Mancata conciliazione e condanna al pagamento delle spese

17 Febbraio 2021

La l. n. 69/2009 ha novellato l'art. 91, introducendo la previsione per cui, «[s]e accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, [il giudice] condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo...
La regola di cui all'art. 91 comma 1 c.p.c.

La l. n. 69/2009 ha novellato l'art. 91 c.p.c., introducendo al comma 1 la previsione per cui, «[s]e accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, [il giudice] condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'art. 92 c.p.c.».

Coloro che hanno esaminato la disposizione appena richiamata all'indomani del suo inserimento nel testo dell'art. 91 c.p.c. si sono divisi sulla natura del nuovo istituto.

Secondo alcuni, infatti, la nuova norma avrebbe introdotto una speciale condanna punitiva (Briguglio) ovvero una sanzione processuale (Bove-Santi) per la parte colpevole di aver rifiutato ingiustificatamente una proposta conciliativa.

Altri, invece, hanno ritenuto che la nuova previsione contemplerebbe un diverso regime di regolamentazione delle spese di lite, ispirato al principio di causalità e finalizzato a reprimere la violazione della parte che rifiuti la proposta ad essa rivolta in contrasto con i principi di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c. (Acierno-Graziosi; così anche Cass. civ., 22 ottobre 2020, n. 23044).

A prescindere, comunque, dall'inquadramento sistematico che si ritenga di accogliere, va osservato che la regola sancita dall'art. 91 comma 1 c.p.c. rientra nel più ampio novero di disposizioni finalizzate ad incoraggiare il raggiungimento di un accordo conciliativo tra i litiganti facendo leva sulla ripartizione delle spese processuali: a tale proposito si pensi, ad esempio, alle previsioni, successivamente abrogate, di cui agli artt. 16, comma 2 e 40 comma 5, del d.lgs. n. 5/2003 relative al c.d. rito societario, e all'art. 412 comma 4 c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte nel 2010, sulla conciliazione stragiudiziale preventiva nel rito del lavoro.

I requisiti della proposta conciliativa

La disposizione di cui all'art. 91 comma 1 c.p.c. sopra richiamata non chiarisce né quale sia il soggetto da cui debba provenire la proposta conciliativa né in che cosa consista il giustificato motivo di rifiuto della stessa.

Per quanto riguarda i soggetti abilitati a formulare la proposta di conciliazione, si deve ritenere, innanzitutto, che tra questi vi sia la parte (conf. Cass., sez. un., 12 settembre 2017, n. 21109), ma non è chiaro se la proposta possa provenire oltre che dal convenuto (in via principale o riconvenzionale) anche da colui che presenta la domanda.

Tra le vari opinione avanzate sul punto (su cui cfr. Vaccari) sembra preferibile quella che sostiene la necessità di una interpretazione estensiva della norma, che ricomprenda nel suo ambito applicativo anche la situazione in cui la proposta provenga dall'attore.

In tal senso, si consideri, infatti, che poiché la proposta conciliativa alla quale si fa cenno nella norma in esame è anche quella che viene avanzata da soggetti diversi dalle parti, non è concepibile, rispetto ad essa, una disciplina differente a seconda della sua provenienza da parte dell'attore o del convenuto. Tale prospettiva è del resto confermata anche da quanto previsto per il caso di rifiuto della proposta avanzata in sede di mediazione obbligatoria dall'art. 13 comma 1 del d.lgs. n. 28/2010 (su cui si tornerà infra), in base al quale tutte le parti del giudizio – dunque, sia l'attore che il convenuto – sono passibili di essere condannate al versamento delle spese in caso di rifiuto della proposta e al verificarsi degli altri presupposti previsti dalla medesima disciplina.

Al fine di definire l'ambito di applicazione della norma ci si è chiesti, inoltre, se la proposta conciliativa della parte o del difensore rilevante ai sensi dell'art. 91 c.p.c. sia anche quella formulata al di fuori del giudizio.

Chi propende per la risposta affermativa (De Marzo, Porreca) ritiene che la disposizione, che ha carattere primario, prevalga su quella del codice deontologico forense che vieta di produrre in giudizio le proposte di transazione e/o conciliazione e che, pertanto, dovrebbe intendersi implicitamente abrogata.

Altra impostazione, a nostro avviso preferibile, facendo leva sull'origine della norma, ne limita l'applicazione alle proposte conciliative che vengono formalizzate nel corso del processo (Pagni; in giurisprudenza, v. Cass., sez. un., 12 settembre 2017, n. 21109).

