Legge di bilancio 2021 e patrimonio netto di bilancio nelle società di capitali in Italia: spunti per il superamento di un paradigma

Niccolò Abriani
Fabio Buttignon
17 Febbraio 2021

La legge di Bilancio 2021 (l. n. 178/2020) ha riscritto l'art. 6 del Decreto Liquidità che, derogando alla disciplina codicistica in materia di operazioni sul capitale, aveva sospeso gli obblighi di adeguamento del capitale in presenza di perdite, la causa di scioglimento connessa alla mancata ricapitalizzazione al minimo legale e la correlata responsabilità aggravata per gli amministratori per gestione non conservativa del patrimonio sociale post scioglimento. La riformulazione della norma solleva, però, due ordini di problemi interpretativi. Gli Autori intendono offrirne una lettura prospettica, che vada oltre la disciplina emergenziale.
La nuova formulazione dell'art. 6 del Decreto Liquidità

La disciplina delle operazioni sul capitale costituisce uno dei profili più rilevanti e innovativi della legislazione emergenziale introdotta nel corso di quest'ultimo anno per far fronte agli effetti sul sistema imprenditoriale della pandemia. Come noto, l'art. 6 del Decreto Liquidità (d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito dalla legge 5 giugno 2020, n. 40) aveva originariamente sospeso gli obblighi di adeguamento del capitale imposti dal codice civile (artt. 2446 e 2447 e 2482-bis e 2482-ter), la causa di scioglimento connessa alla mancata ricapitalizzazione al minimo legale (art. 2484, comma 1, n. 4) e, di conseguenza, la responsabilità aggravata per gli amministratori per gestione non conservativa del patrimonio sociale post scioglimento (art. 2486). A ridosso del termine di scadenza della norma, il legislatore è tornato sulla disposizione con un intervento che sembra destinato a rivestire corollari più rilevanti sul piano applicativo e sistematico, per la sua maggiore portata e proiezione temporale. La legge di bilancio (art. 1, comma 266 della l. 178/2020) ha sostituito integralmente la norma che, pur conservando l'originaria rubrica («Disposizioni temporanee in materia di riduzione di capitale») ora si articola in quattro commi.

Il primo stabilisce che «per le perdite emerse nell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma, e 2482-ter del codice civile e non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile».

Il secondo comma dispone che «il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dagli articoli 2446, secondo comma, e 2482-bis, quarto comma, del codice civile, è posticipato al quinto esercizio successivo; l'assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate». Il terzo comma prevede che «nelle ipotesi previste dagli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile l'assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all'immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell'esercizio di cui al comma 2. L'assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve procedere alle deliberazioni di cui agli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile. Fino alla data di tale assemblea non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile».

Disapplicazione e rinvio degli obblighi di adeguamento del capitale sociale

La riformulazione della norma solleva due ordini di problemi interpretativi: il primo riguarda la nozione di “perdite emerse nell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020”; il secondo, la portata della disapplicazione dei meccanismi di riduzione obbligatoria e di ricostituzione del capitale sociale, prevista dal primo comma, e il rapporto esistente tra tale comma e i due capoversi che lo seguono.

All'esame di entrambe le questioni va anteposta la previsione del quarto e ultimo comma, ai sensi del quale “le perdite di cui ai commi da 1 a 3 devono essere distintamente indicate nella nota integrativa con specificazione, in appositi prospetti, della loro origine nonché delle movimentazioni intervenute nell'esercizio”. Prima ancora gli amministratori dovranno informare in tempo reale i soci la cui immediata convocazione resta un corollario ineludibile dell'accertamento delle perdite. Come già nell'originaria versione dell'art. 6 del Decreto Liquidità, i commi iniziali degli artt. 2446 e 2482-ter sono gli unici precetti non disapplicati dal primo comma, e comunque non rinviabili ai sensi dei due capoversi. Pertanto, quando risulti che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, l'organo amministrativo (e, nel caso di sua inerzia, l'organo di controllo) devono comunque convocare senza indugio l'assemblea, sottoponendo ai soci una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni dell'organo di controllo: relazione e osservazioni che devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l'assemblea, nel corso della quale gli amministratori devono dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della relazione.

