Il coordinamento tra istanze prefallimentari e ricorsi per soluzione concordata: dalla Legge fallimentare al Codice della Crisi

Giuseppe Rana
05 Febbraio 2021

Le riforme introdotte a partire dal 2005 hanno profondamente modificato la materia dei rapporti e del coordinamento tra differenti istanze di regolazione della crisi/insolvenza, principalmente tra istanza di fallimento e istanza di regolazione concordataria.
Premessa

Le riforme introdotte a partire dal 2005 hanno profondamente modificato la materia dei rapporti e del coordinamento tra differenti istanze di regolazione della crisi/insolvenza: principalmente tra istanza di fallimento e istanza di regolazione concordataria.

Il presupposto della procedura di concordato (e dei nuovi accordi di ristrutturazione) non è più necessariamente lo stato di insolvenza, ma quello di crisi. Inoltre, scompare la dichiarazione di fallimento di ufficio e, dopo la novella di cui alla L. 7 agosto 2012 n. 134, è divenuto possibile anche proporre ricorso per concordato “con riserva”: non coincidendo più i presupposti oggettivi, l'affermazione della preclusione di una procedura rispetto all'altra diventa tutt'altro che semplice.

Si tratta ormai di procedimenti alquanto autonomi tra loro, governati dall'impulso di parte ed aventi oggetto, natura, struttura e disciplina piuttosto diversi e palesemente poco compatibili; d'altra parte nel nuovo sistema, una volta accolto il concordato, è lecito pensare che l'insolvenza, o la crisi che ne è l'antecedente, siano rimossi con un appropriato piano risolutivo e che pertanto non vi è più spazio per il fallimento.

Ma è anche vero che non vi è più una norma che, formalmente ed esplicitamente, impedisca di dichiarare l'insolvenza ed il fallimento quando è stata proposta un'istanza concordataria, come invece era l'art. 160, 1° comma, L. Fall. prima della novella.

Qualcosa di simile vale per le altre procedure c.d. minori.

Inoltre, con l'introduzione del concordato con riserva emerge con tutta evidenza il problema della repressione degli abusi costituiti da ricorsi concordatari puramente dilatori, mentre taluni rimpiangono l'economia processuale che si realizzava, attraverso un'istruttoria sostanzialmente unica, nel vecchio regime.

Sullo sfondo di questo dibattito si possono intravedere quelli che sono i veri nodi strategici del sistema delle relazioni tra percorsi processuali di accesso alla regolazione della crisi: la perimetrazione del potere del tribunale in punto di sindacato rispetto alla soluzione negoziale della crisi e di individuazione in concreto del percorso prioritario; contemporaneamente, l'estenuante e perpetuo tentativo di adattare al mondo concorsuale gli istituti del diritto processuale codicistico (PAGNI, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria prefallimentare, in Il fall., 9, 2013, 1077).

Esaminando i due scenari rappresentati dalla Legge Fallimentare e dal Codice della Crisi di impresa e dell'Insolvenza, o CCII, si può cercare qualche risposta.

La Legge fallimentare riformata

All'indomani della novella del 2005, non è mancato un sia pure marginale orientamento che faceva riferimento alla classica formula della pregiudizialità (peraltro a quel tempo declinata in molte sfumature) del concordato rispetto al fallimento, con conseguente sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c. (Cass. 5 giugno 2009 n. 12986, in Il fall., 2010, 445 ss., con nota di GENOVIVA). Non sembrava però troppo arduo dimostrare l'infondatezza di questo orientamento (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3059).

Infatti, la pregiudizialità-dipendenza, per convinzione largamente maggioritaria, riguarda i rapporti sostanziali: quindi si verifica quando l'esistenza o inesistenza (originaria o sopravvenuta) di un diritto o di uno status dipende dall'esistenza/inesistenza di un diverso diritto o status che si profila, in relazione appunto alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio, quale fatto costitutivo o, al contrario, impeditivo, modificativo o estintivo del primo (BALENA, Elementi di diritto processuale civile, Bari, 2007, vol. II, 248).

Senonché la questione del raccordo tra diversi procedimenti di accesso alla regolazione della crisi di impresa non ha molto a che fare con i rapporti sostanziali: dopo le novelle del 2005 l'accesso al fallimento (in futuro liquidazione giudiziale) ed al concordato preventivo appaiono semmai istituti alternativi che si escludono reciprocamente, salvo poi a regolarne concretamente il raccordo e le eventuali preclusioni che ne derivano (FARINA, Il deposito dell'istanza di concordato preventivo non dà luogo a sospensione dell'istruttoria prefallimentare, nota a Cass. 8 febbraio 2011 n. 3059, cit.; PENTA, I rapporti tra il concordato ammesso, nota a Cass. 30 aprile 2014, n. 9476, in Dir. fall., 2015, II, 647, nota 4).

Dunque, se si vuol evocare la pregiudizialità, ciò sembra possibile solo in senso improprio, riferendosi non alla struttura delle fattispecie sostanziali, ma ad un meccanismo di consequenzialità (della seconda procedura all'esito negativo della prima) ed assorbimento (dei vizi del diniego della prima procedura nella fase impugnatoria della seconda) che agisce sul piano esclusivamente processuale e non produce interferenze sostanziali tra i rapporti oggetto di cognizione.

Secondo altri, dopo la riforma del 2005 al concorso tra le due procedure consegue la « ;sospensione impropria ;» della procedura d'insolvenza (Cass. 11 giugno 2013, n.14684, in Il fallimentarista.it, 24 gennaio 2014, con nota di ROLFI): una sorta di sospensione necessaria ;di creazione pretoria che nella giurisprudenza di merito si ricollegava non di rado all'art. 168 L. fall., con la pretesa conseguenza che in caso di proposizione di ricorso concordatario in bianco opera nei confronti del debitore il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive, ivi compresa quella concorsuale, sino alla definizione della procedura minore.

Tuttavia è noto che secondo i più la sospensione è impropria quando il processo « ;prosegue ;» davanti ad altro giudice per la pendenza in altra sede di questione rilevante per la decisione (ad es. questione pregiudiziale comunitaria o costituzionale) : giudice al quale è riservato il potere decisorio sulla specifica questione per il tempo necessario a definirla.

