Interdizione perpetua dai pubblici uffici per funzionario infedele: la S.C. dubita della legittimità costituzionale

05 Febbraio 2021

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., dell'art. 317-bis c.p. nella parte in cui prevede l'automatica applicazione dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319-ter c.p...
Massima

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., dell'art. 317-bis c.p., nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui prevede l'automatica applicazione dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per i reati di cui agli artt. 314, 317, 319 e 319-ter c.p., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione.

Il caso

Con la sentenza di patteggiamento, che gli applicava la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione in relazione al delitto di cui all'art. 319 c.p. (per avere, da pubblico ufficiale, accettato somme di denaro per omettere o ritardare controlli fiscali), l'imputato era dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, ai sensi dell'art. 317-bis c.p.

Ricorrevano per cassazione i suoi difensori e chiedevano di sollevare questione di illegittimità costituzionale dell'art. 317-bis c.p., in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione. Rilevavano che la disposizione applicata, nel testo vigente all'epoca di commissione del reato, introdotta dall'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86 ed estesa anche al reato di corruzione dall'art. 1, comma 75, lett. e) della legge 6 novembre 2012, n. 190, prevede l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, quale effetto penale della condanna, ove irrogata la pena principale in misura non inferiore a tre anni di reclusione. Stigmatizzavano la manifesta irragionevolezza della disciplina, per l'automatica applicazione di una sanzione perpetua suscettibile di rivelarsi sproporzionata rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato contestato, nonché rispetto alla concreta gravità del fatto, e tale da potere comportare un vulnus ai principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio – sanciti rispettivamente dagli artt. 3 e 27 della Costituzione -, giacché «una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa».

La Sesta Sezione penale della Cassazione, stimato ammissibile il ricorso – perché la pena accessoria colpita dall'impugnazione non aveva formato oggetto dell'accordo tra le parti (Cass. pen., Sez. Un., 26 settembre 2019, n. 21368), ricorrendo un'ipotesi di c.d. "patteggiamento allargato" (con pena superiore a due anni) in cui vi è l'obbligo di applicazione delle pene accessorie ex art. 445, comma 1, c.p.p. - ha ritenuto sussistere il dubbio di costituzionalità dell'art. 317-bis, comma 1, c.p. - nel testo aggiunto dall'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86, precedente alla modifica introdotta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3 -, nella parte in cui prevede l'automatica applicazione dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, in caso di condanna, per il reato di cui all'art. 319 c.p., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. Ha, pertanto, dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione relativa alla conformità a Costituzione dell'art. 317-bis c. p., nella versione vigente all'epoca di commissione del reato, ed ha sospeso il giudizio sino all'esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

La questione

Il dubbio di costituzionalità avanzato dalla Sezione rimettente si riferisce all'art. 317-bis, comma 1, prima parte, c.p., introdotto dall'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86 e modificato dall'art. 1, comma 75, della legge 6 novembre 2012, n. 190, nel testo precedente alla legge 9 gennaio 2019, n. 3, che, sotto la rubrica Pene accessorie, prevede l'automatica applicazione dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, in caso di condanna ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione, per i reati di peculato (art. 314 c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.) e corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.). Disciplina il cui rigore – che si esprime nella comminatoria di una pena accessoria ben più severa rispetto a quella prevista dalle regole generali (art. 29 c.p.) – trova spiegazione nell'intrinseco disvalore di condotte suscettibili di minare alla base i requisiti di integrità e di affidabilità necessari per lo svolgimento di pubblici uffici, a tutela dei valori di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), oltre che in esigenze di prevenzione speciale negativa, ossia di allontanamento per sempre dal pubblico ufficio – ossia dalla situazione che ha rappresentato l'occasione per delinquere - di quel soggetto che ha gravemente abusato dei poteri o violato i doveri inerenti alla funzione pubblica esercitata.

La censura, sollevata con riferimento ai principi di uguaglianza, di cui all'art. 3 Cost., e di personalità della responsabilità penale nonché di tendenziale finalismo rieducativo della pena, di cui all'art. 27, primo e terzo comma, Cost., si appunta sia sul profilo dell'automatismo e dell'indefettibilità dell'applicazione della pena accessoria di cui all'art. 317-bis c.p., sia su quello della fissità e perpetuità della sanzione: aspetti, questi, ritenuti tali, nel loro reciproco integrarsi, da configurare un meccanismo sanzionatorio rigido, non compatibile con il "volto costituzionale del sistema penale”, che bandisce le sanzioni che non appaiano ragionevolmente "proporzionate" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato e che è ispirato alla logica dell'"individualizzazione" della pena, perché: «L'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento – contribuisce, da un lato, a rendere quanto più possibile "personale" la responsabilità penale … e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile "finalizzata" nella prospettiva rieducativa. … L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, "proporzione" della pena rispetto alle "personali" responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale» (Corte cost., sent. n. 50 del 1980).