A fronte di questi punti fermi in ordine alla doverosa informativa che gli amministratori sono tenuti a rendere sulla effettiva situazione patrimoniale della società, assai meno univoche risultano la portata e la proiezione temporale della deroga introdotta alla disciplina del codice civile.

Secondo una prima lettura, occorrerebbe distinguere i) da un lato, le “perdite emerse nell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020”, per le quali si esclude in radice l'applicabilità dei meccanismi di adeguamento e ricostituzione del capitale, rimanendo dunque definitivamente “segregate” e registrate separatamente (in una sorta di “conto di memoria”); ii) dall'altro, le perdite emerse prima o dopo l'esercizio di riferimento, per le quali i meccanismi di adeguamento obbligatorio del capitale continuerebbero a trovare applicazione, ma con la ricordata sensibile dilatazione dei termini entro i quali si dovrà procedere alla relativa modifica statutaria (N. Abriani, N. Cavalluzzo, Termini di ricapitalizzazione fino a cinque anni, in Il Sole 24Ore, 22 dicembre 2020, 33. E v. anche il comunicato Assonime dell'11 gennaio 2021, dove si legge: “L'art. 1, comma 266, della Legge di bilancio 2021 sostituisce il predetto art. 6 prevedendo, in primo luogo, che gli obblighi di riduzione del capitale e di scioglimento per perdite rilevanti non si applicano alle perdite emerse nell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020. Esso inoltre dilata il momento in cui si devono adottare le misure di riduzione del capitale e ricapitalizzazione” (corsivi aggiunti), nonché, in termini dubitativi, L. Folladori, Legge di bilancio 2021 – Perdite del capitale: “Ricapitalizza o liquida” quo vadis?, consultabile al sito https://www.federnotizie.it/legge-di-bilancio-2021-ricapitalizza-o-liquida-quo-vadis, ove si pone l'interrogativo: “Considerato che il comma 3, ultima parte, prevede una neutralizzazione della causa di scioglimento indipendentemente, sembrerebbe, da quando si sono verificate le perdite, ne deriva un criterio anche per definire quali sono le perdite rilevanti ai sensi del comma 2 della norma in commento?” - corsivo aggiunto).

La disposizione si presta però anche a una interpretazione più restrittiva che nega rilevanza autonoma al primo comma e riferisce alle sole perdite ivi contemplate la dilazione dei termini di adeguamento e ricostituzione del capitale sociale di cui ai due commi successivi. Tale lettura, che parrebbe prevalere nei primi commenti (v. E. Bozza, L. De Angelis, Ossigeno alle società in perdita, in ItaliaOggi 7, 28 dicembre 2020, 2; F. Roscini Vitali, Copertura delle perdite 2020 rinviabile al bilancio 2025, in IlSole24Ore, 30 dicembre 2020, 17; A Busani, Niente sospensione per le perdite 2021, in IlSole24Ore, 6 gennaio 2021, 24; C. Sottoriva, A. Cerri, La proroga della sospensione della disciplina sulla riduzione obbligatoria del capitale nella legge di bilancio 2021, in questo portale, i quali ritengono che “le perdite cui fare riferimento siano (solo) quelle (“nuove”) risultanti dal Conto economico dell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020, ossia – in ipotesi di coincidenza tra esercizio (periodo amministrativo) e anno solare – al risultato economico negativo derivante dalla differenza tra i ricavi conseguiti e i costi sostenuti dal 1° gennaio 2020 al 31 dicembre 2020”. Fanno riferimento alle “perdite, anche non causate dalla pandemia, che emergano dal bilancio, purché riferito ad un esercizio in corso al 31 dicembre 2020”, P. Marchetti, M. Ventoruzzo, Rischio imprese zombie. Non basta l'emergenza, in Corriere della sera, Economia, 1 gennaio 2021, 15), trova un appiglio nella perdurante qualificazione come “temporanee” delle disposizioni in esame (contenuta nella richiamata rubrica dell'art. 6); per altro verso, sembra non facilmente conciliabile con il ricordato riferimento contenuto nell'ultimo capoverso della norma alle “perdite di cui ai commi da 1 a 3”, che parrebbe presupporre una separata considerazione di ciascuna delle fattispecie ivi disciplinate, oltre a imporre una qualche forzatura del dato letterale del comma iniziale, per il quale gli articoli in esame “non si applicano” e la relativa causa di scioglimento “non opera”, e dello stesso secondo comma, che verrebbe interpretato come se recitasse “la perdita di cui al comma precedente”.