Ancora, come ritenuto dalla medesima dottrina da ultimo richiamata, la proposta potrebbe provenire da un mediatore stragiudiziale, ma il riferimento, contenuto nella norma, alle sole spese di lite maturate dopo la formulazione della stessa proposta, presuppone un processo già iniziato, e perciò una conciliazione delegata o un tentativo esperito parallelamente al giudizio in corso.

Secondo alcuni, inoltre, le proposte di conciliazione possono derivare anche dalle operazioni del consulente tecnico d'ufficio, sia in sede di tentativo di conciliazione tipico (previsto dagli artt. 198, 199 e 200 c.p.c.), sia in sede di consulenza tecnica preventiva ai sensi dell'art. 696-bis c.p.c., sia in sede di trattative atipiche di conciliazione svoltesi su impulso del consulente tecnico d'ufficio (Potetti).

Invece, non dovrebbe rilevare ai fini della disciplina in esame la proposta formulata dal giudice istruttore ai sensi dell'art. 185-bis c.p.c. (in tal senso v. Corte cost., 11 dicembre 2020, n. 268; in senso contrario, v., invece, Trib. Catania, 1 marzo 2019, n. 898; Trib. Milano, 26 giugno 2013) atteso che, non soltanto tale ultima norma non prevede nulla sul punto, ma, se si ammettesse tale possibilità, il giudice potrebbe essere tentato di adeguare la decisione della controversia alla proposta da lui stesso formulata, onde punire la parte che abbia avuto l'ardire di rifiutare la proposta (Tedoldi).

Quanto al suo oggetto, la proposta, oltre che riguardare diritti disponibili, per provocare il meccanismo sanzionatorio previsto dall'art. 91 comma 1 c.p.c., deve essere necessariamente aggiudicativa, ossia prevedere il riconoscimento di un determinato «bene della vita» in favore della parte istante.

La proposta non è inoltre soggetta a barriere temporali e, quindi, può essere formulata anche all'esito dell'istruttoria o in sede di precisazione delle conclusioni.

Per quanto riguarda le sue modalità di formulazione, la necessità di valutarne la misura implica il rispetto dei requisiti di specificità e di adeguata motivazione,cosicché, qualora provenga da una delle parti del giudizio, è necessario che sia contenuta negli atti difensivi o nel verbale di udienza, anche se non necessariamente di quella che sia stata destinata all'esperimento del tentativo di conciliazione. Non è invece necessaria la formulazione di un'offerta reale (Menchini).

Per consentire alla parte verso cui viene indirizzata la proposta conciliativa di considerarne adeguatamente la convenienza è anche opportuno che vengano sinteticamente illustrati i criteri, o le valutazioni, ad essa sottostanti, analogamente a quanto si è visto per la proposta formulata dal giudice. Allo stesso modo la parte che rifiuta la proposta dovrebbe esplicitare le ragioni della sua decisione, così da offrire elementi utili per la valutazione del giudice in ordine alla sussistenza del giustificato motivo.

Il rifiuto della proposta e le sue conseguenze

Il parametro al quale si deve ispirare il giudice al momento della condanna alle spese della parte che ha rifiutato la proposta conciliativa è costituito dalla misura dell'interesse a proseguire la lite (Porreca).

Tale interesse dovrebbe essere inteso in senso economico-patrimoniale, ovviamente con riferimento alle controversie che consentono l'utilizzo di un simile parametro, perché solo così è possibile verificarne la sussistenza in termini oggettivi e, per di più, all'interno dello stesso processo nel cui ambito sia stata avanzata la proposta. A ciò si aggiunga che le proposte che non hanno ad oggetto somme di denaro potranno essere comunque traducibili in termini monetari o, più in generale, potrebbero avere dei riflessi economici quantificabili: è innegabile, peraltro, che, con riferimento a tali casi, l'ambito di valutazione rimesso al giudice sia piuttosto esteso.

Pertanto non si potrà tener conto di ragioni di ordine soggettivo, come la convinzione della parte che ha rifiutato la proposta della fondatezza delle proprie ragioni, o il suo interesse, di tipo morale, alla pronuncia.

Stando alla lettera della norma, il rifiuto della proposta senza giustificato motivo determina la condanna alla spese solo nel caso in cui essa corrispondesse esattamente alla decisione. V'è da chiedersi, però, se la medesima conclusione non sia consentita anche nei casi in cui l'esito della lite si discosti di poco dalla proposta, specie allorquando per giungervi sia stata necessaria una attività istruttoria lunga, o comunque dispendiosa, o se, piuttosto, a fronte di essi, non siano ravvisabili le condizioni per la compensazione, anche integrale, delle spese.

