Presupposti e differenze tra revoca e risoluzione del concordato preventivo: la Cassazione fa il punto

Francesca Giovannardi
03 Febbraio 2021

In tema di concordato preventivo, l'avvenuta omologazione dello stesso ne impedisce la possibilità di revoca, configurabile, invece, solo nell'intervallo temporale ricompreso tra l'apertura della procedura e la sua omologazione.
Massima

In tema di concordato preventivo, l'avvenuta omologazione dello stesso ne impedisce la possibilità di revoca, configurabile, invece, solo nell'intervallo temporale ricompreso tra l'apertura della procedura e la sua omologazione. In proposito, la revoca dell'ammissione al concordato differisce dalla sua risoluzione per inadempimento, in quanto sono diversi i presupposti: la prima, difatti, riguarda la carenza delle condizioni di ammissibilità del concordato o il compimento di atti in frode o non autorizzati (oltre alla cessazione dell'attività di impresa o la sua manifesta dannosità nell'ipotesi di concordato c.d. "in continuità"); la seconda, invece, attiene all'inadempimento degli obblighi concordatari.

Il caso

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ripercorre in chiave critica l'iter logico argomentativo delineato dai Giudici di primo e secondo grado, mettendo in luce le fondamentali differenze intercorrenti tra la revoca dell'ammissione alla procedura concordataria e la risoluzione del concordato preventivo, con particolare focus sui relativi requisiti e presupposti applicativi.

Per meglio comprendere la portata della pronuncia in commento, è opportuno ripercorrere brevemente la vicenda processuale da cui trae origine.

Una Ditta individuale, creditrice di una S.a.s. in concordato preventivo, proponeva ricorso al Tribunale di Como domandando la risoluzione per inadempimento del concordato preventivo, omologato con decreto in data 16.02.2015 e, conseguentemente, richiedeva il fallimento della società debitrice.

Con sent. n. 43/2018, il Tribunale lariano si pronunciava disponendo sia la risoluzione del concordato, sia la revoca della S.a.s. dai benefici dell'ammissione alla procedura concordataria.

Con un secondo contestuale provvedimento - sent. n. 44/2018 - il Tribunale dichiarava, altresì, il fallimento della società e, per estensione, il fallimento della socia accomandataria.

Quest'ultima proponeva reclamo avanti alla Corte d'Appello di Milano per ottenere la riforma (unicamente) della sent. n. 43/2018, nella sola parte in cui pronunciava la predetta revoca: il gravame veniva rigettato e, successivamente, instaurato ricorso avanti la Suprema Corte che, in parziale accoglimento delle istanze svolte dalla ricorrente, hanno cassato la pronuncia d'appello e, decidendo nel merito, hanno annullato la sent. n. 43/2018 resa dal Trib. Como “nella sola parte in cui ha disposto la revoca dell'ammissione” della S.a.s. fallita dai benefici della procedura di concordato preventivo, ferma restando la ivi sancita risoluzione di quel concordato.

La questione

Alla pronuncia in commento, come anticipato, sono sottese due questioni giuridiche strettamente collegate fra loro: la prima, è relativa alle differenze di carattere sostanziale fra gli istituti della revoca dell'ammissione del debitore alla procedura concordataria e la risoluzione del concordato preventivo; la seconda, consequenziale alla prima, è relativa al potere del Tribunale di pronunciare la revoca del concordato quando gli sia domandata la risoluzione.

La revoca dell'ammissione ai benefici del concordato preventivo – fattispecie prevista e disciplinata all'art. 173 l. fall. – si sostanzia nella sanzione predisposta dall'ordinamento nei confronti del debitore che abbia posto in essere atti di frode in pregiudizio dei creditori (al comma 1 è riportato un elenco esemplificativo), oppure abbia compiuto atti non autorizzati dal giudice delegato ex art. 167 l. fall., o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori nel corso della procedura concordataria (comma 3).

La norma prevede, altresì, che la revoca possa essere pronunciata in caso di sopravvenuta mancanza delle condizioni di ammissibilità al concordato: unico caso, dunque, in cui rilevano non già gli atti posti in essere dal debitore, bensì circostanze oggettive e apprezzabili in quanto tali.

L'apertura della procedura concordataria e l'omologazione del concordato preventivo costituiscono, rispettivamente, il dies a quo e il dies ad quem per l'esperibilità del rimedio in parola.

A fronte del decreto di revoca, il Tribunale potrà altresì dichiarare il fallimento, ma solo su espressa istanza del creditore o del Pubblico Ministero.

Il procedimento per la revoca può essere avviato su iniziativa del Commissario giudiziale, che, previo accertamento – direttamente o su segnalazione dei creditori – della sussistenza dei presupposti fattuali richiesti dalla legge, riferisce al Tribunale: una volta aperto “d'ufficio” il procedimento, il Commissario giudiziale deve darne comunicazione a mezzo p.e.c. ai creditori ed al P.M., al fine di consentir loro di presentare istanza di fallimento, che verrà dichiarato con sentenza, ricorrendone i relativi presupposti.