L'interpretazione “restrittiva” (o “unitaria”) del nuovo art. 6 verrebbe ad assegnare un maggior rilievo al secondo dubbio ermeneutico sollevato dalla norma, relativo alla nozione di “perdite emerse” durante l'esercizio in corso al 31 dicembre del 2020. Come già con riguardo alla (peraltro non coincidente) formulazione originaria della disposizione, si pone qui infatti il problema se tale locuzione ricomprenda solo le perdite accertate a livello contabile nel corso dell'esercizio di riferimento o anche le perdite maturate in tale esercizio, ma emerse in sede di redazione del bilancio nel 2021. Ove si consideri che la nuova norma non ha tecnicamente operato, come pure è stato affermato (C. Sottoriva, A. Cerri, La proroga della sospensione della disciplina sulla riduzione obbligatoria del capitale nella legge di bilancio 2021, cit.), una proroga quinquennale della sospensione disposta dal primo intervento emergenziale sino al 31 dicembre 2020, si porrebbe il delicato problema della reviviscenza delle perdite rilevanti emerse anteriormente al 1° gennaio 2020 (o al 1° luglio 2020, per le società che chiudono l'esercizio al 30 giugno), per le quali si dovrebbe ritenere esaurito l'effetto sospensivo garantito dalla versione iniziale dell'art. 6. Si tratterebbe allora di ricondurre alla nozione di “perdite emerse” tutte quelle che abbiano comunque avuto una loro evidenza contabile nell'esercizio in corso al 31 dicembre 2020, indipendentemente dalla loro origine. Una conclusione difficilmente accettabile e che non parrebbe agevolmente conciliabile con la prospettata estensione della portata del primo comma alle perdite riferibili al 2020 che siano però accertate contabilmente nel corso del 2021. In tal modo, per “recuperare” le perdite anteriori al 2020 si finirebbe per escludere dalla portata della norma proprio quelle erosioni del capitale prodottesi in conseguenza della pandemia, salvo che siano tecnicamente emerse in situazioni patrimoniali redatte in corso di esercizio.

Questi problemi sarebbero sensibilmente attenuati dalla diversa interpretazione sopra prospettata che, riconoscendo portata autonoma ai tre commi della norma, scongiurerebbe in radice il rischio che con il nuovo anno le nostre imprese si trovino nell'alternativa tra ricostituire il capitale o indirizzare la gestione nei limiti della gestione conservativa, a causa di perdite risalenti ad esercizi anteriori o per perdite maturate nel 2020, ma emerse contabilmente nel 2021. La nozione di perdite emerse nell'esercizio in corso al 31 dicembre 2020 varrebbe infatti a individuare il perimetro entro il quale opererebbe la disapplicazione a tempo indefinito delle regole in esame di cui al primo comma, mentre per le altre perdite sarebbe accordata ai soci l'opzione di rinviare sino all'assemblea che approva il bilancio del quinto esercizio successivo tanto la riduzione obbligatoria di cui agli artt. 2446 e 2482-bis (così il comma 2), quanto la ricostituzione del capitale eroso dalle perdite di cui agli artt. 2447 e 2482-ter (così il comma 3). Soprattutto, con riferimento a quest'ultima e più grave fattispecie, rimarrebbe sospesa – per l'arco temporale che intercorre dalla rilevazione delle perdite fino all'assemblea di approvazione del bilancio del quinto esercizio successivo – non soltanto la regola del ricapitalizza o liquida, ma altresì la causa di scioglimento prevista dall'art. 2484, n. 4 c.c., così ponendo amministratori e sindaci al riparo dai rischi di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2486 c.c. (aggravata dalla riformulazione operata dal d.lgs. n. 14/2019).

