislatore del 2017 abbia prediletto l'utilizzo di tale strumento per ovvie motivazioni pragmatiche, legate alle predette finalità che, di fatto, possono esplicarsi solo facendo prevalere il diritto sostanziale su quello processuale. Essendo infatti le cause di medmal fondate sull'elemento tecnico di natura medico-legale, solo mediante una consulenza medica - che è la fonte di prova maggiormente compatibile con tale tipologia di contenzioso - le parti potranno ponderare attentamente il rapporto tra costi e benefici connesso alla proposizione della domanda con l'instaurazione del successivo giudizio di merito e, pertanto, delle due l'una: o saranno maggiormente indotte a conciliare ante-causam a fronte delle risultanze della consulenza espletata oppure, qualora la conciliazione non riesca, potranno in ogni caso avvalersi di un procedimento più snello (poiché da instaurarsi nelle forme del rito sommario di cognizione) ove la fase istruttoria è già stata in parte espletata ed il giudice ha già sufficienti elementi per decidere, quantomeno, sull'an debeatur.

E se la controparte, all'atto della costituzione nel procedimento di A.T.P. Conciliativo, dichiara a priori di non voler conciliare, è da ritenersi comunque ammissibile l'espletamento della C.T.U.?

A tal proposito deve ritenersi superato quell'orientamento, a dire il vero minoritario, sviluppatosi in materia di A.T.P. conciliativo ante L. 24/2017 secondo cui la consulenza sarebbe da dichiararsi inammissibile ogniqualvolta il soggetto passivo contesti la possibilità conciliativa e/o eriga difese incompatibili con uno scenario di composizione della lite.

Infatti, coerentemente con le predette finalità dell'istituto, la possibilità conciliativa non deve necessariamente preesistere allo svolgimento della C.T.U., ma è sufficiente che essa rappresenti un potenziale esito del procedimento: se così non fosse si finirebbe infatti per violare il dettato dell'art. 24 Cost. poiché si lascerebbe alla totale discrezione della parte convenuta-resistente l'applicabilità dell'istituto, facultando ingiustamente la stessa di paralizzare l'iniziativa del danneggiato-ricorrente con la mera contestazione della possibilità conciliativa e/o di taluni aspetti riguardanti l'an debeatur (i quali, eventualmente, verranno in rilievo nella successiva fase di merito).

Il ruolo epicentrico dell'A.T.P. conciliativo nella L. 24/2017

Nonostante la condizione di procedibilità della domanda prevista dai primi due commi dell'art. 8 L. 24/2017 sia configurata come duplice e alternativa (A.T.P. conciliativo – mediazione finalizzata alla conciliazione), il tenore letterale della norma ed alcuni rilievi di ordine sistematico portano a ritenere che vi sia una maggior propensione del legislatore per un sostanziale e fruttuoso espletamento dell'A.T.P. conciliativo a fronte di una, quasi sempre inefficace, procedura di mediazione.

La maggior rilevanza che il legislatore pare aver riservato all'A.T.P. conciliativo risulta in primis dal dettato dell'art. 8 e dal suo ordine di redazione, in quanto:

- al primo comma impone a “Chi intende esercitare un'azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria” di proporre ricorso per A.T.P. conciliativo;

- al primo periodo del secondo comma dispone espressamente che la presentazione di tale ricorso “costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento”;

- solo al secondo periodo del secondo comma prevede che “è fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione”.

Tale ultima previsione, il cui tenore appare francamente di “residuale”, non sembrerebbe distante dal tentativo di tenere in piedi solo formalmente (e per ragioni probabilmente estranee al diritto), un istituto che ha dimostrato tutti i suoi limiti applicativi in materia di responsabilità sanitaria.

Nell'ottica di un necessario principio di effettività, infatti, appare manifesto che la procedura di mediazione si sia rivelata un istituto deludente, di esigua efficienza pratica e svuotato di contenuto per via della comprovata insufficienza nel fornire elementi oggettivi su cui edificare una dialettica conciliativa.

La propensione del legislatore per un esperimento non solo formale ma, soprattutto, sostanziale dell'A.T.P. conciliativo, si evince ancor più dall'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 8 L. 24/2017, il qualeprevede che, nel caso in cui, entro la prima udienza (ad istanza del convenuto-resistente o anche d'ufficio) venga in rilievo che il procedimento di A.T.P. Conciliativo “non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è conclusoallora il giudice “assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento, facendo riferimento, in tale previsione, esclusivamente all'A.T.P. Conciliativo e non anche all'alternativa mediazione.

Conforta tale tesi, ancora una volta, il già richiamato letterale disposto dell'art. 696-bis, comma 1, ultimo periodo, c.p.c., il quale prevede che “Il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione tra le parti”.