Per di più, se si considera che il provvedimento di sospensione prevede un solo rimedio, ossia il regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c., e che questo rimedio non sembra applicabile fuori delle sospensioni di cui all'art. 295 c.p.c. e quindi non opera per la sospensione c.d. « ;facoltativa ;» (cioè in ipotesi illegittimamente disposta in base a una valutazione puramente discrezionale del giudice), consegue che il provvedimento di sospensione necessaria, fondato su causa diversa dalla pregiudizialità-dipendenza, non risulta formalmente impugnabile in nessuna sede.

D'altra parte, negli stessi anni in cui ferveva questo dibattito, emergeva un filone della giurisprudenza di merito, guidato dal Tribunale di Milano, che, seppure partendo da un ragionamento non esente da riserve, guardava alla riunione dei procedimenti come al rimedio più efficace, anche perché in grado di limitare acrobazie dogmatiche di dubbia attendibilità: un orientamento che guadagnerà ben presto terreno e con buoni argomenti (Trib. Velletri, 18 settembre 2012, in ilFallimentarista.it con nota di VITIELLO; LAMANNA, Pre-concordato e procedura prefallimentare pendente: il termine minimo e l'oscuro riferimento al decreto di rigetto dell'istanza di fallimento, in ilFallimentarista.it; PANZANI, Il concordato in bianco, in ilFallimentarista.it).

Le prime decisioni del tribunale lombardo riguardavano per vero gli accordi di ristrutturazione: tuttavia, prendevano in esame gli argomenti classici sui quali si era imperniato sino a quel momento il dibattito in materia, per ritenere che la base di un coordinamento tra le due procedure andava individuata in un nesso di pregiudizialità in senso lato. Se è vero che nel caso del concordato preventivo e dell'accordo di ristrutturazione il presupposto (lo «stato di crisi») è più ampio del presupposto del fallimento (l'insolvenza), tuttavia è parimenti vero che la risoluzione dello stato di crisi per via concordataria rimuove necessariamente l'eventuale sottostante situazione di insolvenza: di qui la necessità di approdare ad una soluzione coordinata delle due procedure contemporaneamente pendenti. Non si tratta però della sospensione ex art. 295c.p.c., ma della riunione ex art. 274 c.p.c. con trattazione congiunta ed esame “pregiudiziale” dell'omologa del concordato, in quanto la stessa rimuove la situazione di insolvenza dell'azienda e preclude la declaratoria di fallimento.

L'orientamento milanese poteva condurre sia a “tenere viva'' l'originaria istanza di fallimento per l'ipotesi di caduta della procedura alternativa (senza necessità di un'ulteriore istanza), sia ad utilizzare gli accertamenti compiuti nel corso della procedura alternativa anche nell'ambito dell'istruttoria prefallimentare in pienezza di contraddittorio, con l'ulteriore possibile considerazione che l'istanza di fallimento, a questo punto, più che diventare improcedibile, andava respinta per difetto dello stato di insolvenza (Trib. Milano, 10 novembre 2009).

Nel frattempo, però, emergeva altro orientamento giurisprudenziale ed anche dottrinale che, rifiutando il principio della prevenzione e valorizzando la modifica dell'art. 160 l. fall., affermava che l'instaurazione di una procedura di concordato non preclude la dichiarazione di fallimento ed il coordinamento tra procedure di accesso è rimesso alla prudente e insindacabile valutazione del giudice. Oltre al noto dato testuale, dai più ritenuto non decisivo di per sé, si consideravano argomenti di natura sistematica e strutturale: l'autonomia del « ;nuovo ;» concordato preventivo rispetto al fallimento, la sostituzione, quale presupposto oggettivo, dello stato d'insolvenza con il più generico « ;stato di crisi ;» , la discontinuità introdotta fra rigetto del concordato e dichiarazione di fallimento e l'assenza di un rapporto di pregiudizialità che giustifichi la sospensione dell'istruttoria prefallimentare (Cass. SS.UU., 23 gennaio 2013,n. 1521; Cass. 24 ottobre 2012, n. 18190; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3059; Cass. 4 settembre 2009, n. 19214; Cass. 5 giugno 2009, n. 12986; FERRO, Commentario alla legge fallimentare a cura di M. Ferro, Milanofiori Assago, 2014, art. 162).

Secondo questa impostazione, pur dovendosi riconoscere una consequenzialità logica tra le procedure, essa non si traduce in consequenzialità procedimentale: alla fine dei conti sarebbe il giudice a prendersi gran parte della responsabilità di dover bilanciare le opposte iniziative, coordinando quella del debitore con gli interessi sottostanti la procedura fallimentare.

Le critiche non mancarono, anche perché, nel frattempo, come già si è visto, la giurisprudenza di merito si era orientata in maggioranza per la sospensione o comunque per un arresto più o meno formale del procedimento prefallimentare e, in minor misura, per la improcedibilità ex art. 168 L. fall.

Restava da trovare una soluzione tecnicamente rigorosa ma anche pratica, che consentisse di mettere insieme in un quadro coerente le oggettive differenze tra i procedimenti, la loro oggettiva incompatibilità e la necessità di reprimere gli abusi del ricorso concordatario (ora anche in bianco) e di fare buon uso, per quanto possibile, delle categorie processuali tradizionali: che come abbiamo già visto si rivelano sempre poco adattabili al contesto dell'accesso alle procedure concorsuali.

