La perdurante vitalità della sentenza “Cavallo” delle Sezioni Unite

15 Febbraio 2021

Sebbene taluni provvedimenti di merito vadano in contrario avviso rispetto ai principi espressi dalla Corte suprema nella sua più autorevole composizione nella sentenza “Cavallo” la successiva elaborazione nomofilattica ne riconosce la piena attualità…
Massima

L'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell'ambito di un "medesimo procedimento" presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dall'art. 266 c.p.p.

Il caso

La massima è stata enunciata nell'ambito di un procedimento penale approdato innanzi al Supremo collegio a seguito di ricorso esperito avverso l'ordinanza con cui il Tribunale del riesame di Torino, adito ai sensi dell'art. 309 c.p.p., aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti del presidente del consiglio di amministrazione e dominus di una s.p.a., società di eminente rilievo nazionale, in ordine al reato di autoriciclaggio (capo 3 dell'incolpazione provvisoria), nonché a vari reati fallimentari collegati alla dichiarazione di insolvenza della stessa s.p.a. (capi 5, 6, 7 e 8). Il Tribunale confermava inoltre la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di altri due ricorrenti, il figlio del dominus e la sua collaboratrice “storica”, per il reato di riciclaggio (capo 4).

L'ordinanza era invece annullata con riferimento ad ulteriori ipotesi di bancarotta concernenti altra società (capi 10, 11 e 12), non essendo stati ritenuti configurabili i reati fallimentari in assenza di dichiarazione di fallimento.

La vicenda traeva origine dagli accertamenti svolti nei confronti della s.p.a., in merito alla gestione e all'utilizzo del finanziamento pubblico dalla stessa ottenuto per la realizzazione del progetto di investimento industriale finalizzato alla riconversione del Polo di Termini Imerese.

La s.p.a., saldamente nelle mani del dominus fin dalla sua costituzione avvenuta nel 2014, si era appropriata, secondo l'ipotesi di accusa, degli importi versati dallo Stato a titolo di anticipo (circa 21 milioni di Euro) senza mai neppure iniziare il progetto (che doveva essere realizzato entro la data del 31 dicembre 2016, poi prorogata al 30 giugno 2018), tanto che il finanziamento agevolato veniva revocato.

Le indagini condotte inizialmente dalla Procura della Repubblica di Termini Imerese avevano fatto emergere il reato di malversazione ai danni dello Stato (di cui al capo 1 della incolpazione provvisoria non interessato dalla misura cautelare in discussione). Per tale titolo il giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese aveva disposto l'applicazione di misure cautelari personali (arresti domiciliari e interdizione dalle cariche) e reali (sequestri preventivi impeditivi e di valore) nei confronti del dominus e dell'amministratore delegato della s.p.a., estraneo al procedimento incidentale.

Il Tribunale del Riesame di Palermo, rilevando l'incompetenza del Tribunale di Termini Imerese in favore di quello di Torino, aveva annullato le ordinanze cautelari personali, ritenendo assente il requisito dell'urgenza exart. 27 c.p.p.; mentre confermava in parte quelle reali, spogliandosi, comunque, del fascicolo.

Il 19 aprile 2019 la Procura di Torino riceveva gli atti trasmessi per competenza dalla Procura di Termini Imerese e adottava iniziative immediate volte a preservare la cautela reale ancora pendente.

Nel corso del procedimento, l'amministratore giudiziario della s.p.a., nominato dall'autorità giudiziaria in sede di sequestro, riscontrava una situazione di gravissima tensione finanziaria caratterizzata da una elevata esposizione debitoria scaduta e da carenti giacenze finanziarie; depositava richiesta di accedere alla procedura di amministrazione straordinaria con rinuncia alla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, in precedenza formulata (il 16 maggio 2019).

Il 18 ottobre 2019 con decreto ministeriale del Ministero dello Sviluppo Economico, la s.p.a. è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria ex D.L. n. 347 del 2003, per le imprese di rilevanti dimensioni.