L'interpretazione sistematica dell'art. 8, comma 3, L. n. 24/2017

Appare irragionevole ritenere, per quanto sinora esposto, che il fruttuoso esperimento dell'A.T.P. Conciliativo - in quanto strumento processuale de-formalizzato e non assoggettato al regime delle preclusioni tipico del processo civile - possa soggiacere a limitazioni formali (come l'infruttuoso decorso di termini di cui all'art. 8, comma 3) e, dunque, non giungere sino al sostanziale espletamento della C.T.U. medico-legale: se così non fosse dovrebbe dubitarsi della ratio dell'istituto, dell'intera L. 24/2017 e dovrebbe altresì affermarsi che il legislatore non abbia inteso perseguire quei primari obiettivi di efficiente gestione e di possibile deflazione del contenzioso nonché il rispetto dei principi del giusto processo i quali trovano il proprio referente costituzionale diretto nell'art. 111 Cost. oltre che negli artt. 6, paragrafo 1, Convenzione Europea, 47, 2° comma, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Partendo dalle premesse sistematiche di cui sopra e procedendo ad una ri-lettura sintetica dell'art. 8 L. 24/2017 in tale chiave, appare ragionevole ritenere che:

  • la finalità della norma vada individuata nel tentativo di conciliazione, non già nel mero fatto formale di aver depositato il ricorso ex art. 696-bis c.p.c., altrimenti si tenderebbe ad assegnare all'A.T.P. conciliativo le medesime ancillari sorti della procedura di mediazione (che, nell'ultima decade, ha prevalentemente contribuito a burocratizzare e rallentare il contenzioso e non certo a deflazionarlo);
  • la norma ex art. 8 L. 24/2017 si limita ad enunciare l'ipotesi di fallimento della conciliazione, ma non ne regola gli effetti, per cui la disciplina della stessa dovrà ricavarsi dalla lettura in combinato disposto con la norma codicistica ex art. 696-bis c.p.c (pur sempre alla luce dei principi di rango superiore di cui sopra);
  • secondo il disposto dell'art. 696-bis, comma 1, ultima parte, c.p.c., il C.T.U., prima di depositare la relazione in cancelleria (o sul ruolo telematico, ndr), tenta la conciliazione tra le parti “ove possibile”, cioè in base al comportamento favorevole o meno delle parti;
  • ove la conciliazione riuscisse non si giungerà ad alcun giudizio di merito poiché si applicheranno i commi 2 e 3 dell'art. 696-bis c.p.c e, pertanto, si formerà processo verbale, al quale “il Giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo ai fini dell'espropriazione e dell'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale”;
  • ove la conciliazione non riuscisse, si applicherà l'art. 8, comma 3, L. n. 24/2017, secondo cui la domanda è ritenuta comunque munita di procedibilità;
  • il deposito del ricorso ex art. 702-bis e ss. c.p.c. entro il termine di 90 giorni fa salvi gli effetti della domanda: tali “effetti”, sebbene non specificati dalla norma in esame, parrebbero essere quelli relativi agli aspetti processuali e sostanziali della domanda di merito, tra i quali è possibile annoverare, esemplificativamente e non certo esaustivamente, quelli relativi:
    • all'individuazione del momento determinante della giurisdizione e della competenza, ex art. 5 c.p.c.;
    • all'applicazione del c.d. criterio della prevenzione in caso di litispendenza, ex art. 39, u.c., c.p.c., in virtù del quale la competenza spetta al giudice adito per primo;
    • alla competenza territoriale esclusiva ed inderogabile, per il giudizio di merito, del medesimo giudice che ha trattato il procedimento di A.T.P. conciliativo;
    • alla sospensione dell'effetto interruttivo della prescrizione, in virtù del combinato disposto degli artt. 2943 e 2945, comma 2, c.c., , in quanto quello interruttivo-istantaneo decorrente dalla notifica del ricorso e del pedissequo decreto del giudice non dovrebbe disperdersi in virtù della considerazione che l'istanza di A.T.P. conciliativo è un atto sia conservativo che di costituzione in mora del debitore il quale, pertanto, rientra nell'ampia previsione di cui all'art. 2943, commi 1 e 3, c.p.c.;
    • all'impedimento della decadenza;
    • alla successione nel processo, ex art. 110 c.p.c.;;
    • alla perpetuatio legitimationis, ex art. 111 c.p.c.;
    • alla ragionevole durata dell'intero procedimento - che parrebbe essere unitario, seppur a struttura bifasica, in quanto comprende sia l'istruzione preventiva della controversia che la sua cognizione (sommaria o, eventualmente, ordinaria) - ai fini del riconoscimento, in caso di sua durata irragionevole, dell'equa riparazione ex L. 89/2001 (c.d. Legge Pinto);
  • il ricorso art. 702-bis e ss. c.p.c. va depositato innanzi allo stesso giudice che ha trattato il procedimento di A.T.P. conciliativo.