In punto di revoca, nel caso in cui il debitore rinunci sua sponte alla domanda di concordato preventivo e prima che il tribunale ne dichiari per l'effetto l'improcedibilità, il P.M. può comunque formulare la richiesta di fallimento, purché ravvisi l'esistenza di atti di frode (Cass. Civ. 7 dicembre 2020, n. 27936).

Il decreto con cui viene disposta la revoca, reclamabile da qualunque interessato, determina la cessazione della procedura concordataria: qualora a tale provvedimento non si accompagni la dichiarazione di fallimento, si ritiene ammissibile in dottrina la presentazione di una nuova proposta di concordato preventivo (cfr. Maffei Alberti, Commentario breve alla Legge Fallimentare, Milano, 2013, 1158).

Quanto, invece, alla risoluzione del concordato preventivo, l'istituto è previsto e disciplinato all'art. 186 l. fall. e può trovare applicazione, su istanza di ciascuno dei creditori, laddove il debitore si renda responsabile di un inadempimento delle obbligazioni concordatarie, che sia di non scarsa importanza.

La sussistenza di tale ultimo requisito, mutuato dall'art. 1455 c.c., deve essere valutata alla luce della proposta complessivamente considerata e non già secondo la prospettiva del singolo creditore o della singola obbligazione.

Ne discende che l'accertamento dell'inadempimento deve tener conto, necessariamente, delle diverse modalità del concordato, dipendendo dalle prospettive di soddisfacimento dei creditori falcidiati e, quindi, dalla modalità di costruzione del piano concordatario e dei contenuti della proposta.

La risoluzione del concordato, similmente a quanto accade nel diritto dei contratti, può trovare applicazione unicamente nella fase c.d. “esecutiva” dell'accordo, ossia successivamente all'omologazione, purché sia proposta entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato (ossia dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione, quando la proposta di omologa non indichi un termine specifico – cfr. Cass. Civ. 20 dicembre 2011, n. 27666) e purché le obbligazioni concordatarie non siano state assunte da un terzo con immediata liberazione del debitore: in tale ultimo caso, la disciplina di cui all'art. 186 l. fall. non trova applicazione.

Il procedimento per la risoluzione del concordato preventivo segue le medesime regole, ove compatibili, previste per la risoluzione del concordato fallimentare di cui all'art. 137 l. fall.; tuttavia, secondo un recente orientamento, la risoluzione del concordato preventivo deve essere pronunciata con decreto, mentre quella del concordato fallimentare con sentenza, in virtù dei differenti effetti prodotti dai due diversi istituti (Cass. Civ. 12 giugno 2020, n. 11344).

La risoluzione del concordato preventivo comporta la rimozione degli effetti da esso determinati, quali anzitutto l'esdebitazione, con la conseguente possibilità di addivenire ad una successiva pronuncia di fallimento, che può essere anche dichiarato contestualmente alla risoluzione, purché ne sia stata fatta espressa domanda e ne sussistano i relativi presupposti (Cass.Civ., SS.UU., 18 aprile 2013, n. 9409), quali lo stato d'insolvenza ex art. 5 l. fall. e il raggiungimento della c.d. soglia dell'indebitamento rilevante ex art. 1 l. fall.

Peraltro, secondo recentissima giurisprudenza, sarebbe possibile addivenire ad una pronuncia di fallimento senza la previa risoluzione del concordato preventivo, purché il creditore faccia valere l'omesso soddisfacimento del proprio credito nella misura falcidiata concordataria (fallimento c.d. omisso medio). Dunque, dopo l'omologazione, il creditore concordatario, per la tutela del proprio credito, potrebbe avvalersi - oltre che della possibilità di intraprendere l'esecuzione sui beni del concordato - anche della presentazione dell'istanza di fallimento, senza che la risoluzione costituisca più un passaggio obbligato (cfr. App. Messina 20 febbraio 2020, n. 90).

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento mette in luce le differenze tra le due fattispecie – revoca e risoluzione - disciplinate rispettivamente agli artt. 173 l.fall. e 186 l.fall., sopra sinteticamente analizzate.

La Suprema Corte, nel segnalare le differenze sostanziali fra i due istituti, cassa la sentenza della Corte d'Appello di Milano e annulla la pronuncia del Tribunale di Como nella sola parte in cui è stata disposta la revoca ex art. 173 l. fall. a fronte della previa risoluzione del concordato preventivo, e ciò per un duplice ordine di ragioni.

Innanzitutto, il decreto di omologazione, non impugnato, era oramai passato in giudicato da più di due anni, così definendo la procedura concordataria: tale circostanza, precisa la S.C., costituisce invero il termine ultimo ai fini della proposizione dell'istanza per la revoca ai sensi dell'art. 173 l. fall. che, dunque, non è più proponibile nella fase relativa all'esecuzione del concordato.

Da qui, infatti, emerge una delle principali differenze tra i due istituti giuridici che emerge sin dai presupposti: mentre la revoca del concordato è il rimedio alla mancanza delle condizioni di ammissibilità della procedura (o al compimento, da parte del debitore, di atti non autorizzati o in frode), la risoluzione costituisce il rimedio all'inadempimento degli obblighi concordatari e, dunque, ad un'inesatta esecuzione del concordato ammissibile e ammesso.