In data 8 novembre 2019 il Tribunale di Torino depositava la dichiarazione dello stato di insolvenza della s.p.a..

Le indagini condotte dalla Procura di Torino consentivano di accertare le attività di autoriciclaggio e riciclaggio dei profitti del reato di malversazione, compiute rispettivamente dal dominus (capo 3), dal figlio e da collaboratrice "storica" del primo (capo 4); nonchè di individuare, tra gli altri, i reati fallimentari relativi alla s.p.a., addebitati al dominus e consistenti in: bancarotta fraudolenta patrimoniale perpetrata attraverso la distrazione del ramo di azienda e di somme di denaro di importo complessivo prossimo a 60 milioni di Euro (capo 5); bancarotta impropria da reato societario (capo 6); causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose consistite nel sistematico inadempimento degli obblighi fiscali relativi agli anni 2016, 2017, 2018, per un importo pari a oltre 55 milioni di Euro (capo 7); bancarotta fraudolenta documentale (capo 8).

La questione

Tanto il dominus che il figlio e la collaboratrice “storica”, eccepivano, tra l'altro, l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche perché disposte in altro procedimento.

Secondo l'assunto difensivo, le operazioni di captazione utilizzate a fini cautelari erano state disposte nell'ambito di un procedimento avente ad oggetto i reati di cui agli artt. 319 e 321 c.p., iscritto presso la Procura di Termini Imerese il 7 marzo 2019 a seguito di una notizia criminis inoltrata dalla Guardia di Finanza di Palermo il 5 marzo 2019.

Per i ricorrenti venivano in rilievo, dunque, intercettazioni afferenti ad ipotesi di corruzione mai iscritte né contestate dalla Procura di Torino, collegate solo incidentalmente, e tuttalpiù in via probatoria, con il reato di malversazione di cui al capo A) della incolpazione provvisoria già iscritto dalla Procura di Termini Imerese (non ricompreso però nel novero dell'art. 266 c.p.p.) e prive di connessione, rilevante exart. 12 c.p.p. (Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 51), con i reati oggetto della ordinanza cautelare.

Le soluzioni giuridiche

I ricorsi concernenti le intercettazioni telefoniche – violazione dell'art. 270 c.p.p. – sono stati ritenuti fondati.

Il Tribunale del riesame aveva escluso l'operatività della sanzione processuale in esame, sul rilievo che le intercettazioni utilizzate ai fini cautelari non erano state eseguite "in altro procedimento", ma erano relative al "medesimo procedimento".

Al riguardo il Tribunale osservava:

  • che le indagini erano iniziate a Termini Imerese e avevano riguardato il reato di cui all'art. 316-bis c.p. a carico del dominus (e altro soggetto);
  • che il 5 marzo 2019 erano state emesse le prime misure cautelari per detto reato;
  • che successivamente erano state condotte indagini anche rispetto ad una ipotesi di corruzione dei soggetti che avevano operato nel procedimento di erogazione del finanziamento; per tali titoli di reato erano state disposte le intercettazioni telefoniche;
  • che, con ordinanze del 28 marzo e del 5 aprile 2020, il Tribunale del riesame aveva dichiarato l'incompetenza territoriale del Tribunale di Termini Imerese in favore di quello di Torino.

Il nucleo della decisione assunta dal Tribunale del riesame si è incentrata sulla considerazione che gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Torino, che ha proseguito le indagini "sulla malversazione emersa" ipotizzando i reati di riciclaggio e autoriciclaggio di cui ai capi 3 e 4 chiaramente connessi alla malversazione (che ne è il reato presupposto), e “emergendo anche condotte di bancarotta, per lo più, per quanto riguarda [la s.p.a.], strettamente correlate agli altri fatti" (pag. 57 del provvedimento impugnato).