Si tratterebbe dunque di distinguere le perdite emerse nell'annus horribilis della pandemia, che rimarrebbero insuscettibili di incidere sul computo del patrimonio netto ai fini degli artt. 2446 e 2447 c.c., e le altre perdite, per le quali i commi 2 e 3 verrebbero a sostituire sino a nuovo intervento legislativo gli articoli del codice, consentendo un rinvio degli interventi di adeguamento del capitale (2446) e di ricapitalizzazione o trasformazione (2447), nel solco del modello già introdotto per le start up innovative.

L'esercizio in corso al 31 dicembre 2020 verrebbe così individuato come una sorta di “anno zero” del sistema imprenditoriale tale, da un lato, da indurre a una appostazione separata delle perdite emerse in tale anno e, dall'altro, una estensione a cinque anni del grace period triennale previsto per le start up a tutte le società di capitali chiamate ad affrontare gli effetti della crisi economica determinata dalla emergenza sanitaria. Una ripartenza quanto mai impegnativa, che i nostri imprenditori potrebbero così gestire senza i bastoni tra le ruote degli obblighi di immediato adeguamento del capitale nominale e, soprattutto, senza la spada di Damocle delle responsabilità per gestione non meramente conservativa, che tarperebbe le ali alle scelte più coraggiose e innovative che questa fase di disruption potrebbe imporre per la sopravvivenza di molte realtà aziendali.

Tanto per le perdite emerse nell'esercizio in corso al 31 dicembre 2020, quanto per quelle successive, alle quali si ritengano applicabili i capoversi della norma, resta ferma la possibilità per i soci di non optare per il rinvio e deliberare immediatamente riduzioni e ricapitalizzazioni, se del caso anche al fine di beneficiare degli incentivi fiscali prorogati ora sino al 30 giugno 2021. Al riguardo va anzi segnalato che il nuovo scenario consente di realizzare aumenti di capitale senza preventive riduzioni, anche in misura non sufficiente a ripristinare un patrimonio netto pari al minimo legale, dunque evitando il tradizionale meccanismo “a fisarmonica” e ben oltre le ipotesi sinora contemplate dalla Massima 122 del Consiglio notarile di Milano (e, ancora prima, sperimentate nel caso Juventus).

E parimenti ferma rimane naturalmente l'incidenza dell'intervenuta erosione del patrimonio netto su tutti gli altri profili rispetto ai quali l'ordinamento societario assegna rilevanza all'effettiva consistenza dello stesso: dai limiti all'emissione del prestito obbligazionario, al divieto di acquisto di azioni proprie e di operazioni di assistenza finanziaria, nonché di distribuzione di dividendi, con destinazione prioritaria degli utili futuri alla ricostituzione del capitale e della riserva legale.

Oltre la disciplina emergenziale

Al di là della interpretazione che si ritenga di dare alla disposizione, la nuova disciplina mira a prevenire il rischio che le imprese sulle quali si è abbattuto l'impatto della pandemia siano instradate verso una ineluttabile deriva liquidatoria, in assenza di adeguati investimenti di equity, che i soci potrebbero non essere in condizione di effettuare, anche per le incertezze su quale sarà il new normal nel quale si andrà ad approdare dopo l'emergenza sanitaria. Per scongiurare tale scenario si consente alle società di capitali di continuare a operare in una logica non meramente conservativa, anche in presenza di un perdurante patrimonio netto negativo.

L'approvazione del testo della legge di Bilancio 2021 apre così la strada a un'importante innovazione nella normativa sulle società di capitali: la possibilità di operare in continuità anche in presenza di un capitale anche interamente eroso. E ciò, quanto meno, per un arco temporale considerevole, ove si consideri che il rinvio previsto dal terzo comma della norma consente una dilazione ultraquinquennale; mentre, ove si acceda alla lettura “autonoma” del primo comma più sopra prospettata, l'erosione determinata da perdite emerse nell'esercizio in corso al 31 dicembre 2020 potrebbe protrarsi anche a tempo indefinito.