In dottrina non mancavano spunti promettenti, che guardavano alla riunione dei procedimenti come allo strumento allo stesso tempo più utile e più attendibile tecnicamente, almeno a certe condizioni (PAGNI, I rapporti tra concordato e fallimento, cit., 1082). A qualcosa di simile pervennero le ben note decisioni delle Sezioni Unite nel 2015.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite

I notissimi arresti delle Sezioni Unite del 2015 condussero, per quanto qui interessa, all'affermazione dei seguenti principi:

1) in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dalla l. fall., artt. 162, 173, 179 e 180, e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l'ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all'esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell'esito negativo del concordato preventivo;

2) la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, né ne consente la sospensione, ma impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dalla l. fall., artt. 162, 173, 179 e 180; il procedimento, pertanto, può essere istruito e può concludersi con un decreto di rigetto;

3) tra la domanda di concordato preventivo e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell'art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 39 c.p.c., comma 2, in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi (Cass. SS. UU., nn.9934, 9935 e 9936 del 15 maggio 2015; Cass., 20 febbraio 2020, n.4343).

In dottrina il nuovo orientamento ha riscosso consensi quanto al risultato raggiunto, sebbene non siano mancati dubbi, incentrati soprattutto sul ricorso alla categoria della continenza in luogo della connessione (LAMANNA, Retromarcia sul principio di prevenzione/prevalenza del concordato: come non detto, il principio ancora esiste, cit.; DI GIROLAMO, Le Sezioni unite e il principio di prevalenza del concordato preventivo rispetto al fallimento, in Giurisprudenza Commerciale, fasc.1, 2017, 32 ; DE SANTIS, Principio di prevenzione ed abuso della domanda di concordato: molte conferme e qualche novità dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Il fall., 2015, 908 ss.; PAGNI, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015, ibidem, 922 ss.).

In primo luogo, la rilevanza in materia della modifica dell'art. 160, 1° comma, L. fall. è definitivamente confutata, atteso che continua ad essere tuttora evidente che l'imprenditore può presentare domanda di concordato preventivo soltanto «fino a che il suo fallimento non è dichiarato». Nel contempo, e partendo dal punto di vista opposto, è definitivamente confutato dalla Corte l'argomento dell'applicabilità estensiva dell'art. 168 l. fall. all'esecuzione concorsuale,

In secondo luogo, la questione dei poteri attribuiti al tribunale in punto di coordinamento tra procedure è risolta, da un lato, con la considerazione che “il concordato preventivo ha mantenuto la funzione di prevenire il fallimento attraverso una soluzione alternativa della crisi, ma tale funzione viene svolta con un accentuato carattere negoziale dell'istituto e con un ridimensionamento dei connotati pubblicistici”; dall'altro con l'argomento che se sono sottratte al giudice le valutazioni di convenienza e di fattibilità nel merito, non può che essergli sottratta anche la possibilità di provvedere ad un bilanciamento degli interessi coinvolti dalla scelta tra concordato preventivo e fallimento. Dunque, l'ordine indicato dagli artt. 162, 173, 169 e 180 L. fall. è espressione di un principio generale.

In terzo luogo, lo strumento della riunione dei procedimenti, sebbene ricollegato all'istituto codicistico della continenza, trova definitiva consacrazione quale strumento processuale di attuazione del principio enunciato.

L'approdo delle Sezioni Unite non è una soluzione perfetta, né poteva esserlo.

Oggetto di perplessità, tra l'altro, risultava il meccanismo della “progressione asimmetrica” determinato dalla possibilità attribuita al tribunale di rigettare senz'altro la domanda di fallimento, ove ritenuta infondata, senza attendere l'esito del concordato.

Come detto, una volta esclusa l'applicabilità della pregiudizialità tecnico-giuridica così come della improcedibilità temporanea, il meccanismo focalizzato dalle Sezioni Unite si fonda sulla presenza di un effetto impediente di natura processuale o, se si vuole, sulla individuazione di un presupposto processuale (o requisito della decisione sul merito) della decisione sul fallimento. L'effetto impediente ha però natura reversibile, atteso che in tutti i casi di caducazione del percorso concordatario prima dell'omologazione, si riespande pienamente il potere del tribunale di decidere sul fallimento. Non ha natura assoluta, ma in qualche modo relativa, in quanto può essere neutralizzato nei casi in cui si ravvisi un abuso dello strumento concordatario.

Coordinamento tra procedure e categorie codicistiche: dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite al CCII

La legge delega della riforma concorsuale prevede, accanto ad un apparato di misure di allerta e di prevenzione della crisi e dell'insolvenza, la disciplina (sul modello del diritto tedesco e spagnolo) di una procedura “unitaria” di accesso alla regolazione dell'insolvenza che sostituisce le previgenti e frammentarie discipline.

Evidente sembrerebbe, almeno nelle intenzioni, la cesura rispetto alla legge fallimentare del 1942 come novellata negli anni 2005, 2006 e 2007, in cui il procedimento per la dichiarazione di fallimento (riguardante le sole situazioni di insolvenza) ed il procedimento per l'ammissione e l'omologazione del concordato preventivo (orientato a regolare anche gli episodi di crisi) e per omologazione dell'accordo di ristrutturazione erano nettamente distinti e seguivano percorsi propri, generando delicati problemi di coordinamento e raccordo.

Si è prevista allora in sede di delega (art. 2, primo comma, lett. d) l'adozione di un unico e celere modello per l'accertamento dello stato di crisi e di insolvenza del debitore: testualmente, “un unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore, in conformita' all'articolo 15 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e con caratteristiche di particolare celerita', anche in fase di reclamo”.

Non vi è dubbio che un rilevante vantaggio che può derivare da una disciplina processuale unitaria risiede nell'associare ad una regolamentazione processuale unica (impugnazioni comprese) la codificazione di un criterio di coordinamento il più possibile certo e razionale delle rispettive domande di regolazione. Né si devono trascurare i vantaggi di economia rappresentati da un'unica istruttoria e il rafforzamento delle garanzie del contraddittorio che ne possono derivare.

La legge delega prevede dunque (art. 2 lett. g) che si debba “dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purche' la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un'idonea soluzione alternativa”.

Il secondo comma dell'art. 7 del Codice prevede che “Nel caso di proposizione di piu' domande, il tribunale tratta in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata…”.

Il terzo comma prevede un'ulteriore specificazione del principio di trattazione prioritaria delle domande alternative di regolazione rispetto alla liquidazione giudiziale, riservando quest'ultima dichiarazione ai casi di “mancato accoglimento” delle domande prioritarie o ai casi di arresto patologico dei rispettivi procedimenti.