I supremi giudici hanno premesso che, ratione temporis, si ricade nella disciplina anteriore alla nuova formulazione dell'art. 270 c.p.p. e che per i delitti in rilievo nel procedimento incidentale non è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza, per giungere ad affermare che la conclusione del Tribunale del riesame non merita adesione, poiché si discosta dagli insegnamenti delle Sezioni unite “Cavallo” (Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 51): il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, exart. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata "ab origine" disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p. (Cass. pen., Sez. U, 28 novembre 2019, n. 51).

Secondo la Cassazione, per "diversi procedimenti" ex art. 270 c.p.p., devono intendersi "diversi reati" che non siano connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli per i quali l'intercettazione è stata autorizzata. Vale a dire: solo la connessione tra reati exart. 12 c.p.p., fonda la categoria di "stesso procedimento" idonea a paralizzare l'operatività dell'art. 270 c.p.p.

Si legge nella pronuncia in commento che la sentenza delle Sezioni Unite “Cavallo” muove da un inquadramento costituzionale dell'istituto: l'autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili. Essa, infatti, deve dar conto dei "soggetti da sottoporre al controllo" e dei "fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede" (Corte Cost., n. 366 del 1991); riferimento, quest'ultimo, che rende ragione della delimitazione dell'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione ai reati riconducibili all'autorizzazione giudiziale, delimitazione che, a sua volta, è condizione essenziale affinché l'intervento giudiziale abilitativo non si trasformi in una "autorizzazione in bianco".

Fuori dai casi "eccezionali" di arresto obbligatorio in flagranza, "l'autorizzazione del giudice si connota per una piena portata abilitativa e, dunque, costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all'intercettazione, ma anche il limite all'utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione" (così in motivazione Cass. pen., Sez. Un, 28 novembre 2019, n. 51).

Tracciato il quadro costituzionale, le Sezioni Unite, s. Cavallo, osservano che la disciplina codicistica è conforme alla portata attribuita dalla Costituzione all'autorizzazione giudiziale. L'art. 270, comma 1, c.p.p. conferma che, di regola, l'utilizzo probatorio dei risultati delle intercettazioni è vietato per i reati non riconducibili all'autorizzazione del giudice.

La sentenza “Cavallo” si pone allora il compito di individuare il criterio in forza del quale stabilire quali reati siano "coperti" dalla autorizzazione.

La decisione esclude che possa assumere significato "la formale unità dei procedimenti", giacché l'iscrizione in un unico numero di registro generale "non può fungere da schermo per l'utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra loro procedimenti privi di collegamento reale"; rifugge, quindi, da una definizione della portata del divieto probatorio exart. 270, comma 1, c.p.p. correlata al "contenitore dell'attività di indagine" e, quindi, affidata a fattori casuali, relativi alla "sede" procedimentale (unitaria o separata), dissonanti rispetto ai principi costituzionali sopra delineati.

Per altro verso la pronuncia nega – in ragione del contrasto con la disciplina generale delle intercettazioni e della irrazionalità delle conseguenze – la percorribilità di una soluzione eccessivamente "rigida" che, sovrapponendo la nozione di "stesso procedimento" a quella di "stesso reato", reputi che il divieto probatorio di cui all'art. 270 c.p.p., possa operare anche al cospetto di un legame sostanziale tra il reato in relazione al quale l'intercettazione è stata autorizzata e il reato accertato grazie ai risultati della stessa.

Le Sezioni unite optano, invece, per una impostazione che valorizzi il dato "sostanziale": il concetto di "stesso procedimento" può attenere anche a reati diversi, purché legati tra loro da un vincolo sostanziale; vincolo che risulta espresso dal rapporto di connessione ex art. 12 c.p.p., che altro non è se non il riflesso della connessione sostanziale dei reati.

Mentre non è così per i casi di collegamento investigativo di cui all'art. 371 c.p.p. (ovviamente fuori dei casi di connessione) che rispondono solo a esigenze di carattere processuale.