La disciplina emergenziale ripropone così il tema del superamento del vincolo del capitale contabile (CC) positivo, prefigurando la possibilità di ulteriori evoluzioni che consentano di allineare il nostro ordinamento a posizioni da tempo presenti in altri contesti, in primis gli Stati Uniti, ove è possibile per le società di capitali continuare ad operare anche in presenza di un CC nullo o negativo, a patto che sia possibile mantenere o ripristinare le condizioni di solvibilità aziendale, da confermare attraverso opportune verifiche (solvency test). Non si intende qui ripercorrere il dibattito sulla perdurante funzione del capitale sociale (sull'istituto, già oggetto di studi classici - per tutti G.B. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G. Portale, I**, Torino, 2004, 1 ss.-, si è assistito al vivace confronto dialettico sviluppato dall'iniziale saggio di L. Enriques, J. Macey, Raccolta del capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale, in Riv. soc., 2002, 78, cui ha fatto seguito la risposta di F. Denozza, A che serve il capitale?, in Giur. comm., 2002, I, 585, la replica di L. Enriques, Capitale sociale, informazione contabile e sistema del netto: una risposta a Francesco Denozza, ivi, 2005, I, 607 e, quindi, le ulteriori considerazioni di F. Denozza, Le funzioni distributive del capitale, ivi, 2006, I, 489. E v. anche G. Ferri jr, Struttura finanziaria dell'impresa e funzioni del capitale sociale, in N. Abriani – J. Embid Irujo, La società a responsabilità limitata in Italia e in Spagna. Due ordinamenti a confronto, Milano, 2008, 59 ss.; M. Miola, Il sistema del capitale sociale e le prospettive di riforma nel diritto europeo delle società di capitali, in Riv. soc., 2005, 1199), ma semplicemente, da un lato, ricordare che i vincoli imposti al riguardo dal diritto eurounitario non precludono l'attenuazione e finanche il superamento del meccanismo che ricollega alla mancata ricapitalizzazione un effetto risolutivo (e v. L. Stanghellini, Commento agli artt. 2446 e 2447, in La società per azioni, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, a cura di M. Campobasso, V. Cariello, U. Tombari, Milano, 2016, II, 2709) e, dall'altro, appuntare l'attenzione su alcuni ulteriori argomenti a sostegno di questa evoluzione.

Come noto, una delle principali assunzioni a sostegno del CC positivo è che esso offrirebbe una “protezione” ai creditori, nel senso che la presenza di un valore contabile delle attività superiore a quello delle passività rivelerebbe lo stato di solvibilità dell'impresa, cioè la sua attitudine a rimborsare il debito in essere. In realtà, nell'azienda in funzionamento, la remunerazione e il rimborso dei debiti già contratti non si fondano mai sul realizzo “diretto” dei valori contabili delle attività, ma sul loro realizzo “indiretto”, via reddito e flussi di cassa generati dalla gestione, ai quali si aggiungono la possibilità di accedere a nuovi debiti e/o aumenti di capitale. Queste ultime operazioni di nuova finanza “esterna” sono correlate alle potenzialità dell'impresa, cioè alle attese di reddito e flussi di cassa futuri, così come percepite dai potenziali investitori (in strumenti di debito e/o di equity). La prospettiva di conversione diretta in cassa delle attività per far fronte alle passività si concretizza solo in ipotesi di liquidazione della società. Nella quale, però, il valore delle attività – tenuto conto dei tempi e dei costi del processo liquidatorio - si può rivelare inferiore a quello contabile (di funzionamento). Questo divario si accentua, salvo rare eccezioni, se la cessione avviene nell'ambito di una procedura concordataria o fallimentare (un domani, liquidazione giudiziale).