Conviene ribadire che, considerando anche quanto dispone l'art. 2, 1° comma, lett. g) della delega, traspare una certa continuità con quello che già era emerso negli ultimi anni, grazie soprattutto al complesso dibattito sfociato nei noti arresti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

L'”unico procedimento” in concreto

È giunto il momento di approfondire i profili di pratica operatività dell'opzione di trattazione unitaria “mediante riunione” elaborata dal Tribunale di Milano ed accolta dalle Sezioni Unite e, quanto al futuro, anche dal Codice, alla luce, oltre che dell'art. 7, delle disposizioni della disciplina di dettaglio contenuta negli artt. 37 e segg. CCII.

Infatti, una volta codificata per legge la trattazione prioritaria del percorso concordato e confermato lo strumento della riunione dei procedimenti quale via maestra per assicurare in concreto il coordinamento tra procedure, la gran parte delle problematiche operative appare comune allo scenario della legge fallimentare ed a quello del Codice.

Come abbiamo visto, l'approdo cui è giunta la S.C. nel 2015 (Cass. SS. UU., nn.9934, 9935 e 9936 del 15 maggio 2015) in materia di raccordo tra diversi percorsi di regolazione della crisi/insolvenza si basa sulla premessa che tra la domanda di concordato preventivo e la richiesta di fallimento vi è un rapporto di continenza (c.d. per specularità), trattandosi di iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, con la conseguenza della riunione dei relativi procedimenti, ai sensi dell'art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, oppure dell'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c., in tema di continenza e competenza, se pendenti presso giudici differenti (. Ricordiamo che secondo questa impostazione il deposito della domanda di concordato preventivo, anche con riserva, non provoca l'improcedibilità dell'iter prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, non potendosi applicare l'art. 168 l.fall. all'istanza di fallimento, né ne consente o impone la sospensione, mancando il presupposto della pregiudizialità/dipendenza in senso tecnico tra procedimenti (sicché è legittimo dichiarare il fallimento in pendenza di impugnazione dell'esito negativo del concordato), ma ha piuttosto l'effetto di impedire temporaneamente la dichiarazione di insolvenza, sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e180 L. Fall..

Vi è poi da aggiungere che, nel caso degli accordi di ristrutturazione, la giurisprudenza di merito relativa alla legge fallimentare ha immaginato il sussistere di una pregiudizialità-dipendenza “atecnica” tra l'accertamento dello stato di insolvenza e la previa valutazione negativa sull'esistenza dei presupposti per l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione.

La scelta legislativa del Codice perviene alla conferma del binomio trattazione prioritaria/riunione sancito dalle Sezioni Unite, superando però in un colpo molti dubbi che l'argomentare della Corte aveva suscitato nel muovere dalla premessa della sussistenza di un rapporto di continenza per specularità tra i diversi procedimenti contrapposti, per giungere alla opzione della riunione: quest'ultima è così codificata per legge in quanto l'art. 7 CCII dispone che le specifiche “domande” di regolazione sono trattate in “unico procedimento” e che le domande sopravvenute sono “riunite” alle precedenti.

La dottrina sembra concordare in gran parte sul fatto che la soluzione adottata dal Codice offre, pur senza clamorose innovazioni, pregi di praticità; vi è (ora per legge e non più per via giurisprudenziale) una priorità predefinita nella trattazione delle diverse istanze, sebbene i poteri del tribunale in materia debbano essere ben perimetrati; si raggiunge un certo grado di uniformità della disciplina dei vari procedimenti; si afferma la struttura monofasica del procedimento che non presuppone il previo accertamento dell'insolvenza; infine, sembra raggiunto l'obiettivo di un ragionevole raccordo dei percorsi processuali in fase di impugnazione e di una più facile individuazione e repressione di condotte dilatorie ed abusive.

Inoltre, sono innegabili le economie processuali che si realizzano, peraltro messe già in rilievo dalle Sezioni Unite del 2015 e ben conosciute dai pratici.

La “riunione” dei procedimenti di accesso: aspetti generali

La riunione è concepita dal nostro codice processuale quale strumento ad ampio raggio di azione destinato, tra l'altro, a garantire la trattazione simultanea di cause che sono tra loro in rapporto di litispendenza o di continenza.

Sempre in linea generale, nella disciplina processuale codicistica la riunione può nascere dalle più varie forme di connessione, essendo l'istituto volto a garantire, a seconda dei casi, anche soltanto l'economia ed i minori costi del giudizio, e non necessariamente l'armonia delle decisioni. Non a caso l'art. 103, 2° comma , c.p.c. consente al giudice di disporre la separazione delle cause, quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo.

Ciò detto, è bene chiarire subito che la riunione prevista dall'art. 7 CCII non appare coincidere del tutto con lo strumento previsto per il processo ordinario dagli artt. 273 e 274 c.p.c.. Anzi, non manca chi sostiene che più che di riunione nel senso codicistico dovrebbe parlarsi semplicemente di coordinamento tra procedure, vista la profonda eterogeneità di quel che si vorrebbe appunto riunire: questa asserzione non sembra però condivisibile, perché presupporrebbe la negazione di tutto il lungo ed autorevole percorso argomentativo della dottrina e della giurisprudenza fondate sulla esclusione di rapporti di pregiudizialità tra i procedimenti e sull'affermazione, invece, della sussistenza di un rapporto, se non di continenza per specularità, quanto meno di connessione per identità di questioni.

Inoltre, se i procedimenti non si riuniscono, restano del tutto distinti: non è chiaro, allora, una volta esclusa la sospensione del procedimento, in base a quale provvedimento formale si dovrebbe ricorrere per rinviare la decisione sul procedimento prevenuto (la dichiarazione di fallimento e in futuro liquidazione giudiziale), se non a semplici rinvii interlocutori.

Infine, come già detto l'iter che ha condotto alla formulazione attuale dell'art. 7 CCII, sebbene con risultati annacquati rispetto alle premesse, mira pur sempre ad attuare un qualche contenitore unico che agevoli l'attuazione della prevenzione tra procedimenti.

