Responsabilità medica: quando le conclusioni tecnico-scientifiche dei consulenti non sono tra loro compatibili, il giudice deve disporre una perizia

Paolo Della Noce
05 Febbraio 2021

Qualora sussistano, in relazione a pluralità di indagini svolte da periti e consulenti, tesi contrapposte sulla causalità materiale dell'evento, il giudice, previa valutazione dell'affidabilità metodologica e dell'integrità delle intenzioni degli esperti, deve accertare la sussistenza di una soluzione sufficientemente affidabile, costituita da una metateoria frutto di una ponderata valutazione delle differenti rappresentazioni scientifiche del problema.

«Qualora sussistano, in relazione a pluralità di indagini svolte da periti e consulenti, tesi contrapposte sulla causalità materiale dell'evento, il giudice, previa valutazione dell'affidabilità metodologica e dell'integrità delle intenzioni degli esperti, che dovranno delineare gli scenari degli studi e fornire adeguati elementi di giudizio, deve accertare, all'esito di un'esaustiva indagine delle singole ipotesi formulate dagli esperti, la sussistenza di una soluzione sufficientemente affidabile, costituita da una metateoria frutto di una ponderata valutazione delle differenti rappresentazioni scientifiche del problema, in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Altrimenti potendo concludere per l'impossibilità di addivenire ad una conclusione in termini di certezza processuale. Laddove, però, il confronto tra i tecnici, come avvenuto nel caso di specie, non consenta di addivenire a conclusioni tecnico-scientifiche tra loro compatibili, ci si trova dinanzi ad uno scenario che è di tutta evidenza superabile solo attraverso una perizia, eventualmente collegiale, da disporsi in dibattimento».

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3932/21, depositata il 2 febbraio.

Il caso. La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che aveva condannato l'imputata, medico di guardia presso il Pronto Soccorso di Bracciano, per il reato di cui all'art. 589 c.p., poiché, per colpa consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, dopo avere preso in carico un paziente lo dimetteva – con diagnosi di polmonite e prescrizione di rivolgersi nuovamente ai presidi sanitari qualora i sintomi si fossero aggravati – omettendo di effettuare alcuni accertamenti e così causandone, tre giorni dopo le dimissioni, il decesso per infarto miocardico acuto.
Nella specie, il paziente recatosi in Pronto Soccorso era stato dapprima preso in carico da un diverso medico, che aveva effettuato il triage accertando la presenza di dolore toracico variabile con il respiro e dunque prescrivendo l'esecuzione di un elettrocardiogramma, di una lastra al torace e del prelievo venoso per il dosaggio dei parametri generali e soprattutto degli enzimi di miocardionecrosi.
Effettuato il passaggio di consegne alla fine del turno, l'imputata avrebbe – in ipotesi accusatoria – omesso di valutare correttamente l'alterazione emersa dall'elettrocardiogramma, di ripetere l'elettrocardiogramma e le analisi enzimatiche, e di trattenere il paziente in osservazione, così cagionandone colposamente il decesso.
L'affermazione del giudizio di responsabilità si fondava, in particolare, sulle risultanze degli accertamenti autoptici, interpretabili secondo la tesi del Consulente del Pubblico Ministero, poi recepita dai Giudici di merito, nel senso che l'infarto fosse già in corso (e quindi individuabile dai sanitari) all'epoca del ricovero.