Anche accettando la precedente argomentazione, si potrebbe però sostenere che il CC positivo non debba essere concepito “letteralmente” come valore “realizzabile”, ma come limite “simbolico”, freno all'aumento spropositato del debito, che troverebbe un opportuno vincolo dimensionale pari al valore (è bene precisarlo ancora, contabile) dell'attivo patrimoniale. E questa previsione limiterebbe comportamenti “deviati” degli amministratori, a danno dei creditori sociali, ad esclusivo vantaggio degli azionisti, in presenza di debito elevato. La letteratura è ampia nell'indicare i problemi dell'eccesso di debito (debt overhang) che, oltre a ridurre la capacità di investimento dell'impresa e la sua flessibilità a fronte di eventi avversi, aumenta il rischio di comportamenti opportunistici e spregiudicati (moral hazard) da parte di imprenditori e manager che agiscano nel (prevalente) interesse dell'azionista di controllo. Si tratta di motivazioni condivisibili a sfavore dell'eccesso di debito, che non giustificano, però, il vincolo del CC positivo, poiché esso, non solo non contribuisce a risolvere i problemi generati da strutture finanziarie deboli, ma limita le alternative disponibili per gli amministratori per uscire dalla condizione di eccesso di debito, potenzialmente a danno dei creditori medesimi. Approfondiamo il punto, ripercorrendo tali opzioni.

La prima, che più di un'alternativa è un espediente (non poco utilizzato), è quella di rinunciare a valutazioni rigorose di bilancio, mantenendo, per tale via, un CC positivo solo grazie a stime del valore contabile delle attività (e anche delle passività potenziali) al limite della verità e correttezza. La rimozione del vincolo toglierebbe l'alibi agli amministratori esecutivi di giustificare scelte non prudenti sul bilancio per non mettere in pericolo la continuità aziendale. E limiterebbe l'imbarazzo di amministratori non esecutivi, sindaci e revisori di non insistere per valutazioni più prudenti (rectius, corrette), consapevoli che queste condurrebbero alla convocazione dell'assemblea per l'aumento del capitale o la liquidazione della società (oppure la sua trasformazione in società di persone, con le conseguenti responsabilità illimitate dei soci). In sintesi, un primo vantaggio della rimozione del vincolo del capitale sarebbe lo stimolo alla maggiore trasparenza e correttezza delle valutazioni di bilancio nelle società che presentino un elevato livello di debito e/o una limitata capitalizzazione (contabile). Se vogliamo, rilevando anche con maggiore tempestività il valore del CC come uno degli “indicatore della crisi”.

Preso atto, presto o tardi, di un CC eroso, gli amministratori oggi non hanno scelta se non convocare l'assemblea dei soci, rinviando ad essi la decisione in merito a: aumento di capitale, liquidazione, trasformazione in società a responsabilità illimitata o ricorso a una procedura per mantenere la continuità allo status quo. Esclusa da questa riflessione la prima alternativa (che supera, ad evidenza, il tema qui posto) e la terza (che fa venire meno la ragion d'essere della società di capitali), le due opzioni di interesse sono la liquidazione o la continuità “protetta” da una procedura giudiziale. In entrambi i casi, si potrebbe assistere al depauperamento del valore dell'attivo aziendale, a danno, non solo e non tanto degli azionisti, ma anche e soprattutto dei creditori (a partire dai più junior, fino a i più protetti).

La cessione dell'attivo aziendale – in chiave atomistica o anche d'insieme – nell'ambito di un processo liquidatorio – giudiziale o meno - è ben noto che difficilmente porta a realizzare valori superiori a quelli contabili di funzionamento. Ovviamente nulla esclude che, in particolari situazioni, il valore di liquidazione delle attività d'impresa (incluse quelle non rilevate in contabilità) possa essere significativo. Ma questo è un giudizio che va rinviato al caso specifico, evitando di “forzare” l'avvio della liquidazione per il vincolo del CC positivo.