Indubbiamente il Codice evidenzia una peculiarità: la riunione non ha carattere discrezionale ma necessario, come si evince dal tenore dell'art. 7 CCII (ogni domanda sopravvenuta è riunita alla prima) e dal percorso argomentativo delle Sezioni Unite: dunque è sufficiente che siano proposte diverse domande di regolazione della crisi e/o dell'insolvenza.

In effetti il sistema processuale conosce pochissime ipotesi di riunione necessaria (art. 2378, 5° comma, c.c., art. 2492, 4° comma, c.c., art. 778, 3° comma, c.p.c.): tutte ipotesi piuttosto periferiche del sistema processuale, che non hanno mai destato eccessiva attenzione nella dottrina e nella giurisprudenza, quanto meno sotto il profilo dei rispettivi aspetti procedurali.

D'altra parte, la mancata riunione non sembra portare conseguenze dirette sul piano della validità degli atti o dei motivi di impugnazione. Potrebbe avvenire che, pur rispettando il criterio di priorità nella trattazione dell'istanza concordataria, non si proceda preventivamente ad alcuna riunione: anzi, mancando un'adeguata implementazione degli attuali sistemi informativi del PCT, questa è proprio l'ipotesi più frequente nella pratica.

Del problema si è interessata ancora di recente la Suprema Corte affermando che l'omessa riunione non determina alcuna nullità, né impedisce la dichiarazione di fallimento, quando il tribunale abbia già disposto la revoca dell'ammissione alla procedura concordataria, purché il debitore abbia avuto formale conoscenza dell'iniziativa per la sua dichiarazione di fallimento (Cass. 31 maggio 2019, n. 15094; Cass. 27 marzo 2019, n. 8446). La Corte ha motivato la sua decisione con riferimento al fatto che la formale riunione dei procedimenti, in generale, non è imposta dalla legge a pena di nullità e non è sindacabile in sede di legittimità in quanto contiene una disposizione di natura ordinatoria.

La riunione dei procedimenti nella pratica

In pratica, nel vecchio e nel nuovo sistema, una volta proposta la prima domanda di accesso alla regolazione della crisi/insolvenza, non importa di quale genere, tutte le altre domande di regolazione proposte successivamente debbono essere riunite in unico fascicolo, restando così assorbiti e superati, almeno in gran parte, tutti i precedenti dubbi sulla possibile fonte normativa della riunione (art. 273 o 274 c.p.c.): le norme vigenti già consentono, quanto meno se le procedure pendono innanzi allo stesso giudice e nello stesso grado, di pervenire alla trattazione congiunta, salvo poi comprendere come essa vada gestita in concreto.

Va osservato che la direttiva di cui all'art. 7 CCII dispone sia la riunione di successivi ricorsi omogenei (in pratica quelli di apertura della liquidazione provenienti da diversi creditori) sia di ricorsi eterogenei (ad esempio ricorso per liquidazione e ricorso con riserva per concordato). L'introduzione successiva di più ricorsi prefallimentari innanzi allo stesso tribunale non sembra sollevare questioni operative: nella vigenza della legge fallimentare è prassi diffusa nei tribunali la riunione di ufficio dei successivi ricorsi prefallimentari, che vengono trattati congiuntamente dal giudice delegato alla trattazione del primo procedimento.

In entrambi i sistemi le cause proposte innanzi allo stesso tribunale possono dunque procedere di pari passo senza che il giudice, nel trattarle simultaneamente, riunendo ogni domanda sopravvenuta a quella già pendente, debba considerare quale sia il diritto che quelle domande facciano valere e quale sia l'oggetto e la natura dei singoli procedimenti attivato né quale sia la fattispecie che dà luogo alla riunione.

Ciò non di meno, occorre porsi alcune domande.

La prima questione (dalla cui soluzione discendono ulteriori conseguenze) è se la riunione obbligatoria lasci intatta l'autonomia dei singoli procedimenti, laddove nel processo ordinario, secondo l'opinione oggi prevalente, la riunione di cause separatamente promosse (in particolare quelle di cui all'art. 274 c.p.c.) non realizza una fusione dei procedimenti, tale da determinare il loro concorso nella definizione del thema decidendum et probandum, ma, al contrario, lascia intatta l'autonomia delle cause, e la sentenza che le decide contemporaneamente - pur essendo formalmente unica – si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise (Cass. 7 marzo 2016, n. 4446, che richiama Cass. 10 luglio 2014, n. 15860).

La profonda diversità di oggetto, natura e struttura dei procedimenti da riunione non può che costituire un argomento ulteriore per ribadire anche nella materia concorsuale il principio dell'autonomia delle procedure e dunque anche della natura complessa della decisione.

Se è così, appare necessario trarre le opportune conseguenze in due direzioni, peraltro complementari tra loro: da un lato l'individuazione dei corretti meccanismi di instaurazione e svolgimento del contraddittorio tra le parti; dall'altro l'individuazione del corretto svolgimento dell'attività istruttoria.

Riunione dei procedimenti e contraddittorio

Una forma di trattazione unitaria opera in realtà già dall'origine nella vigenza della legge fallimentare quando si tratta di separate istanze di fallimento di più creditori verso lo stesso debitore: per consolidata giurisprudenza, al debitore cui è stato regolarmente notificato il ricorso nel rispetto delle forme previste dalla legge non devono essere notificati anche i successivi ricorsi che si inseriscono nel medesimo procedimento, avendo egli l'onere di seguire l'ulteriore sviluppo della procedura e di assumere ogni opportuna iniziativa in ordine ad essa, a tutela dei propri diritti (Cass. 26 settembre 2013, n.22060). Una volta che il debitore sia stato regolarmente convocato per l'audizione in camera di consiglio, si deve ritenere che in quella sede possa prendere contezza delle varie istanze di fallimento sopravvenute e presentare le proprie difese: chiedendo eventualmente termini a difesa se alcune di dette istanze non gli sono state preventivamente notificate o sono successivamente intervenute.