Il carattere perpetuo della sanzione interdittiva comminata ai funzionari infedeli, cui è indefettibilmente immanente l'assenza di qualsivoglia discrezionalità giudiziale nel calibrarne la durata, fa sì che quella delineata dall'art. 317-bis, comma 1, prima parte, c.p. si strutturi in guisa di pena fissa: ciò profilandone il contrasto con il dictum della Corte Costituzionale, espresso nella sentenza n. 222 del 2018, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, proprio in quanto “pena fissa”, della pena accessoria dell'"inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e (del)l'incapacità ... ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa" per la durata immodificabile di dieci anni, comminata dalla disposizione di cui al quarto comma dell'art. 216l. fall. in ipotesi di condanna per uno dei fatti di bancarotta tipizzati nelle altre disposizioni della norma in parola. Restituita la compatibilità dell'art. 216, comma 4, l. fall. con il quadro dei principi che devono informare le sanzioni penali, inserendo nel corpo di esso l'avverbio "sino" a un massimo di dieci anni, il Giudice delle leggi ha ammonito che l'esigenza, costituzionalmente imposta, di individualizzazione di ogni tipo di sanzione, deve, di massima, realizzarsi attraverso la funzione di commisurazione della pena affidata al giudice di merito, che la esercita secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p.: diversamente opinando – ha precisato - l'individualizzazione della sanzione accessoria, ove collegata alla durata della pena principale inflitta, ai sensi dell'art. 37 c.p., sarebbe raggiunta solo a metà: «sostituendosi l'originario automatismo legale con un diverso automatismo». Monito, questo, che è stato recepito dal diritto vivente, che, con la sentenza a Sezioni Unite n. 28910/2019, ha impartito l'indicazione direttiva secondo la quale la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p.

Alla luce di tali principi, dunque, è stata vagliata la questione di legittimità costituzionale dell'art.317-bis c.p. e se ne è ritenuta la non manifesta infondatezza per il carattere perpetuo, rigido e anelastico della sanzione comminata, stimata di particolare afflittività per il suo incidere su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, tra cui la perdita del diritto elettorale, attivo e passivo.

Le soluzioni giuridiche

Il Collegio rimettente ha ricordato come la Consulta, allontanandosi dal tradizionale contegno auto-limitativo che, in passato, l'aveva indotta ad astenersi dall'intervenire in caso di denuncia di sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto da una determinata norma ove non fosse stato individuato il tertium comparationis, utile per dimostrare l'asimmetria e per fornire, al contempo, le «rime obbligate» per sopperirvi (sentenza n. 134 del 21 maggio 2012), abbia, di recente, stabilito che, laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile, a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo», intesi quali «soluzioni sanzionatorie già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del 21 settembre 2016). Alla stregua di tale preliminare rilievo, ha evidenziato come l'ablazione della norma di cui all'art. 317-bis c.p. dal sistema sanzionatorio non lascerebbe scoperta l'attuazione della funzione special-preventiva ad essa assegnata, potendo trovare applicazione, in caso di condanna per il reato di cui all'art. 319 c.p., le disposizioni generali, in materia di pene accessorie, di cui agli artt. 29 e 31c.p., come già ammesso dal diritto vivente (Cass. pen., Sez. Un., n. 12228 del 24 ottobre 2013) per il delitto di cui all'art. 319-quater c.p. L'art. 29 c.p. consentirebbe, infatti, di irrogare l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici al pubblico funzionario infedele cui sia stata inflitta una pena non inferiore a cinque anni di reclusione ovvero l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni. Altrimenti, al pubblico ufficiale medesimo, in quanto riconosciuto colpevole di un delitto commesso con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, potrebbe essere applicata, a prescindere dalla entità della condanna, l'interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 31 c.p., la cui durata dovrebbe essere determinata in concreto dal giudice sulla base dei criteri di cui agli artt. 132, 133 e 133-bis c.p. (alla stregua di quanto sancito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 28910/2019) e, dunque, nell'esercizio di quella discrezionalità che concorre all'attuazione dei principi di proporzionalità ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio calibrato sul singolo condannato.

Osservazioni

La Suprema Corte, nell'ordinanza fin qui illustrata, riprende e accoglie tutte le riserve avanzate da dottrina e giurisprudenza in ordine alla compatibilità con il sistema dei principi e delle libertà fondamentali delle previsioni di pene fisse. In particolare, il Collegio denuncia la loro aporia rispetto al volto costituzionale dell'illecito penale e la coglie nello scostamento dal principio della personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Cost.), posto che ai fini della loro applicazione vengono in rilievo soltanto “i tipi astratti di reato” in relazione ai quali sono comminate, e dalla funzione rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), in ragione del loro sostanziarsi in un "trattamento uniforme e indifferenziato" per fatti tutt'altro che omologabili nel loro disvalore, che, in quanto avvertito come iniquo dal destinatario, potrebbe ingenerare in lui ribellione piuttosto che riconsiderazione critica del proprio operato in rapporto ai beni giuridici anche da esse presidiati. Cieca indifferenza rispetto alla specifica cifra di offensività connotante ogni possibile forma di manifestazione dei tipi di illecito, contemplati dalle norme che le comminano, che si riverbera negativamente anche sull'osservanza del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), inevitabilmente vulnerato dalla previsione di una disciplina uniforme per situazioni del tutto eterogenee.