Fin qui, per ciò che concerne la risposta strettamente connessa al quesito operativo oggetto di analisi, si potrebbe sostenere che, anche se il procedimento di A.T.P. conciliativo non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi, non significa di per sé che non possa continuare.

Volendo, in via residuale, far ricorso alla più elementare logica processuale, parrebbe lecito chiedersi: quale conciliazione sarebbe possibile senza il previo espletamento di una C.T.U.? Solo un'interazione reale e tangibile con il C.T.U., invero, rende possibile il raggiungimento dell'obiettivo conciliativo-deflattivo cui tende l'istituto in esame.

Anche qualora si volesse “salvare” l'interpretazione restrittiva proposta dalla struttura sanitaria resistente nel caso oggetto d'analisi, bisognerebbe tuttavia rilevare che essa rientra in un'altra ipotesi e, cioè, quella ove il danneggiato proponga il giudizio risarcitorio di merito senza farlo precedere da alcuna delle alternative condizione di procedibilità (A.T.P. conciliativo o mediazione).

In tal caso la littera legis dell'art. 8 L. 24/2017 risulterebbe ancora una volta favorire l'effettivo espletamento della C.T.U. e la concreta possibilità conciliativa laddove prevede, come già esposto, che il giudice, su eccezione di parte resistente o d'ufficio (ma non oltre la prima udienza), rileverà il vizio di improcedibilità e disporrà che dinanzi a sé, entro quindici giorni, sia introdotto il procedimento di A.T.P. conciliativo (qualora prima del giudizio di cognizione non sia stato espletato nè l'A.T.P. conciliativo né la procedura mediazione) ovvero che sia presentata l'istanza per il completamento dello stesso (qualora sia iniziato ma non si sia concluso).

Tuttavia residua un ulteriore problema: sembrerebbe infatti, da una superficiale lettura dell'art. 8, comma 3, L. n. 24/2017, che ciò che determina realmente l'improcedibilità della domanda sia il mancato rispetto del termine di novanta giorni, seppur:

  • esso non sia espressamente previsto come perentorio;
  • dal mancato rispetto dello stesso la norma non faccia discendere alcuna esplicita decadenza.

In merito la norma è assai equivoca, poiché sembrerebbe accomunare indistintamente la disciplina relativa alla procedibilità della domanda e quella relativa agli effetti della stessa.

Il tenore strettamente letterale della stessa, infatti, in assenza di un segno di interpunzione in luogo della congiunzione “e” adoperata dal legislatore al comma 3, terza alinea, porterebbe a ritenere che il termine di novanta giorni entro cui la parte ricorrente debba instaurare il giudizio di merito - decorrente da uno dei due dies a quo variabili previsti dalla norma (deposito della relazione tecnica - spirare del termine perentorio semestrale) - sia da considerare come un'ulteriore condizione di procedibilità.

Attribuire, tuttavia, a tale termine di novanta giorni una funzione di ulteriore condizione di procedibilità, sembrerebbe un'estrema forzatura in quanto andrebbe ad aggiungersi a quella già prevista dall'art. 8, comma 1, L. n. 24/2017.

Tale interpretazione, ad ogni buon conto, malgrado abbia trovato una minoritaria condivisione in dottrina ed in giurisprudenza:

  • si pone in contrasto con le preminenti finalità di efficiente gestione del contenzioso nonché di generale economia processuale su accennate;
  • impedirebbe il rispetto dei principi di rango superiore del giusto processo e della sua ragionevole durata;
  • non favorirebbe gli obiettivi di deflazione del contenzioso sottesi all'intera riforma ex L. 24/2017.

Originando, pertanto, ancora una volta dalle premesse sistematiche affrontate e proseguendo nella ri-lettura sintetica dell'art. 8 L. 24/2017 in tale chiave, parrebbe lecito ritenere che:

  • l'introduzione del giudizio di merito entro i novanta giorni rappresenti solo un'attività richiesta al ricorrente-attore ai fini della salvezza degli effetti già prodotti con il deposito dell'istanza di A.T.P. conciliativo;
  • l'interpretazione che ritenga ammissibile la contestata tesi della doppia condizione di procedibilità risulterebbe errata anche alla luce della necessità d'interpretare i limiti posti dal legislatore all'esercizio del diritto di azione, ex art. 24 Cost., solo nella corretta prospettiva della definizione conciliativa della controversia (cfr. Corte Cost. n. 403/2007; Corte Cost. n. 276/2000);
  • la ratio dell'imposizione del termine di novanta giorni è, al contrario, quella di velocizzare il passaggio al giudizio di merito e la “sanzione” derivante dall'inattività della parte ricorrente-attrice in tal senso consisterà solo nella mancata conservazione degli effetti della domanda risarcitoria di merito, la cui produzione viene fatta decorrere fin dall'instaurazione del procedimento di A.T.P. conciliativo.