Ergo, in assenza di connessione, ricorre il caso di "diverso procedimento" e dunque opera il divieto previsto dall'art. 270 c.p.p., indipendentemente dalla sussistenza di altri indici (quali l'attinenza dei reati al medesimo fascicolo processuale).

Di contro in caso di imputazioni connesse exart. 12 c.p.p., il procedimento relativo al reato per il quale l'intercettazione è stata autorizzata non può considerarsi "diverso" rispetto a quello concernente il reato accertato tramite l'intercettazione.

Fermo, in ogni caso, il principio per cui l'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell'ambito di un "medesimo procedimento" presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dall'art. 266 c.p.p.

La decisione impugnata, e censurata, si àncora, invece, ad una concezione di "stesso procedimento" che valorizza il criterio formale, in quanto si tratta del medesimo procedimento trasmesso per competenza da Termini Imerese a Torino; mentre omette di considerare i reati per i quali l'intercettazione è stata concessa (artt. 319 e 321 c.p.), anzi richiama il reato di malversazione per il quale le intercettazioni non sono state autorizzate, né, d'altronde, avrebbero potuto esserlo, stante il difetto dei presupposti di cui all'art. 266 c.p., rimarcano in giudici di legittimità.

In sostanza, ad avviso di questi ultimi, il Tribunale:

  • non ha verificato se, in base agli elementi in suo possesso, sussistesse una connessione ex art. 12 c.p.p., tra i reati di corruzione per i quali le intercettazioni sono state autorizzate e quelli oggetto delle misure cautelari di cui si discute;
  • non sembra aver tenuto conto che, come stabilito dalle Sezioni Unite Cavallo, tutti i reati devono rientrare nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p., presupposto che difetta per il reato di autoriciclaggio collegato alla malversazione (capo 3).
Osservazioni

La sentenza in commento appare di straordinario interesse a fronte di tendenze giurisprudenziali di merito volte ad una sostanziale disapplicazione della sentenza Cavallo.

Si fa riferimento a Trib. Milano, Sez. riesame, ord. 2 novembre 2020, anche in questo caso emessa all'esito di un procedimento ex art. 310 c.p.p. promosso, questa volta, dal p.m. avverso un'ordinanza cautelare del g.i.p. presso lo stesso tribunale. I giudici milanesi hanno ritenuto di non poter aderire al principio di diritto formulato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, sentenza Cavallo nella parte in cui afferma che, quando ci si trova all'interno di un medesimo procedimento – e cioè, nell'ottica delle Sezioni unite, in presenza di reati tra loro connessi ex art. 12 c.p.p. –, le intercettazioni siano utilizzabili solo per l'accertamento dei reati rientranti nell'elenco di cui all'art. 266, comma1, c.p.p.

Le indagini preliminari originavano dalla segnalazione, da parte di due dipendenti, di alcune anomalie verificatesi nell'ufficio provinciale milanese dell'Agenzia delle Entrate, consistenti nel mancato pagamento di talune visure richieste da privati. L'attività investigativa era stata così indirizzata nei confronti di alcuni pubblici ufficiali indiziati di corruzione (artt. 319, 321 c.p.) e si era sviluppata attraverso intercettazioni sia telefoniche, sia “ambientali”. Tramite questo mezzo di ricerca della prova era emersa «un'ampia e diffusa illegalità operativa all'interno degli uffici» e «uno stabile asservimento di pubblici ufficiali alle richieste dei privati c.d. visuristi». In particolare, le intercettazioni avevano svelato che, in diverse occasioni, i pubblici ufficiali sottoposti ad indagini avevano consegnato a privati copie di atti e di certificati in violazione delle procedure previste dalla legge, e precisamente senza che venissero versate i relativi tributi ipotecari. Tuttavia, solo per alcuni di questi episodi era emersa l'«evidenza del pagamento di corrispettivi in contropartita delle violazioni delle regole di buon andamento della pubblica amministrazione», mentre per altri difettava «la prova diretta della retribuzione o della sua promessa». A fronte di queste differenti emergenze, il p.m. aveva deciso di contestare il delitto di corruzione (artt. 319 e 321 c.p.) in relazione alle prime fattispecie e il delitto di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) rispetto alle seconde, chiedendo al g.i.p. l'applicazione di misure cautelari per tutti i reati. Nel condividere la contestazione operata dal p.m., il g.i.p. accoglieva la richiesta di applicazione di misure cautelari solo in parte, e segnatamente solo in relazione alle fattispecie corruttive. A tale conclusione il g.i.p. milanese era giunto facendo applicazione proprio del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite “Cavallo”, sopra richiamate: trattandosi di un delitto non compreso fra quelli per cui l'art. 266 c.p.p. consente le intercettazioni, i risultati ottenuti non potevano essere utilizzati per disporre una misura cautelare in relazione agli episodi di abuso d'ufficio, ancorché questi fossero connessi a quelli di corruzione.