Stante la quasi totale simmetria tra il procedimento di apertura della liquidazione giudiziale nel CCII e quello di cui all'art. 15 L. fall., non si vede alcun motivo per modificare tale interpretazione per il futuro.

Per il caso di riunione di domande eterogenee (ad esempio per liquidazione e per concordato), la giurisprudenza ha invece costantemente ritenuto che la declaratoria di fallimento, qualora faccia seguito alla pronuncia di inammissibilità (o di revoca dell'ammissione) di una proposta di concordato preventivo - depositata in pendenza un ricorso prefallimentare ad essa riunito e successivamente notificato - non richiede ulteriori adempimenti procedurali, ivi compresa la preventiva audizione del debitore, inquadrandosi in una procedura unitaria, nella quale quest'ultimo ha già formalizzato il rapporto processuale innanzi al tribunale ed il cui eventuale sbocco nella dichiarazione di fallimento gli è noto fin dal momento della presentazione della domanda concordataria, sicché lo stesso, per effetto di quella riunione, è posto nelle condizioni di predisporre i mezzi di difesa più adeguati sia in ordine all'ammissibilità della proposta, che per contrastare la richiesta di fallimento (Cass. 18 dicembre 2015, n. 25587; Cass. 6 maggio 2014, n. 9730). Né è necessario, in caso di convocazione del debitore innanzi al collegio (in via anticipata ai fini dell'eventuale inammissibilità o revoca dell'ammissione), il formale avvertimento che l'udienza è potenzialmente destinata alla dichiarazione di fallimento, laddove al debitore sia stata già correttamente notificata in precedenza l'istanza di fallimento del creditore (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25602).

Anche questa linea interpretativa può trovare conferma dopo la riforma, sebbene siano qui necessarie alcune precisazioni, che hanno condotto alcuni tribunali a posizioni più rigorose.

Infatti il debitore potrebbe dolersi del fatto che, essendosi nel frattempo incentrata l'attività istruttoria e difensiva sulla trattazione prioritaria della domanda negoziale, il suo diritto di difesa avverso l'istanza di liquidazione giudiziale potrebbe risultarne in qualche modo compromesso laddove, caduto il concordato, si passi direttamente e contestualmente alla delibazione dell'istanza fallimentare: del resto è noto che nella prassi forense si riscontra di frequente un'eccessiva enfatizzazione delle difese del debitore volte a sostenere l'iniziativa concordataria a scapito di quelle destinate a contrastare l'avversa iniziativa liquidatoria, spesso relegate in poche righe di stile.

Potrebbe poi avvenire che, pur avendo il debitore ricevuto formale notifica, in precedenza, dell'istanza di liquidazione, abbia necessità, a distanza di tempo, di dedurre fatti nuovi quali ad esempio un sopravvenuto ridimensionamento della crisi, la sopravvenuta soddisfazione del creditore ricorrente o comunque la desistenza di quest'ultimo.

A questo proposito può essere ritenuta tuttora valido l'orientamento giurisprudenziale per cui la mancanza di una apposita istruttoria prefallimentare non preclude di per sé al debitore l'espletamento dei mezzi di difesa più adeguati al caso, tenuto conto delle esigenze proprie dei procedimenti concorsuali (presentazione di memorie, istanze di convocazione personale e simili), per contrastare l'eventuale richiesta di fallimento (Cass. 6 maggio 2014, n. 9730). In ogni caso spetta al tribunale, in base ai principi, consentire sempre in concreto l'opportuna esplicazione del diritto di difesa.

Ma anche la parte ricorrente per la liquidazione, pubblica o privata, potrebbe avere interesse a far constatare fatti sopravvenuti, quali ad esempio un aggravamento della crisi e la sua evoluzione verso l'insolvenza: a questo proposito la S.C. ha ritenuto che debba procedersi a nuova convocazione del debitore, nell'ipotesi in cui la parte pubblica adduca a dimostrazione dello stato di insolvenza elementi ulteriori rispetto a quelli già acquisiti al procedimento (Cass. 21 aprile 2016 n. 8100).

Poteri delle parti, condivisione del materiale istruttorio dei procedimenti riuniti e oneri probatori

Quanto agli effetti della trattazione unitaria sullo svolgimento corretto dell'istruttoria, si impongono alcune considerazioni generali.

Le stesse Sezioni Unite del 2015 hanno ritenuto, sulla scorta di conformi orientamenti, che “la riunione delle procedure comporta non solo la fruibilità in ciascuna procedura del materiale probatorio raccolto nell'altra, ma anche lo svolgimento di un pieno contraddittorio tra le parti in ordine ai presupposti oggettivi e soggettivi di entrambe le procedure concorsuali, garantendo il diritto di difesa del debitore. Ne consegue che al momento della pronunzia negativa ex artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., in ordine alla proposta di concordato, il tribunale può decidere in via definitiva anche le istanze di fallimento riunite, dichiarando il fallimento del debitore se ne ricorrono i presupposti; mentre, in caso di esito positivo del giudizio di omologazione ex art. 180 l. fall., il tribunale può dichiarare l'improcedibilità delle istanze di fallimento riunite”.

Anche la dottrina, all'indomani della nota decisione della Corte, ha ritenuto che la trattazione congiunta dei procedimenti deve servire a realizzare una visione di insieme da un lato delle asserzioni e dei documenti in base ai quali il debitore prospetta il soddisfacimento dei creditori e, dall'altro, delle analoghe prospettazioni e prove dei creditori che hanno fatto istanza per la dichiarazione di fallimento. Sulla scorta di ciò, già nell'impero della legge fallimentare si potrebbe ritenere che il tribunale può considerare contemporaneamente il fascicolo del concordato e quello del fallimento, esaminando, anche su sollecitazione di parte, tutti i profili rimessi al proprio sindacato tali da far caducare la procedura concordataria utilizzando tutti gli elementi forniti dall'attestazione, dai creditori istanti, dal (pre)commissario e, infine, dai creditori opponenti in sede di omologa (PAGNI, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria prefallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015, in Il fall., 2015).