Nella prospettiva coltivata dalla Sezione rimettente, anche la pena accessoria dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, prevista dall'art. 317-bis, comma 1, prima parte, c.p. (nella formulazione ante riforma l. n. 3 del 2019), quale effetto penale della condanna, ove irrogata la pena principale in misura non inferiore a tre anni di reclusione, esibisce tutta la propria abnormità rispetto al sistema costituzionale dell'illecito penale, tratteggiando una pena dal contenuto marcatamente afflittivo che non riflette più il reale disvalore del fatto. In particolare, con l'evidenziare come il catalogo dei reati ai quali è collegata la pena accessoria di cui all'art. 317-bis c.p. non sia inteso dalla giurisprudenza di legittimità in chiave tassativa, tanto vero che se ne è ritenuta legittima l'applicazione anche alle fattispecie tentate di peculato e di concussione (Cass. pen., Sez. V, 9 marzo 2005, n. 9204), purché in concreto punite con la reclusione non inferiore ai tre anni, quale che sia l'effettiva e peculiare gravità delle relative condotte integratrici, l'ordinanza offre al lettore lo spunto per la seguente riflessione: se non importa, ai fini dell'applicazione della detta sanzione, la condotta concretamente posta in essere dal funzionario infedele, tanto da risultare irrilevante persino l'effettivo conseguimento del vantaggio da questi avuto di mira, non è implausibile ritenere che legislatore abbia inteso imputare al singolo agente una porzione del disvalore insito nella generale fenomenologia dell'infedeltà del pubblico funzionario ai doveri dell'ufficio. In sostanza, confondendo il piano della responsabilità penale personale, da accertare nel processo e con il processo secondo i principi del diritto penale del fatto e del contraddittorio, cui consegue l'applicazione di una pena "ritagliata su misura" rispetto alla gravità della specifica condotta e alla personalità del colpevole, con il piano del contrasto al fenomeno tout court della strumentalizzazione delle pubbliche funzioni, si finisce per piegare a scopi di politica criminale la stessa persona del condannato, in spregio allo statuto costituzionale della pena criminale (che ex art. 27, comma 3, Cost. non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato), il quale, implicitamente, bandisce ogni uso della stessa per scopi di prevenzione generale o speciale che, debordando dai limiti della ragionevolezza, determinino un capovolgimento della piramide dei valori costituzionali, al cui vertice è posta la persona umana. La conseguenza di questi assunti coincide, dunque, con l'esito del ragionamento sviluppato dalla Sezione rimettente: la pena accessoria applicabile ai pubblici ufficiali infedeli, per essere costituzionalmente ammissibile, ove di durata fissa deve essere proporzionata all'intera gamma dei comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato, al quale essa si collega, ovvero, se di durata non fissa, presuppone un meccanismo che consenta di calibrarla alla peculiarità della singola fattispecie concreta.

Quanto sin qui osservato introduce un'ulteriore riflessione: invero, non sono le pene fisse ad essere, di per sé, incompatibili con i principi costituzionali, ma è l'automatismo del loro intervento, che, come spiegato dal Giudice delle leggi (in particolare nelle sentenze n. 31 del 15 febbraio 2012 e n. 7 del 16 gennaio 2013, che hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 569 c.p. nella parte in cui prevede l'applicazione automatica della sanzione accessoria della perdita della potestà genitoriale comminata per i delitti di alterazione e di soppressione di stato), preclude al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra gli interessi coinvolti nello specifico episodio criminoso. È, dunque, la violazione del principio di ragionevolezza, che consegue all'automatismo previsto dall'art. 317-bis c.p., ciò che rende la detta norma davvero incompatibile con l'ordinamento costituzionale: presumendo l'assolutezza del pregiudizio arrecato all'imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione ed evocando, sinistramente, il "tipo d'autore" del funzionario non probo sottrae al giudice la possibilità di valutare, caso per caso, quanto l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici sia davvero idonea a realizzare gli scopi di tutela che essa stessa intende assicurare.

Anche nella delicata materia dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione non si può prescindere, quindi, dalla rigorosa osservanza dei principi costituzionali della personalità della responsabilità penale, del finalismo rieducativo della pena e della ragionevolezza, posto che – ed è questo lo spirito che informa la decisione annotata - l'adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali svolge non solo una funzione di giustizia nel caso concreto, ma anche quella di baluardo rispetto alla pretesa dell'Autorità di sacrificare i diritti e le libertà della persona, ivi compresi quelli di chi abbia commesso un grave reato, sull'altare della “ragion di Stato”.

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