Criticando tale conclusione, il p.m. proponeva appello contro l'ordinanza del g.i.p., chiedendo, tra le altre cose, che venisse applicata una misura cautelare anche nei confronti del pubblico ufficiale cui erano addebitati unicamente fatti di abuso d'ufficio.

Pur rigettando l'appello proposto dal p.m., per via della ritenuta assenza di esigenze cautelari, il tribunale di Milano si è discostato dall'impostazione seguita dal g.i.p. in punto di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni in relazione al delitto di abuso d'ufficio.

Innanzitutto, i giudici hanno affermato che le fattispecie di abuso di ufficio portate alla loro attenzione appartenevano al medesimo procedimento avente ad oggetto gli episodi di corruzione e che pertanto, non trattandosi di un “diverso procedimento”, non si ricadeva nel perimetro del divieto di cui all'art. 270 c.p.p. A tale preliminare punto fermo il tribunale approdava facendo applicazione proprio della prima parte del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza Cavallo: le condotte qualificate come abuso d'ufficio, infatti, risultavano connesse ex art. 12 c.p.p. ai fatti di corruzione.

A questo punto, i giudici si confrontavano con l'altro approdo raggiunto dal massimo organo nomofilattico nella sentenza Cavallo per cui è necessario che anche i reati connessi a quelli per cui sono state autorizzate le intercettazioni rientrino, a loro volta, fra quelli elencati all'art. 266 c.p.p.

Gli argomenti impiegati nell'ordinanza per prendere le distanze dalla posizione espressa dalle Sezioni unite sono essenzialmente quattro.

Anzitutto, si rileva che la Cassazione avrebbe affermato l'esistenza di questo limite senza però confrontarsi «con il consolidato orientamento che […] riconosce l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte nello stesso procedimento anche in relazione a reati che non erano oggetto di autorizzazione e per i quali le operazioni di intercettazione non sarebbero state ammissibili in difetto dei presupposti di cui all'art. 266 c.p.p.». In altre parole, le Sezioni unite, nel comporre un contrasto che concerneva specificamente la nozione di “medesimo procedimento”, avrebbero compiuto un passo ulteriore – cioè quello di richiedere che ogni reato in connessione rispetti i limiti di ammissibilità delle intercettazioni – senza tuttavia tenere conto di un'elaborazione giurisprudenziale di segno contrario ampiamente condivisa.

In secondo luogo, per i giudici milanesi «lo sbarramento individuato dalla Suprema Corte» si porrebbe «in contrasto con le stesse premesse da cui la Corte muove per delineare i limiti di operatività del disposto di cui all'art. 270 c.p.p.». Poiché, come affermano le Sezioni unite, la connessione tra i reati «esclude a monte il pericolo di “autorizzazione in bianco”», e dunque il rischio di una «violazione dei principi costituzionali in tema di libertà e segretezza delle comunicazioni», allora non vi sarebbe ragione per apporre un ulteriore limite all'utilizzabilità delle intercettazioni. D'altra parte, trattandosi di captazioni legittimamente autorizzate – e non di intercettazioni ab origine autorizzate per un reato per le quali non sarebbero ammesse –, non si ricadrebbe in alcuna ipotesi di inutilizzabilità patologica, e anzi dovrebbe trovare applicazione il diverso principio di «naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività d'indagine».

