L'applicabilità della business judgment rule alle scelte organizzative e ai doveri di cui all'art. 2086 c.c.

Serena Maurutto
Alessandro Turchi
18 Febbraio 2021

Al dovere di adottare adeguati assetti societari (art. 2086, comma 2, c.c.) viene attribuito il preciso scopo di rilevare tempestivamente la crisi e la perdita di continuità aziendale, nonché di intervenire senza indugio per adottare gli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero dell' on going concern.
Massima

Al dovere di adottare adeguati assetti societari (art. 2086, comma 2, c.c.) viene attribuito il preciso scopo di rilevare tempestivamente la crisi e la perdita di continuità aziendale, nonché di intervenire senza indugio per adottare gli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero dell' on going concern. L'aggettivo “adeguati”, cui non fa seguito alcuna ulteriore precisazione o delucidazione da parte del legislatore, rinvia ad una valutazione discrezionale da parte degli organi gestori in ordine agli standard contabili, di gestione e organizzazione da implementare per garantire la compliance aziendale rispetto al dettato normativo; tale discrezionalità deve essere orientata sulla base di parametri qualitativi e quantitativi, a loro volta legati alla natura e alla dimensione dell'impresa. Poiché le scelte “organizzative” rientrano ex se nel concetto stesso di gestione societaria, è naturale il richiamo alla c.d. business judgment rule, secondo la quale il management di ogni impresa contiene intrinsecamente un insopprimibile margine di libertà di scelta, connesso all'altrettanto ineludibile livello di rischio che caratterizza la peculiarità di qualsivoglia iniziativa imprenditoriale. La ratio sottesa alla business judgement rule – principio cardine del diritto societario statunitense, diffusosi successivamente nei vari ordinamenti, trova il suo fondamento nella possibilità di esaminare l'operato e le decisioni dell'organo che amministra una società (board of directors) e nella presunzione che l'agire dei membri del board sia corretto e non criticabile fino alla prova di una violazione del c.d. “duty of care”. In prospettiva di bilanciamento di interessi, la business judgement rule aiuta a controbilanciare l'interesse dei soci ad una corretta amministrazione, con l'esigenza che gli amministratori possano gestire la società con una certa discrezionalità imprenditoriale, fintanto che tale discrezionalità non violi i c.d. fiduciary duties previsti dalla legge. La diligenza richiesta (come tale sindacabile) attiene al modo attraverso cui questi compiti vengono svolti e costituisce uno dei canoni di riferimento per tracciare la griglia di valutazione di eventuali profili di responsabilità dell'organo gestorio, da parte del giudice. In tema di responsabilità degli amministratori per atti di cattiva gestione, la c.d. business judgement rule non consente al giudice di sindacare il merito delle scelte gestorie anche quando caratterizzate da una rilevante alea economica, ma solo di valutare la diligenza adottata dall'amministratore nell'apprezzare i margini di rischio connessi all'operazione economica in questione, e quindi l'adeguatezza delle cautele adottate nonché delle informazioni richieste per un'operazione di quel tipo. Si veda, in tal senso, Cass. Civ., Sez. I, 4 luglio 2018, n. 17494

La predisposizione di un assetto organizzativo, dunque, non costituisce l'oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un dovere che non è predeterminato nel suo contenuto e che può acquisire concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell'impresa esercitata e del contesto in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. Ergo, quanto ai doveri codificati dall'art. 2086 c.c., se da un lato appare certo che la totale mancata adozione di assetti determinerebbe di per sé una responsabilità dell'organo gestorio, dall'altro diviene oggetto di sindacato giudiziale l'adeguatezza della struttura organizzativa predisposta dall'amministratore, entro le ampie maglie dei limiti-criteri della proporzionalità e della ragionevolezza.

Il caso

Il Tribunale di Roma, attraverso la Sezione specializzata in materia di impresa, con la sentenza del 24 settembre 2020 si è pronunciato sulla richiesta avanzata dal Collegio sindacale di un'impresa, ex art. 2409 c.c., di revoca dei componenti del consiglio di amministrazione e di conseguente nomina di un amministratore giudiziario. In breve, l'organo di controllo riscontrava le seguenti irregolarità compiute dagli amministratori:

(i) omesso accertamento della perdita di continuità aziendale, derivante dalla mancanza di entrate sufficienti a far fronte all'ingente indebitamento della società;

(ii) compimento di atti pregiudizievoli per il patrimonio sociale e rischio di ulteriore depauperamento, principalmente legati ad una operazione di conferimento in una società di capitali dell'unico ramo d'azienda profittevole e in grado di generare entrate.

