Il fallimento della “supersocietà” di fatto

Francesco Spina
11 Febbraio 2021

Il focus dell'art. 147, comma 5, l.fall. non appare diretto verso una o altra forma di esercizio dell'attività di impresa (individuale o collettiva), ma è volto piuttosto verso l'ipotesi in cui emerga che, invece, si tratta di una impresa riferibile ad una società.
Massima

Il focus dell'art. 147, comma 5, l.fall. non appare diretto verso una o altra forma di esercizio dell'attività di impresa (individuale o, per contro, collettiva), ma è volto piuttosto verso l'ipotesi in cui - una volta dichiarato il fallimento di un singolo - emerga che, invece, si tratta di una impresa riferibile ad una società.

Pertanto, non vi è alcuna ragione che, nell'ipotesi disciplinata dalla citata norma, possa giustificare un differenziato trattamento normativo, ammettendo o non ammettendo il fallimento di una società che risulti socia, di fatto, di una società irregolare a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo.

Il caso

Il curatore fallimentare della già fallita Alfa s.r.l. chiedeva, innanzi al Tribunale di Bari, il fallimento della società di fatto, configurabile tra la Alfa s.r.l. e la Beta s.n.c., nonché, per estensione, di quest'ultima e dei suoi soci illimitatamente responsabili.

Nello specifico trattavasi di Tizio, con una quota del 99%, e la moglie Caia, socia all'1%. Coniugi che risultavano essere, anche, i soci della Alfa s.r.l., ma, con differenti quote, rispettivamente, all'80 ed al 20%.

Tizio, inoltre, ricopriva la carica di amministratore unico in entrambe le società (che avevano la medesima sede sociale, il medesimo recapito telefonico e utilizzavano medesimi impianti, materie prime e semilavorati).

La pretesa del curatore di Alfa era accolta con sentenza depositata dal Tribunale nel marzo 2015.

Avverso tale decisione la società Beta s.n.c. e i suoi soci illimitatamente responsabili proponevano reclamo ex art. 18 L. fall., avanti alla Corte di Appello di Bari, gravame poi rigettato con sentenza depositata in data 21 febbraio 2018, in ragione degli indici rivelatori del vincolo sociale di cui sopra.

Avverso tale decisione la società di persone ed i suoi soci proponevano ricorso per cassazione, affidandolo a quattro motivi.

Tale impugnazione non era condivisa dal Giudice di Legittimità, il quale rigettava il ricorso promosso dalla s.n.c. e dalla compagine sociale.

Con tale decisione la Suprema Corte confermava l'orientamento della giurisprudenza che attua una interpretazione estensiva della norma di cui all'art. 147, comma 5, l.f..

Ciò comportava che, una volta dichiarato il fallimento di una società-socia, il fallimento si estende agli altri soci della società di fatto (in applicazione dell'art. 147 comma 5 l.fall.), siano essi soci-società o soci-persone fisiche illimitatamente responsabili.

Nel caso di specie, pertanto, il fallimento della s.r.l. andava esteso alla s.n.c. e, di conseguenza, ai suoi soci illimitatamente responsabili.

La Corte, poi, confermava che per la dichiarazione di fallimento della società socia, insieme ad altra società già fallita, di una società di fatto irregolare, non è necessario l'accertamento dello stato di insolvenza (v. Cass. 366/2021).

La questione

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se in tema di supersocietà di fatto con una s.n.c., una volta appurato lo stato di insolvenza di tale entità giuridica, sia poi possibile dichiarare falliti per estensione non solo le società che compongano la supersocietà di fatto, ma anche i relativi soci illimitatamente responsabili.

Le soluzioni giuridiche

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituti coinvolti.

Con l'espressione “supersocietà di fatto”, si intende la società di fatto, o occulta, tra società di capitali o tra persone fisiche e società di capitali.

In particolare, è ravvisabile una supersocietà di fatto allorché più società (anche unitamente a persone fisiche) agiscano concludentemente, come socie di un unico soggetto giuridico, che assume connotazione societaria qualora ricorrano tutti gli elementi caratterizzanti il contratto sociale, ai sensi dell'art. 2247 c.c.: l'esercizio di un'attività economica di interesse comune, un patrimonio unitario dato dai conferimenti, e la partecipazione agli utili e alle perdite.

In ordine alla possibilità che una società di capitali partecipi ad una società di fatto, generando così la c.d. supersocietà di fatto, la Corte di Cassazione ha stabilito che la partecipazione di una s.r.l. in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361 co. 2 c.c., in ragione del quale l'assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime, deve essere deliberata dall'assemblea (v. Trib. Bergamo 5.12.2018, Trib. Nola 29.5.2013, App. Catanzaro 30.7.2012 e Trib. Forlì 9.2.2008).

La ratio di tale principio risiede nel fatto che l'assunzione di tali partecipazioni costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo (v. Cass. 1095/2016), il quale non richiede la previa decisione autorizzativa dei soci.

L'assunzione della partecipazione determina tutte le implicazioni conseguenti, compreso il possibile fallimento della società di fatto cui la s.r.l. abbia partecipato, e della s.r.l. stessa in estensione, ex art. 147 co. 1 del RD 267/42, ovvero senza necessità dell'accertamento di una sua specifica insolvenza (v. Cass. 12120/2016).

Per quanto attiene al tema della configurabilità di una società di fatto tra una società di capitali (s.r.l.) ed una persona fisica, anche in tal caso la giurisprudenza di legittimità fornisce risposta positiva (v. Cass. 1095/2016), in particolare argomentando la propria posizione in virtù del disposto dell'art. 111 duodecies disp. att. c.c. (che, come noto, annovera le s.r.l. tra le società di capitali che possono partecipare a società personali), oltreché a fronte della non applicabilità della previsione di cui all'art. 2361, comma 2, c.c. alle società a responsabilità limitata.