Come terzo argomento contro la soluzione delle Sezioni unite, vengono richiamati due diversi principi costituzionali: da un lato, il «principio di non dispersione degli elementi di prova»; dall'altro lato, il principio di uguaglianza, posto che, differenziando il regime di utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni all'interno dello stesso procedimento, si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra i diversi indagati, senza peraltro che ciò sia giustificato da una previsione di legge.

Infine, per corroborare la propria posizione, il tribunale di Milano fa leva su una recente novità normativa in materia di intercettazioni. Successivamente all'intervento nomofilattico delle Sezioni unite, il legislatore ha infatti messo mano proprio al divieto di cui all'art. 270 c.p.p., restringendone la portata. In particolare, la disposizione da ultimo richiamata, nella sua nuova formulazione, prevede che i risultati delle intercettazioni possano essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati ottenutinon solo quando siano indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, ma anche quando si tratti di dover accertare i reati di cui all'articolo 266, comma 1, c.p.p. La novella, secondo i giudici, avallerebbe «le perplessità […] in relazione al doppio sbarramento stabilito dalla Suprema Corte per l'utilizzo delle intercettazioni nell'ambito del medesimo procedimento», in quanto il legislatore si è addirittura «orientato nel senso di un ampliamento della possibilità di utilizzare le intercettazioni» in “procedimenti diversi”, ove si prescinde «dalla sussistenza di un legame come la connessione ex art. 12 c.p.p.». Al riguardo, vengono richiamate le considerazioni di chi ha osservato che applicare il principio affermato dalle Sezioni unite a fronte di queste coordinate normative «significherebbe riconoscere in modo del tutto illogico un ambito di utilizzabilità delle registrazioni per la prova di reati avulsi da quello vagliato nel provvedimento autorizzativo ex art. 267 c.p.p. (ovvero in “diverso procedimento”) più ampio rispetto a quello riconosciuto in caso di reati strettamente connessi ex art. 12 a quello oggetto di captazione».

Le motivazioni dei giudici milanesi sembrano destinate a confliggere con il chiaro pronunciamento contenuto nella sentenza in commento.

Non può sfuggire che in questa si affermi espressamente che ratione temporis, si ricade nella disciplina anteriore alla nuova formulazione dell'art. 270 c.p.p.: quindi le considerazioni del Tribunale meneghino sulle possibili ricadute della novella anche per il periodo ad essa antecedente non paiono trovare conforto alcuno.

Inoltre, l'ordinanza milanese “rimprovera” ai giudici di legittimità della sentenza Cavallo di non avere tenuto in debita considerazione altro, e contrario, “consolidato orientamento” giurisprudenziale.

A ben vedere, proprio dopo la sentenza Cavallo si è venuta formando una consolidata posizione giurisprudenziale di cui la sentenza in commento costituisce l'ennesimo approdo.