Come accennato, infatti, secondo l'interpretazione dominante, il ricorso ex artt. 696-bis c.p.c. e 8 L. 24/2017 e quello promosso ex art. 702-bis e ss. c.p.c. non darebbero vita a due procedimenti autonomi bensì rappresenterebbero due distinte fasi del medesimo procedimento (al pari dei procedimenti possessori, che hanno struttura bifasica).

La prevalenza che il legislatore ha conferito all'A.T.P. conciliativo trova ulteriore conferma, infatti, nella prevista anticipazione del mezzo istruttorio tramite la consulenza medica preventiva che potrà, successivamente, rendere più snella la fase di merito (la quale assume di regola, coerentemente, le forme del rito sommario di cognizione ex art. 702-bis e ss. c.p.c.).

Aderendo all'interpretazione della struttura sanitaria-resistente nel caso oggetto di analisi - secondo cui il termine di novanta giorni decorrerebbe inopinabilmente dalla scadenza del termine di sei mesi a prescindere dalla conclusione o meno dell'A.T.P. conciliativo - si giungerebbe alla paradossale conclusione di un legislatore che, da un lato, offre uno strumento che percorre l'intento di una conciliazione ante causam della lite e, dall'altro, incentiva la parte ricorrente-attrice ad instaurare un giudizio di merito a mo' di salto nel buio, senza che sia stata espletata alcuna C.T.U. medico-legale ed ove, dunque, non è in alcun modo prevedibile l'esito della lite, rendendo tale strada più tortuosa, lunga (soprattutto dal punto di vista istruttorio), rischiosa, costosa e meno agevole.

Sostenere, altresì, che il mancato rispetto del termine di novanta giorni previsto dall'art. 8, comma 3, L. n. 24/2017 debba comportare l'estinzione del procedimento di A.T.P. conciliativo (o ne impedisca la prosecuzione con il concreto espletamento della Consulenza medico-legale) porterebbe a conclusioni irrazionali, paradossali e, senza alcun dubbio, incostituzionali.

Giova ricordare, infatti, che le disposizioni le quali, mediante decadenze o preclusioni, limitano l'accesso alla giustizia (da intendersi anche quelle che prevedono condizioni di procedibilità) hanno carattere eccezionale e, pertanto, ai sensi dell'art. 14, preleggi, vanno interpretate restrittivamente.

È ius receptum che le stesse, infatti:

  • “…costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Cost. n. 403/2007; Cass. n. 967/2004);
  • devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cass. n. 26560/2014; cfr. Cass. n. 6130/2011).

L'unica interpretazione dell'art. 8 L. n. 24/2017 che parrebbe costituzionalmente orientata e conforme ai principi di rango superiore su enunciati (economia processuale, deflazione del contenzioso, ragionevole durata del processo) nonchè al canone ermeneutico del legislatore consapevole dovrebbe essere, pertanto, quella che:

  • consideri assolta la condizione di procedibilità della domanda risarcitoria con il decorso del termine di 6 mesi dal deposito del ricorso ex art. 696-bis c.p.c. e 8 L. 24/2017, senza che ciò possa in alcun modo pregiudicare la fruttuosa conclusione del procedimento di A.T.P. conciliativo tramite l'espletamento della C.T.U. medico-legale (finanche espletata oltre i termini ex art. 8, comma 3, L. 24/2017);
  • consideri come unica conseguenza derivante dal mancato rispetto del termine di sei mesi la circostanza che il soggetto danneggiato dall'evento di malpractice medica potrà ritenere la sua domanda munita di procedibilità ed instaurare (o continuare) il giudizio di merito;
  • ritenga il termine di 90 giorni:
    • non afferente la condizione di procedibilità;
    • rilevante ai soli fini della salvezza degli effetti della domanda, i quali si ritengono prodotti sin dal deposito del ricorso per A.T.P. conciliativo;
  • ritenga l'attività istruttoria “tardivamente” espletata (dopo lo spirare dei sei mesi e/o dei 90 giorni) comunque opponibile alle medesime parti nel successivo giudizio di merito tramite acquisizione della relazione del consulente, ex art. 696-bis, comma 5, c.p.c. (o, altresì, anche tramite la sua produzione da parte dell'attore, nel giudizio di merito, con attestazione di conformità sottoscritta dal difensore).

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