Contro la sentenza di merito proponevano ricorso per Cassazione sia l'imputata, sia le parti civili.
Con il primo motivo, l'imputata lamentava mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, nonché inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. e travisamento della prova con riferimento all'esistenza del nesso di causalità: la sentenza di merito avrebbe infatti recepito acriticamente le conclusioni raggiunte dal Consulente del Pubblico Ministero, collocando l'insorgenza dell'infarto in un momento antecedente alle dimissioni ed omettendo di valutare i rilievi del Consulente della difesa relativi all'assenza di riscontro, in sede autoptica, di macrofagi che compaiono entro 72 ore dall'infarto, l'esistenza di un ulteriore episodio di dolore al petto, e la presenza di un'alterazione dell'elettrocardiogramma incompatibile con la patologia che ha causato il decesso, che collocherebbero l'insorgenza dell'infarto in un momento successivo alle dimissioni del paziente, facendo così venire meno il nesso causale tra condotta dell'imputata ed evento morte.
Con il secondo motivo la ricorrente deduceva mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione per assenza dell'elemento soggettivo: oltre a rilevare l'assenza di inquadramento della colpa nella figura dell'imperizia, imprudenza o negligenza, con la conseguente incertezza sulla possibilità di applicazione della causa di non punibilità introdotta dalla legge Gelli-Bianco, si affermava che la condotta della ricorrente non potesse essere qualificata come colpa grave, sia in ragione dei tratti specifici della vicenda, sia perché le linee guida in materia non richiedevano la ripetizione degli esami.
Con il terzo motivo veniva dedotta illogicità della motivazione per travisamento della prova e del fatto, in quanto la sentenza di merito riteneva che il dolore al petto non fosse variabile con il respiro, ricollegando tale dolore all'insorgenza dell'infarto in momento antecedente alle dimissioni e – di conseguenza – non giustificabile la diagnosi di polmonite. La variabilità del dolore in base alla respirazione risultava invece sia dalla cartella clinica di Pronto Soccorso, sia dalla testimonianza del primo medico che aveva preso in carico il paziente.
Con il quarto motivo si lamentava inosservanza ed erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in relazione all'ordinanza, pronunciata dalla Corte d'Appello, con cui si rigettava la richiesta di rinnovazione dibattimentale, ritenuta superflua. La difesa affermava invece che una nuova perizia sui prelievi istologici effettuati in sede autoptica avrebbe potuto consentire l'esatto accertamento del momento di insorgenza dell'infarto. Nel caso in cui residuassero dubbi anche in seguito a tali esami, la difesa richiedeva la riassunzione della testimonianza della moglie della vittima in relazione all'episodio di grave dolore al petto accusato dal defunto il giorno seguente alle dimissioni, riferito in sede di indagini ma non specificamente richiamato in sede dibattimentale.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduceva mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione, travisamento del fatto e violazione di legge per l'assenza di indicazioni relative all'insussistenza, secondo il Giudice di merito, dei presupposti per la conversione della pena.

Le parti civili, invece, lamentavano in primo luogo il mancato esame del motivo di appello riguardante l'erroneità della valutazione, da parte del Giudice di primo grado, dell'esistenza di un concorso di colpa della vittima ed in ogni caso di non averne stabilito l'eventuale percentuale.
In secondo luogo, si lamentava contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, poiché nel riconoscimento del concorso di colpa del paziente era stato dato per certo l'elemento – smentito invece dal compendio probatorio – dell'aggravamento dei dolori al petto successivamente alle dimissioni. Si lamentava, in subordine, l'inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2043, 1227 e 2056 c.c., poiché la mancata indicazione della percentuale di concorso di colpa del deceduto aveva pregiudicato la domanda risarcitoria.

Il contesto normativo. Il Collegio effettuava un'attenta analisi della giurisprudenza di legittimità in materia di rapporti tra decisione dei giudici e sapere scientifico introdotto nel processo.
Veniva, in primo luogo, ricordato l'orientamento ormai consolidato secondo cui il principio dell'“al di là di ogni ragionevole dubbio” non costituisse solamente una regola di giudizio, ma anche una regola che rileva sul piano della formazione della prova e che, come tale, impone che sia acquisito materiale probatorio non di fonte unilaterale o di provenienza super partes in modo tale da realizzare una dialettica processuale che permetta al giudice di orientare in modo adeguato le proprie determinazioni.
Si rammentava, poi, come in tema di affermazione della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio fondata su prove scientifiche, la condanna si debba fondare su un sapere scientifico largamente accreditato dagli studiosi.
La Suprema Corte richiamava, altresì, la sentenza Cozzini (Sez. IV Pen., n. 43786/2010), nonché altre pronunce concordi successive, in cui si è affermata l'indispensabilità del sapere scientifico per il giudice di merito, il quale è uno strumento che consente di giungere all'accertamento del fatto. Pertanto, la summenzionata sentenza chiarisce che il controllo effettuato in sede di Legittimità non può riguardare l'affidabilità o meno di una certa ipotesi scientifica, bensì la valutazione effettuata dal giudice di merito sull'affidabilità delle informazioni scientifiche utilizzate per fornire la spiegazione dei fatti.
Il Collegio citava poi la giurisprudenza in tema di responsabilità per colpa medica secondo cui, in presenza di tesi contrapposte – proposte dai consulenti tecnici e dai periti – relative alla causalità materiale dell'evento, spetta al giudice accertare la sussistenza di una soluzione affidabile, fondata sulle differenti valutazioni scientifiche, ed in grado di confortare le prove emerse nel caso in esame.