Così la cassazione (Cass. pen., Sez. III, 4 febbraio 2020, n. 9369) ha ritenuto fondato il ricorso sottoposto al suo esame in quanto le intercettazioni eseguite nel procedimento non sono utilizzabili nei confronti del ricorrente. Precisa il Supremo collegio che ai sensi dell'art. 270, comma 1, c.p.p. i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza". Richiamano quindi i principi della sentenza Cavallo, in base ai quali le Sezioni unite hanno confermato la cd. tesi sostanzialistica, per cui il procedimento è da considerarsi identico quando tra il contenuto dell'originaria notizia di reato, alla base dell'autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione, hanno però chiarito che può parlarsi di identico processo solo nei casi di connessione stretta ex art. 12 c.p.p., mentre si tratta di procedimenti diversi nei casi previsti dall'art. 371, comma 2, lettera b) e c). In ogni caso, anche quando sussiste la connessione stretta, i risultati delle intercettazioni telefoniche non sono utilizzabili se per il reato, diverso da quello per cui furono richieste le intercettazioni telefoniche, sussistono i limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p. Nella motivazionele Sezioni unite hanno affermato che consentire, in caso di connessione dei reati (primo orientamento) o di emersione del nuovo reato nel procedimento ab origine iscritto (secondo orientamento), l'utilizzazione probatoria dell'intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, nel surrettizio, inevitabile aggiramento di tali limiti, con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall'art. 266 c.p.p., che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all'art. 15 Cost." Le Sezioni unite, inoltre, hanno affermato il seguente principio: "In tema di intercettazioni, il divieto di cui all'art. 270 c.p.p., di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p.". E così tali principi sono stati calati alla vicenda oggetto del procedimento penale: “Orbene, nel caso de quo il reato di favoreggiamento non è emerso dalle intercettazioni telefoniche, ma esse sono state ritenute elemento di prova del favoreggiamento, poiché la condotta, secondo la sentenza impugnata, si è concretizzata nelle dichiarazioni rese allorché il ricorrente fu escusso a sommarie informazioni testimoniali. Dunque, si tratta di due fatti reato distinti e non collegati da connessione stretta. Per i limiti edittali del reato di favoreggiamento, punito con la reclusione fino a quattro anni, non è consentito l'arresto obbligatorio in flagranza né sarebbero consentite le intercettazioni telefoniche ai sensi dell'art. 266 c.p.p., Pertanto, le intercettazioni telefoniche indicate nel capo di imputazione non possono essere utilizzate nei confronti del ricorrente”.

Altra interessante esegesi della sentenza Cavallo si rinviene in Cass. pen., Sez. V, 20 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 23438, in cui si ricorda che la sentenza delle Sezioni unite è “preziosa”, dal momento che contiene l'enunciazione di alcuni principi generali in materia di intercettazioni: “Il Collegio esclude che un'intercettazione possa essere autorizzata implicitamente; senza che vi sia, cioè, un preciso riferimento, nel provvedimento autorizzativo, al reato per cui si pretende poi di utilizzarla - reato peraltro neanche ancora iscritto nel registro generale delle notizie di reato - né una specifica motivazione che dia atto del vaglio circa la consistenza indiziaria concernente quella specifica fattispecie, oltre che sulla funzionalità della captazione rispetto al relativo prosieguo investigativo. L'autorizzazione del giudice non si limita a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma circoscrive l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili: essa, infatti, deve dar conto dei "soggetti da sottoporre al controllo" e dei "fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede"(Corte Cost.n. 366 del 1991); riferimento, quest'ultimo, che rende ragione della delimitazione dell'utilizzabilità probatoria dei risultati dell'intercettazione ai reati riconducibili all'autorizzazione giudiziale, delimitazione che, a sua volta, è condizione essenziale affinché l'intervento giudiziale abilitativo non si trasformi, come si è visto, in una "autorizzazione in bianco". Viene inoltre puntualmente richiamata la giurisprudenza costituzionale: “D'altra parte, come ripetutamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale, l'autorizzazione giudiziale rappresenta l'attuazione del presidio di garanzia sancito all'art. 15 Cost., comma 2, costituito dall'intervento giudiziale teso alla verifica del rispetto delle regole previste dal legislatore; presidio entro il quale deve collocarsi la limitazione all'inviolabilità delle comunicazioni, costituzionalmente prevista, legata alla necessità dell'accertamento dei reati (Corte cost n. 34 del 1973). Data l'invasività del mezzo investigativo, la verifica in tal senso, come pure sostenuto dalla Consulta, è sottoposta a condizioni particolarmente rigorose, commisurate alla natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni, di cui all'art. 15 Cost. (Corte Cost. n. 366 del 1991). Ne consegue che non basta che il Giudice per le indagini preliminari sia posto a conoscenza di una possibile evoluzione investigativa verso una nuova e diversa fattispecie, né iscritta, né indicata, ma occorre che le intercettazioni, per essere utilizzabili anche quanto a detta nuova fattispecie, siano supportate da un'autorizzazione esplicitamente tarata - quand'anche con una motivazione per relationem, che renda però chiaro ed inequivoco l'ordito giustificativo del provvedimento - sulla sussistenza dei presupposti di legge anche per il nuovo reato”.