Un'ulteriore difficoltà applicativa del meccanismo dell'art. 91 comma 1 c.p.c. è inoltre rappresentata dalle operazioni di calcolo che il giudice deve compiere, dovendo questi prima di procedere a liquidare le spese sostenute dalla parte parzialmente vittoriosa fino al momento della formulazione della proposta conciliativa, e, poi, a calcolare separatamente le spese sostenute dalla parte parzialmente soccombente nella frazione temporale che va dalla formulazione della proposta di conciliazione fino alla sentenza.

Di difficile lettura risulta, poi, il rinvio compiuto dalla disposizione in esame all'art. 92 comma 2 c.p.c., e contenuto nell'ultima parte della norma in esame. Tale rinvio dovrebbe essere interpretato nel senso della possibilità di escludere la condanna e di compensare le spese dell'intero processo, anche nel caso di rifiuto ingiustificato della proposta, ove sussistano le gravi ed eccezionali ragioni richieste dall'art. 92 c.p.c. (Vaccari).

I rapporti con la disciplina di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 28/2010

La disciplina relativa alle conseguenze sulle spese processuali della mancata conciliazione in sede giudiziale trova un riflesso anche in sede di mediazione, dove l'art. 11 comma 1 del d.lgs. n. 28/2010 prevede che il mediatore può formulare una proposta conciliativa in caso di mancato raggiungimento dell'accordo amichevole ed è tenuto a farlo, in caso di richiesta congiunta delle parti.

Anche l'art. 13 del d.lgs. n. 28/2010 ricollega determinate conseguenze in termini di liquidazione delle spese di lite al rifiuto della proposta conciliativa del mediatore, ma con alcune importanti differenze rispetto alla corrispondente disciplina del secondo periodo dell'art. 91 comma 1 c.p.c.

Il comma 1 dell'art. 13 infatti prevede infatti: (a) che quale unico presupposto per la condanna alla rifusione delle spese vi debba essere una perfetta coincidenza tra contenuto della proposta conciliativa rifiutata e contenuto della decisione; (b) la possibilità di condannare sempre la parte vittoriosa, che abbia rifiutato la proposta conciliativa, al pagamento all'entrata di bilancio dello Stato di una somma, di importo corrispondente al contributo unificato dovuto, ulteriore rispetto a quella liquidata a titolo di spese non ripetibili maturate dopo la formulazione della proposta e a quelle per l'indennità del mediatore e per il compenso dell'esperto durante la mediazione; (c) che è fatta salva l'applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c.

Il rinvio all'art. 92 c.p.c. nella norma in esame ha lo stesso significato di quello che, come si è visto in precedenza, va attribuito all'analogo richiamo che è presente nell'art. 91 comma 1 secondo periodo c.p.c., ossia di far salvo il potere di compensazione delle spese di lite a qualunque titolo.

Per quanto attiene, invece, al rinvio all'istituto della lite temeraria contenuto nell'art. 13 comma 1 del d.lgs. n. 28/2010, si deve ritenere che esso debba essere inteso nel senso per cui il giudice deve tener conto del comportamento delle parti, rilevante ai sensi dell'art. 96 c.p.c., nella fase del giudizio successiva a quella svoltasi davanti al mediatore, a prescindere dall'atteggiamento che esse possano aver assunto di fronte alla proposta conciliativa del mediatore.

In altri termini anche la parte che dovesse accettare la proposta conciliativa potrebbe essere condannata ai sensi dell'art. 96 c.p.c., se risultasse soccombente nel giudizio e se la sua difesa risultasse connotata da male fede o colpa grave. Allo stesso modo anche la parte che rifiutasse la proposta conciliativa potrebbe essere sanzionata ai sensi di tale norma, nella ricorrenza dei presupposti per la sua applicazione, oltre che subire la condanna ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 28/2010.

Infine, merita di essere ricordato che, quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l'indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all'esperto, dovendo peraltro il giudice indicare espressamente nella motivazione le ragioni di tale provvedimento.

Riferimenti
  • A. De Luca, Mediazione e (abuso del) processo: la deroga al principio della soccombenza come incentivo alla conciliazione, in Riv. dir. civ., 2011, II, pp. 403 e ss.;
  • S. Menchini, sub art. 91 c.p.c., in Aa.Vv., La riforma della giustizia civile, commento alle disposizioni della legge sul processo civile, 69/2009, Torino, 2009;
  • I. Pagni, La «riforma» del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. giur., 2009, 1309 ss.;
  • M. Vaccari, La proposta conciliativa nella nuova disciplina delle spese di lite, in Nuova giur. civ. comm., 2011, 610 ss.

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