La soluzione offerta dalla Corte. Nel caso di specie, il Collegio riteneva che le soluzioni proposte dai consulenti tecnici delle parti non potessero consentire di giungere ad una conclusione tecnico-scientifica utilizzabile dal giudice per ricostruire i fatti, e riteneva dunque necessario che fosse disposta una perizia, anche collegiale, in sede dibattimentale. Al contrario, si evidenziava come in entrambe le sentenze di merito i giudici avessero fatto affidamento sulle sole conclusioni del Consulente dell'accusa, senza peraltro confutare in modo logico e argomentato i rilievi del consulente della difesa. In particolare, non venivano specificate le linee guida che imponevano di trattenere in osservazione un paziente su cui erano stati effettuati accertamenti dai risultati non preoccupanti dal punto di vista della diagnosi di infarto, soprattutto in presenza di una radiografia toracica che faceva propendere per una diagnosi di patologia polmonare.
La Suprema Corte riteneva perciò fondate le censure sollevate dall'imputata in relazione alla logicità e congruità della motivazione, ritenendo assorbiti i motivi di ricorso proposti dalle parti civili.
La contraddittorietà veniva in primo luogo riscontrata nell'affermazione della sussistenza della prova che l'infarto fosse già in atto al momento della dimissione del paziente dal Pronto Soccorso e che vi fossero elementi per riconoscerlo. In proposito, il Collegio rilevava che le conclusioni dei consulenti di parte fossero discordanti e che sarebbe stato dunque logico disporre una perizia al fine di approfondire in maniera chiara i tempi di insorgenza dell'infarto. Omettendo di fare ciò, non si sarebbe provata la colpevolezza dell'imputata oltre ogni ragionevole dubbio, non avendo congruamente confutato le tesi difensive secondo cui l'infarto sarebbe insorto successivamente alle dimissioni dal Pronto Soccorso.

Ulteriori carenze motivazionali venivano rilevate in relazione alla mancata indicazione della legge di copertura scientifica che fonderebbe la necessità di ripetere gli esami diagnostici, atteso che l'elettrocardiogramma risultava normale ed i marker di cardiopatia ischemica avevano dato risultati tranquillizzanti. Inoltre, il giudice di merito non dava conto del perché si fosse ritenuto che il dolore al petto non fosse variabile con il respiro – concordemente a quanto riferito dai testi – nonostante in sede di triage si fosse riportato diversamente. Ancora, non si era adeguatamente tenuto conto del fatto che il paziente avesse ricevuto indicazione di essere seguito da un medico, cosa che non era avvenuta nonostante l'insorgenza di un'ulteriore crisi il giorno successivo alle dimissioni.

Si riteneva, dunque, che la sentenza impugnata dovesse essere annullata con conseguente rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello.
In particolare, la Suprema Corte indicava al Giudice del rinvio la necessità di tenere conto, nel giudizio sulla responsabilità dell'imputata, del risultato degli esami radiografici da cui risultava un addensamento in sede polmonare, ai fini della diagnosi differenziale e quindi alla sussistenza e al grado della colpa dell'imputata, tenendo conto del rilievo difensivo secondo cui l'omissione avrebbe riguardato soltanto la ripetizione degli accertamenti diagnostici nonché di quello relativo al fatto che il medico che aveva inizialmente preso in carico il paziente avesse già diagnosticato una patologia polmonare per cui non si sarebbe trattato di erronea applicazione delle linee guida relative all'infarto bensì dell'applicazione di un diverso protocollo.

(Fonte: www.dirittoegiustizia.it)

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