Ancora, la sentenza Cavallo è stata richiamata da Cass. pen., Sez. VI, 18 settembre 2020 (dep. 25-settembre 2020), n. 26739, in questi termini: “Le Sezioni Unite della Cassazione, intervenute per risolvere il contrasto esegetico sorto in ordine alla esatta definizione dell'ambito di operatività della anzidetta disposizione, hanno chiarito che il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate - salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultano connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall'art. 266 c.p.p. (Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2019, n. 51). Anche in questo caso di giudici di legittimità hanno trasfuso i principi di diritto testé enunciati al caso concreto. Ora, in applicazione di tale principio di diritto bisogna prendere atto come per il reato per il quale si procede nel presente processo a carico della C. non è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza, ma sarebbe stato ammissibile l'impiego del mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni: sicché, ai fini della verifica della utilizzabilità o meno dei risultati delle intercettazioni disposte in altro procedimento, sarebbe stato necessario appurare se il delitto di falsa testimonianza qui contestato risulti connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p. con il reato o i reati per i quali si procedeva nei riguardi del fratello e con riferimento ai quali, in ragione dello stato di latitanza, erano state autorizzate quelle operazioni di captazione. Tale verifica comporterebbe una indagine di merito che non è possibile in questa sede e che andrebbe rimessa al giudice di rinvio”.

Questo consolidato, e garantista, orientamento giurisprudenziale, espresso da ultimo della sentenza in commento, appare teso a valorizzare la natura indubbiamente eccezionale dei limiti apponibili a un diritto personale di carattere inviolabile, quale la libertà e la segretezza delle comunicazioni, di cui all'art. 15 Cost.: quindi l'autorizzazione del giudice non può limitarsi a legittimare il ricorso al mezzo di ricerca della prova, ma vale a circoscrivere l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili, dovendo dar conto dei soggetti da sottoporre al controllo e dei fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede, non essendo sufficiente che il Giudice per le indagini preliminari sia posto a conoscenza di una possibile evoluzione investigativa verso una nuova e diversa fattispecie, né iscritta, né indicata, ma occorre che le intercettazioni, per essere utilizzabili anche quanto a detta nuova fattispecie, siano supportate da un'autorizzazione esplicitamente tarata.

Si tratta di affermazioni suscettibili di importanti applicazioni dal momento che l'inutilizzabilità delle intercettazioni acquisite in violazione del divieto sancito dall'art. 270 c.p.p. può essere rilevata anche nell'ambito del giudizio abbreviato, trattandosi di ipotesi di c.d. inutilizzabilità patologica (così Cass. pen., Sez. VI, 1° ottobre 2020 (dep. 16 ottobre 2020), n. 28790).

Guida all'approfondimento

Luigi Giordano, Uso dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi: i principi della sentenza “cavallo” si applicano anche ai procedimenti in corso, Il Penalista, 9 giugno 2020

Cesare Parodi, Nicoletta Quaglino, La nuova riforma delle intercettazioni: D.L. 30 dicembre 2019 n. 161 con modifica L. 28 gennaio 2020, n. 7, Il Penalista, maggio 2020

Dario Albanese, Sull'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni nell'ambito del “medesimo procedimento”: il Tribunale di Milano prende le distanze dalle Sezioni unite “Cavallo”, Sistema penale, 1° dicembre 2020

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