Sotto altro aspetto la dottrina ritiene che nel caso di unificazione dei procedimenti deve riconoscersi ai creditori che chiedono il fallimento la legittimazione a partecipare e interloquire nella fase di ammissione al concordato, sia pure senza poteri di impulso processuale. Pochi sono, tuttavia, i riscontri di ciò nella pratica (FERRO, sub art. 162, in La legge fallimentare, Milano, 2014, 2196).

Si pone poi il problema della posizione dei creditori non qualificati, ossia non ricorrenti per il fallimento / liquidazione, con riguardo alla fase di revoca dell'ammissione ex art. 173 L. fall..

La giurisprudenza ha ritenuto che i creditori concordatari non sono portatori di un interesse immediato e diretto che possa far loro assumere la qualifica di litisconsorti necessari, neppure nella fase che conduce all'eventuale dichiarazione di fallimento, non avendo essi un diritto al fallimento (o al mancato fallimento) del proprio debitore, sicché la comunicazione prevista, nei loro confronti, dall'art. 173, comma 1, l. fall. si atteggia a semplice litis denuntiatio, volta a consentirne la loro volontaria partecipazione all'udienza (Cass. 31 maggio 2019, n. 15094, in Giustizia Civile Massimario, 2019). L'omissione di questa comunicazione comporta non già una nullità assoluta ed insanabile, ma solo una nullità relativa della prima fase del subprocedimento di revoca che, non ripercuotendosi sull'eventuale fase successiva, non è causa di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento. Dunque l'eventuale mancata comunicazione dell'avvio del subprocedimento di cui all'art. 173 l. fall. non solo non inficia la dichiarazione di insolvenza, ma non può essere neppure oggetto di doglianza da parte del debitore, trattandosi di nullità relativa la cui deduzione è riservata ai titolari dello specifico interesse, cioè ai creditori non avvisati.

Si potrebbero allora riassumere le posizioni seguenti.

Il creditore che ha presentato istanza di fallimento/liquidazione potrà, avvalendosi dei vantaggi della riunione, e quindi della condivisione del materiale istruttorio, partecipare e interloquire nella fase di ammissione al concordato nonché alle fasi successive, sia pure senza poteri di impulso processuale almeno fino a quando non si verifichi un'ipotesi di caducazione del concordato.

Il creditore concordatario non ricorrente, non essendo tecnicamente un litisconsorte e data la natura particolare del procedimento di accesso e di omologazione alle soluzioni concordate, solo quando convocato (ad esempio per la revoca dell'ammissione ex art. 173 L. fall./106 CCII), potrà costituirsi e far valere le sue ragioni; potrà proporre istanza di fallimento/liquidazione fino alla omologazione.

Il debitore che ha presentato istanza di regolazione concordata potrà spiegare le sue difese a sostegno della propria istanza e nel contempo resistere con le opportune difese alla domanda di liquidazione riunita o spiegata in via riconvenzionale da un creditore.

Tutto ciò sembrerebbe favorito dal fatto che uno degli effetti, per così dire, naturali della riunione è che il materiale probatorio acquisito per impulso di parte o per attività officiosa del tribunale resta disponibile, in linea di principio, a favore o contro tutte le parti dei procedimenti riuniti, che ne faranno l'uso più consono a sostenere le rispettive posizioni. Dunque, come avviene frequentemente, si potrà decidere sulla domanda di liquidazione/fallimento utilizzando le conoscenze acquisite dall'esame della domanda di concordato, e, viceversa, la domanda di liquidazione può contenere allegazioni idonee a giustificare la dichiarazione di inammissibilità o la revoca della domanda di concordato, ipotizzando al limite che i fatti dedotti nella domanda di fallimento potrebbero qualificarsi come fatti impeditivi dell'accoglimento della domanda di concordato.

Tuttavia, si è sempre ritenuto in giurisprudenza, relativamente al processo ordinario di cognizione, che il materiale probatorio raccolto nelle diverse cause non può incidere sulle altre, dovendo essere valutato autonomamente in riferimento alla causa per la quale è stato prodotto. Inoltre se in un procedimento una delle parti era rimasta contumace, le regole del processo contumaciale non si estendono alle altre cause riunite; la posizione di attore o convenuto assunta dalle parti rimane inalterata; si determina l'unificazione degli atti del giudice, poiché gli atti compiuti da quest'ultimo nonché la documentazione, il verbale ed il fascicolo d'ufficio si uniscono; la sentenza, formalmente unica, andrà a decidere su tutti i rapporti giuridici sottoposti a giudizio, risolvendosi in altrettante pronunce quante sono le cause decise.

Sembra necessario, in particolare, fare i conti con quella consolidata giurisprudenza in materia di processo ordinario di cognizione che in passato ha ritenuto che, in caso di riunione, non si verifica alcuna fusione degli elementi di giudizio e delle prove acquisite nell'una o nell'altra causa per cui, ad esempio, le prove acquisite in una causa non possono essere utilizzate nell'altra esonerando la parte dal relativo onere probatorio, ma ciascuna causa deve essere decisa in base alle deduzioni e prove in essa proposte secondo la ripartizione dei relativi oneri (Cass. 12 gennaio 2010, n. 259; Cass. 8 febbraio 2006, n. 2664). Ciò con l'ovvia finalità di impedire l'aggiramento delle regole di scansione del processo con l'instaurazione di processi paralleli di cui chiedere poi la riunione.

Tornando al nostro tema, potrebbe allora sorgere la necessità di fare chiarezza con riferimento a quello dei procedimenti in gioco che ha natura certamente contenziosa e dove vi è una certa qual formale ripartizione degli oneri probatori, seppure connessa con ampi poteri officiosi del tribunale: il procedimento per dichiarazione di fallimento/apertura della liquidazione giudiziale. Applicando la giurisprudenza più rigoristica di cui sopra si potrebbe arrivare persino a concludere che se il ricorrente per la liquidazione non ha provato o chiesto di provare o, al limite, neppure dedotto la propria legittimazione o l'insolvenza del debitore, l'una e l'altra non potrebbero essere ritenute dal giudice in base alle asserzioni ed agli elementi istruttori (in genere documentali) offerti dal debitore nel riunito procedimento concordatario attraverso i documenti obbligatori da prodursi a carico del ricorrente.