La valutazione delle circostanze di fatto, ai fini della dimostrazione dell'esistenza di una supersocietà di fatto, postula un accertamento rigoroso del comune interesse sociale perseguito (v. Cass. 4529/2008).

Si tratta di una prova indiziaria ed indiretta che si deduce da manifestazioni esterne che rivelano gli elementi essenziali del vincolo sociale.

È, quindi, necessario che la valutazione, rimessa alla prudenza del giudice, si fondi su una serie di indici presuntivi (tra i quali: identità della sede legale e dei recapiti delle società, comuni strutture aziendali, commistione dei rapporti giuridici, ecc. ecc.), tutti accomunati dall'idoneità a dimostrare la sussistenza dell'affectio societatis.

A titolo esemplificativo, ai fini della configurabilità di una supersocietà di fatto, per costante giurisprudenza di merito (v. tra le tante Trib. Bergamo 5.12.2018 e Trib. Prato 19.12.2018), hanno rilievo i seguenti indici: 1) l'identità della denominazione sociale dell'impresa individuale o della società di persone e della s.r.l.; 2) la parziale coincidenza degli oggetti sociali delle due imprese; 3) la coincidente sede dei due soci della società di fatto; 4) l'esistenza di molteplici circostanze da cui è possibile desumere lo svolgimento di un'attività comune tra le due imprese (societaria ed individuale) e dunque l'affectio societatis tra i due soggetti.

In ordine a quest'ultimo punto, si evidenzia che non assume decisiva rilevanza probatoria ai fini della sussistenza di una supersocietà di fatto tra società di capitali, la circostanza del progressivo trasferimento di beni dalla società fallita ad altra società, attratta successivamente anch'essa nel fallimento (v. App. Napoli 4.1.2019).

Per ciò che attiene al fallimento di una supersocietà, anteriormente all'emanazione del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza era unicamente “codificata” la “supersocietà di fatto palese” (art. 147, comma 1, l.fall.).

Tale lacuna veniva colmata con l'art. 256, 5° comma, del nuovo Codice della crisi dell'impresa e dell'insolvenza (CCII), il quale trasponeva in previsione normativa espressa, la consolidata interpretazione dell'art. 147, 5° comma, L. fall. in tema di fallimento di supersocietà occulta, riprendendo la formulazione di tale norma e aggiungendo esplicitamente il riferimento all'ipotesi di estensione della liquidazione giudiziale alla supersocietà.

Ciò premesso, e tornando al caso in premessa, il ricorso per cassazione è stato basato sulle seguenti ragioni di diritto.

Parti ricorrenti sottolineavano che l'orientamento che ammette, al ricorrere di determinati presupposti, il fallimento della c.d. supersocietà di fatto, quale fattispecie costituita da una società irregolare cui partecipano più società, come pure eventualmente persone fisiche, e che viene ad emergere in un momento successivo alla dichiarazione di fallimento di una delle società coinvolte, sarebbe fondato su un'erronea interpretazione estensiva di una disposizione eccezionale, quale l'art. 147, comma 5,L.F. ancorata al precedente fallimento di un imprenditore individuale e comunque vincolata al rispetto del principio della invulnerabilità della persona giuridica.

Evidenziavano, altresì, l'assenza dell'autorizzazione assembleare ex art. 2361, comma 2, c.c., dettato in relazione alle s.p.a., ma da applicarsi anche alle s.r.l..

Concludevano per la riforma dell'impugnata decisione.

Le conclusioni della Suprema Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso introduttivo riteneva che, nell'ipotesi disciplinata dall'art. 147, comma 5,l.fall., non emerge alcuna ragione che giustifichi un trattamento normativo differenziato, ammettendo o escludendo la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo (v. Cass. 266/2021 e Cass. 10507/2016).

In merito all'errata interpretazione del comma 2 dell'art. 2361 c.c., la Corte di legittimità ribadiva il suo consolidato indirizzo teso ad escludere, anche nelle s.r.l., che l'eventuale difetto di autorizzazione assembleare all'assunzione di partecipazioni comportanti la responsabilità illimitata, possa determinare l'inefficacia, o l'invalidità, della partecipazione che comunque, nonostante tale difetto, sia stata assunta (v. Cass. 10507/2016).

La norma in parola, infatti, attiene solo ai rapporti tra soci e amministratori dell'ente, non anche ai rapporti tra quest'ultimo e i terzi (v. Cass. 9572/2018 e Cass. 1095/2016).

Diversamente, infatti, si consentirebbe ai soci un modo troppo agevole per esonerarsi dalle conseguenze negative eventualmente derivanti dall'assunzione di partecipazioni in altri enti (v. Cass. 12962/2017).

In ultimo, la Corte ribadiva che era legittima la dichiarazione di fallimento anche in capo alla compagine sociale della società in nome collettivo partecipe della supersocietà poiché nelle s.n.c., in forza degli artt. 2291 e 2304 c.c., la responsabilità della società e quella dei soci sono del tutto inscindibili, e, secondo l'inequivoca lettera dell'art. 147 comma 1 l.fall., la dichiarazione di fallimento di una s.n.c. comporta, in ogni caso, il fallimento dei suoi soci illimitatamente responsabili.

Osservazioni

Con la sentenza in commento, i Giudici della S. Corte confermano l'interpretazione estensiva della norma di cui all'art. 147, comma 5, l.f..

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