In secondo luogo, la Cassazione pone in risalto la “chiara diversità di presupposti caratterizzanti, rispettivamente, la revoca dell'ammissione al concordato e la sua risoluzione per inadempimento”, che vengono brevemente richiamati in conformità al disposto, rispettivamente, degli artt. 173 e 186 l. fall.

Conclude ritenendo che il Tribunale di Como “… una volta accertati i presupposti per tale declaratoria e pronunciata la stessa [n.d.r., si fa riferimento alla risoluzione per inadempimento], certamente non avrebbe potuto procedere pure alla “revoca” dell'ammissione della menzionata società dal beneficio della procedura di concordato preventivo”.

Prosegue il Collegio, peraltro, sottolineando come nel giudizio di primo grado fosse stata formulata dal creditore ricorrente la sola domanda di risoluzione: per l'effetto, la Corte d'Appello di Milano avrebbe dovuto espungere dalla pronuncia di primo grado la statuizione sulla revoca, in quanto non solo pronunciata dal Tribunale di Como in difetto dell'accertamento dei relativi presupposti e senza un'espressa richiesta, in tal senso, da parte del ricorrente (o, rectius, di una segnalazione del Commissario giudiziale), ma anche al fine di “evitare ogni pregiudizio anche solo potenzialmente derivante dalla statuizione stessa (cfr. Cass. n. 1619/2004)”.

Il percorso argomentativo tracciato dalla Cassazione rende quantomai evidente come la revoca e la risoluzione si collochino in due fasi temporali differenti, circostanza questa che trova conferma anche nella diversa “posizione” occupata dalle norme nella struttura della legge fallimentare: la revoca ex art. 173 l.fall. è possibile esclusivamente nell'intervallo che intercorre tra l'apertura della procedura e l'omologazione; la risoluzione di cui all'art. 186 l.fall. può essere richiesta da ciascun creditore a seguito del decreto di omologa ex art. 180 l.fall. e, quindi, successivamente alla chiusura del concordato, momento dal quale inizia la fase di esecuzione dello stesso, rispetto alla quale può verificarsi l'evento dell'inadempimento.

Osservazioni

La decisione cui è pervenuta la Suprema Corte traccia una chiara e netta linea di demarcazione tra la fase esecutiva del concordato preventivo e le precedenti fasi dell'approvazione e dell'omologazione; demarcazione questa che appare ancor più netta se si considera che, di contro, la Corte d'Appello aveva ritenuto del tutto irrilevante ogni considerazione “su eventuali imperfezioni formali (o puramente linguistiche) costituite dalla revoca di un concordato per il quale immediatamente prima, nello stesso provvedimento, era stata dichiarata la risoluzione”.

A tale riguardo, la pronuncia in commento si conforma ad un solido orientamento dottrinale e giurisprudenziale, in virtù del quale l'omologazione del concordato preventivo viene individuata quale momento conclusivo della procedura concordataria stessa e quale punto di partenza della successiva fase esecutiva (cfr. Censoni, La revoca dell'ammissione al concordato preventivo dopo le riforme della legge fallimentare, 2013, ilcaso.it; Cass. 16 settembre 2011, n. 18987; Cass. 10 febbraio 2016, n. 2695).

Dunque, a seguito dell'omologazione – nel caso di specie, anteriore di ben due anni alla vicenda processuale – non sarebbe stata possibile alcuna pronuncia in punto di revoca.

Deve, altresì, osservarsi che disporre la revoca senza una puntuale osservanza dei presupposti di cui all'art. 173 l. fall. può avere delle rilevanti conseguenze anche in relazione alla declaratoria di fallimento che, in esito alla Riforma del 2007, rappresenta oggi una mera eventualità.

Difatti, i principi affermati dalla Corte di Cassazione sono estremamente rilevanti anche con riferimento alle conseguenze: in caso di revoca ex art. 173 l. fall., le probabilità di una pronuncia di fallimento sono nettamente superiori all'ipotesi di risoluzione, poiché, se viene aperto il procedimento di revoca, il Tribunale deve darne comunicazione al P.M. ed ai creditori, che vengono così allertati affinché possano avanzare istanza di fallimento. E se l'imprenditore che ha proposto il concordato revocato versa in stato d'insolvenza, è verosimile che la declaratoria di fallimento venga pronunciata di default poiché, da un lato, il presupposto soggettivo di fallibilità è lo stesso richiesto per il concordato e, dall'altro, perché il P.M. richiederà quasi certamente il fallimento, considerato che, per legge, viene informato d'ufficio direttamente dal tribunale.

Nella diversa ipotesi di risoluzione ex art. 186 l.fall., invece, la dichiarazione di fallimento potrà aversi sempre su istanza di un creditore o del P.M., per i quali non è, tuttavia, prevista alcuna comunicazione informativa dell'avvenuta risoluzione, almeno inizialmente. Non venendo di fatto sollecitati come per la diversa ipotesi di revoca ex art. 173 l. fall., la declaratoria di fallimento è dunque potenziale e su specifica domanda di avvio di nuovo procedimento ex art. 15 l.fall.

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