La continuità aziendale sotto l'alveo di una procedura giudiziale – inizialmente il concordato “in bianco”, che poi può sfociare in un piano omologato (oggi anche solo attestato) o in un concordato - implica, necessariamente, l'interruzione dei pagamenti ai creditori preesistenti (con limitate eccezioni), che reagiscono bloccando le linee di credito e, quindi, limitando fortemente le possibilità operative dell'impresa, costretta ad acquistare solo per cassa. Sul fronte critico dei clienti, inoltre, l'apertura di una procedura aumenta il rischio che essi decidano di interrompere o limitare gli scambi con l'impresa, sovente interrompendo i pagamenti dei crediti preesistenti. Anche i collaboratori (dipendenti e non) potrebbero decidere di lasciare l'impresa, soprattutto se il “capitale umano” di cui siano dotati possa orientarsi agevolmente verso altri impieghi, più remunerativi e/o meno rischiosi. Il valore di continuità tende così a subire un salto in negativo all'aprirsi di una procedura, con pesanti riflessi anche e soprattutto sul valore per i creditori. Consapevoli di tale rischio, questi ultimi tendono sovente a favorire la continuità aziendale in contesti non concorsuali, nonostante la più o meno nitida consapevolezza di una erosione “carsica” del capitale contabile, accettando il rinvio dell'approvazione e pubblicazioni del bilancio e/o indagando limitatamente sulla correttezza delle valutazioni in esso contenute; in tal modo, però, lasciando in capo ad amministratori e organi di controllo societari notevoli responsabilità, accentuate dal Codice della crisi.

Un nuovo paradigma?

È evidente che rimuovere il vincolo del CC positivo non risolverebbe, di per sé, il tema della soluzione della crisi, ma aprirebbe lo spazio di azione degli amministratori, che potrebbero valutare diverse opzioni di superamento della condizione di eccesso di debito, ricorrendo a una procedura per la continuità (o alla liquidazione) solo quando si fossero esaurite le possibilità di soluzione in autonomia di questo tema. Come potrebbe articolarsi la gestione in presenza di un CC nullo o negativo, mantenendo un adeguato livello di tutela per i creditori e per gli altri portatori di interesse aziendali (stakeholders), oltre agli azionisti? Vediamo alcuni suggerimenti iniziali.