Qualche problema potrebbe sorgere anche con riguardo all'ipotesi non infrequente di PM intervenuto nel procedimento che, caduto il concordato per inammissibilità e in mancanza di ricorso per liquidazione da parte di un privato, ritenga di affermare l'insolvenza e chiedere al tribunale l'apertura della liquidazione, senza aver provato o chiesto di provare alcunchè ma rifacendosi soltanto alle risultanze della documentazione concordataria.

In altre parole, poiché nel procedimento per dichiarazione di fallimento/liquidazione sopravvive pur sempre la logica del contenzioso e dell'onere della prova, è giusto sciogliere il nodo rappresentato da come riconciliare tutto ciò con le acquisizioni documentali della procedura per regolazione concordata, dove le produzioni documentali e le attività istruttorie in genere non servono a dimostrare i fatti costitutivi di un diritto ma piuttosto a fornire gli elementi acchè il tribunale compia le proprie verifiche ai fini dell'omologazione nel quadro di una struttura non contenziosa.

Ebbene, fermi restando gli oneri assertivi del creditore prefallimentare, il carattere documentale del materiale acquisito in sede di istruzione concordataria potrebbe far ritenere superata la questione.

Si potrebbero comunque indicare ulteriori argomenti, quale la nota giurisprudenza della Suprema Corte in materia di valutazione delle prove acquisite in altro procedimento.

Ancora di recente (Cass. 10 ottobre 2018, n. 25067), sulla scorta di un orientamento consolidato, si è infatti ritenuto che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova. In sostanza, secondo la giurisprudenza di legittimità, la tecnica cognitiva in parola passa attraverso l'inquadramento delle prove di altro processo nelle c.d. prove atipiche, sicché non sarebbero di ostacolo né la diversità di parti né la diversità di rito. Né sono estranei a questa impostazione i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo.

Vanno poi considerati i poteri officiosi del giudice nel procedimento per fallimento/liquidazione ed in quello di concordato. Infatti, dal combinato disposto dell'art 41 u.c. e 42 CCII nonché art. 738 c.p.c. si evince l'operatività di un ampio ventaglio di poteri officiosi del tribunale, così come si può ritenere che nelle valutazioni attinenti all'ammissione al concordato vi è l'interesse del creditore istante a partecipare all'udienza di delibazione dell'ammissione al concordato, trattandosi di un procedimento camerale nel quale può intervenire chiunque dimostri di avere un concreto interesse in quanto potenziale destinatario del provvedimento chiesto; si deve poi osservare che il tribunale ha, comunque, il potere di sentire chiunque a sommarie informazioni oltre che di interrogare liberamente le parti.

Vi è poi da considerare che anche in materia concorsuale opera il principio generale di acquisizione processuale, in forza del quale le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte a iniziativa o a istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (Cass. 5 marzo 2019, n. 6310). Una volta che il debitore abbia evidenziato con la sua produzione a fini concordatari uno stato di crisi che in realtà è già di insolvenza, non potrà invocare l'inutilizzabilità dei documenti prodotti quando si tratta, caduta l'ipotesi concordataria, di decidere dell'apertura della liquidazione: potrà però certamente documentare e dimostrare fatti sopravvenuti o integrare la prova per dimostrare o che l'insolvenza è venuta meno o che si tratta di un semplice stato di crisi mai evoluto in insolvenza.

Trattazione prioritaria, condizioni ed eccezioni

Con il CCII non sembra più possibile, almeno in linea di principio, decidere in senso negativo sulla istanza di liquidazione giudiziale in pendenza di procedura concordata, non essendo riprodotta nel Codice una norma analoga a quella di cui all'art. 161, 10° comma, l. fall. che a suo tempo poneva le basi della c.d. “progressione asimmetrica” tra le procedure: l'effetto inibitorio della decisione sulla liquidazione giudiziale sembra spiegare pienamente i suoi effetti qualunque sia la decisione da adottare sulla liquidazione.

Risulta perciò eliminata un'incongruenza che porta attualmente alla possibilità di rigettare l'istanza di fallimento anche in pendenza di procedimento per soluzione concordata, sebbene ciò avvenga assai di rado in quanto in genere i tribunali, prudentemente, tendono a privilegiare una prevenzione “simmetrica”, subordinando qualunque decisione sul fallimento all'esaurimento del percorso di accesso alla soluzione concordata.

Anche il meccanismo di cui all'art. 7 CCII, come quello messo a punto dalle Sezioni Unite del 2015 con riferimento alla legge fallimentare, si fonda sulla presenza di un effetto impediente di natura processuale o, se si vuole, sulla categoria del presupposto processuale (o requisito della decisione sul merito) della decisione sul fallimento (oggi liquidazione giudiziale) (LA CHINA, Presupposti processuali, in Digesto delle discipline privatistiche, 1996).

L'effetto impediente ha però natura reversibile, atteso che in tutti i casi di caducazione del percorso concordatario prima dell'omologazione si riespande pienamente il potere del tribunale di decidere sul fallimento/liquidazione. Ed è bene ricordare ancora una volta che l'impedimento non ha natura assoluta, ma in qualche modo relativa, in quanto può essere neutralizzato nei casi in cui si ravvisi un abuso dello strumento concordatario.

Per altro verso la declaratoria di apertura della liquidazione in presenza di un impedimento processuale costituisce un vizio di nullità della sentenza, giustiziabile in sede di impugnazione. Allo stesso risultato si perviene quando la decisione sulla liquidazione è conseguita ad una illegittima caducazione (ad esempio per inammissibilità) del concordato (Cass. Sez. Un., n. 9935 del 2015).

Quanto alla disciplina di dettaglio della prevenzione concordataria rispetto alla legge fallimentare, poco cambia nel Codice, a parte la recuperata simmetria di cui si è detto: già le Sezioni Unite del 2015 avevano richiamato le ipotesi principali in cui, caduto l'effetto impediente, il tribunale può delibare legittimamente l'istanza di fallimento.

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