  1. In primis, gli amministratori sarebbero comunque obbligati, come ora, a produrre e approvare tempestivamente una bozza di bilancio da sottoporre senza indugio ai soci. Questi sarebbero chiamati ad analizzarla e approvarla, dando, quindi, tempestivamente comunicazione all'esterno della condizione di sotto-capitalizzazione societaria. A livello informativo, si potrebbe poi stabilire l'obbligo per le società con CC nullo o negativo di comunicazione periodica dell'andamento aziendale e della situazione finanziaria della società, prendendo spunto da quanto richiesto da Consob alle società quotate oggetto di osservazione (grey e black list).
  2. Gli amministratori dovrebbero, poi, presentare ai soci (nella medesima assemblea di approvazione del bilancio o in tempi molto stretti successivi) un piano aziendale che evidenzi, sotto il profilo operativo e finanziario, le modalità per superare la condizione di negatività del capitale che si sia venuta a verificare. Tale piano, ripercorrendo le cause che hanno generato l'erosione del capitale, insisterà sugli aspetti strategico-operativi e finanziari atti a favorirne il recupero in un certo arco temporale, di breve o di medio-lungo periodo, sui quali attivare il processo di controllo del suo stato di avanzamento. Il piano potrebbe anche prevedere, in parallelo alla continuità in autonomia, l'attivazione di operazioni di M&A per la ricerca di nuovi soci (anche di controllo) e/o la cessione del complesso aziendale in funzionamento (anche, se del caso, articolato per rami d'azienda).
  3. Il piano dovrà comprendere una proiezione dei flussi di cassa a breve termine (da sei mesi a un anno), che evidenzi come la società intenda far fronte al tema della liquidità, condizione chiave di fattibilità della continuità. In alcuni casi, pur in presenza di un CC eroso, la società potrebbe non evidenziare un tema critico di liquidità a breve, se, ad esempio, il debito fosse per la gran parte a medio-lungo termine e la cassa (ancora) positiva. In molti casi, è probabile che la gestione della liquidità a breve richieda accordi con i finanziatori, che potrebbero andare da interventi su covenant e scadenze del debito (amend and extend), a operazioni di stralcio del debito e/o conversione in strumenti di capitale. Anche cessioni di attività non più rilevanti per la gestione (surplus asset) potrebbero essere comprese, così come operazioni di nuova finanza.
  4. Il piano dovrebbe essere accompagnato dal giudizio, fondato e motivato, della convenienza economica a perseguire la continuità in autonomia, rispetto alla liquidazione o alla continuità in procedura. Assunta la fattibilità del piano, agli amministratori sarebbe chiesto, in altri termini, di esprimersi in merito al valore economico del capitale – diverso da quello contabile e funzione del valore attuale dei flussi di cassa attesi futuri dalla gestione operativa e/o del valore di cessione a terzi del complesso aziendale in funzionamento -, evidenziando come esso si prospetti superiore al valore delle attività in continuità con ricorso a una procedura con intervento del Tribunale (piano omologato e concordato) e al valore delle attività in ipotesi di liquidazione (giudiziale o meno).
  5. A fronte del piano e dei giudizi di cui sopra un tema da approfondire potrebbe essere quello di introdurne o meno l'obbligo di attestazione a cura di un perito indipendente esterno. Al di là dei tempi e dei costi di questo intervento, un tema delicato è quello del rischio di (eccessivo) irrigidimento della gestione aziendale, che, pur fondandosi su un piano condiviso, non può non reagire, con tempestività, a nuove minacce e opportunità. Come ben noto, questa flessibilità è limitata o comunque resa più costosa dalla presenza di un piano attestato, il cui cambiamento richieda un nuovo giudizio esterno. Una proposta potrebbe essere quella di limitare l'obbligo dell'asseverazione a singoli atti particolarmente rilevanti (cessione di asset oltre un certo valore e/o ricorso a nuovo debito senior rispetto ai creditori attuali), valorizzando, invece, le funzioni di supervisione e controllo degli organi della governance aziendale non direttamente coinvolti nella gestione (amministratori non esecutivi e sindaci), opportunamente responsabilizzati.
  6. Preso atto che il mantenimento o il recupero della continuità aziendale in presenza di un CC eroso richiedono, in ogni caso, il consenso dei creditori (o di almeno una parte di essi), se questo non fosse raggiungibile nell'autonomia negoziale delle parti e gli amministratori non scorgessero altre strade oltre a quelle proposte nel piano per uscire dalla crisi, si aprirebbe la porta alla liquidazione societaria o al ricorso alla continuità “protetta” (ma “limitata”), secondo le previsioni attuali. Non sarebbe, però, la “semplice” condizione di erosione del CC a decretare questo destino, ma un più ampio processo decisionale e negoziale tra i diversi attori coinvolti a vario titolo nel funzionamento aziendale, nella loro libertà decisionale e negoziale.
  7. Infine, sui tempi entro i quali potrebbe essere prospettabile il recupero del CC si potrebbe discutere. Non pare tuttavia un tema rilevante da porre, se valessero gli elementi di cui sopra (trasparenza e tempestività informativa, piano da formulare e realizzare con il consenso dei creditori e la vigilanza degli organi di controllo societario). Nel senso che saranno i fatti a dettare i tempi: se la società non riuscisse a confermare nei risultati le prospettive di piano e se perdesse la fiducia dei creditori nella fattibilità di nuove proposte di recupero della crisi aziendale la perdita della continuità aziendale in autonomia sarebbe inevitabile (e questo, a dire il vero, anche in presenza di un CC positivo, in certe situazioni).

La rimozione del vincolo del capitale aprirebbe, in sintesi, uno spazio di libertà all'azione degli amministratori per superare la condizione di sotto-capitalizzazione (o di eccesso di debito), valorizzando al meglio il potenziale (ancora) presente nella continuità aziendale e anche le opportunità di intervento da parte di nuovi soci di controllo e/o di cessione del complesso aziendale in funzionamento. Opportuni vincoli sul piano della trasparenza e della tempestività informativa, associati a una più pervasiva e profonda azione degli amministratori non esecutivi e degli organi di controllo, potrebbero essere elementi che limitano i rischi per i creditori sui quali si fonda il paradigma del CC positivo nelle società di capitali.

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