Il consiglio di amministrazione, dopo un primo tentativo di quotazione sul mercato AIM, finalizzato al reperimento di nuovi capitali, si rendeva conto dell'impossibilità di procedere all'esecuzione dell'operazione straordinaria a causa del calo delle vendite e dell'inefficiente gestione del capitale circolante netto (working capital). Di conseguenza, l'amministratore delegato aveva iniziato a riprogrammare strategie e decisioni del piano industriale, concentrandosi essenzialmente su obiettivi di efficienza, attraverso l'abbattimento dei costi produttivi, e sulla riorganizzazione di un ramo d'azienda. Il predetto piano, pur formalmente definito, non trovava compiuta realizzazione e rimaneva lettera morta senza che all'abbandono delle attività programmate facesse seguito motivazione alcuna.

I Giudici, nel pronunciarsi sulla domanda ex art. 2409 c.c. avanzata dall'organo di controllo della società, si sono soffermati ampiamente sulla compatibilità dell'applicazione della business judgment rule alle scelte “organizzative” e il limite ad essa ricavato dal dovere di istituire adeguati assetti societari ex art. 2086 c.c., come novellato dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

Le questioni giuridiche

La sentenza in esame rappresenta una delle prime a trattare il tema dell'applicabilità della c.d. business judgment rule alle scelte attinenti alla struttura organizzativa della società, alla luce del novellato art. 2086 del Codice civile (il Tribunale di Roma, Sez. Spec., è intervenuta sul tema unicamente con la sentenza del 8 aprile 2020: per un commento, v. F. Piccione, L'applicabilità delle Business Judgment Rule alle scelte organizzative degli amministratori, in questo portale. Il Tribunale di Milano, Sez. Spec., si è espressa sul tema con la sentenza del 21 ottobre 2019; per un commento, v. I. Capelli, Assetti adeguati, controllo dei sindaci e denunzia al Tribunale ex art. 2409 c.c., in Le Società n. 8-9/2020, 988 e ss.; ASSONIME, I doveri di amministratori e sindaci nella gestione della crisi d'impresa: una prima pronuncia del Tribunale di Milano sull'art. 2086 del Codice civile, Circolare 2/2021).

Come noto, il D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (di seguito per brevità “CCII” o “Codice della crisi”) ha apportato una importante riforma, già in vigore a partire dal 16 marzo 2019, delle norme del diritto societario del Codice civile, volta ad assicurare l'adeguatezza dei modelli organizzativi delle imprese rispetto alla rilevazione tempestiva della crisi e alla salvaguardia della continuità aziendale. In particolare, all'interno del suddetto complesso di norme, l'art. 375 CCII rappresenta la direttrice della riforma della crisi di impresa in relazione agli assetti organizzativi e di governo societario, e su di essa vi si radicano tutti gli interventi in materia societaria. Quest'ultimo ha introdotto un secondo comma all'art. 2086 c.c., secondo il quale «l'imprenditore che operi in forma societaria o collettiva ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita di continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Con il Codice della crisi, mediante la poc'anzi citata integrazione al Codice civile, la nozione di adeguati assetti, peraltro già introdotta per le sole S.p.a. a seguito della riforma del diritto societario del 2003, in forza del combinato disposto di cui agli artt. 2381 e 2403 c.c., assurge ora a paradigma comune a tutte le imprese organizzate in qualsivoglia forma societaria, laddove soggette alla normativa fallimentare.

L'istituzione di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili costituisce un sicuro ed indubbio – anche alla luce del decreto correttivo e integrativo al CCII (D. Lgs. 147/2020) – dovere posto a carico degli amministratori della società. Assume, pertanto, particolare valore di attualità il tema della responsabilità dell'organo amministrativo nell'ipotesi in cui risulti inadempiente rispetto all'obbligo imposto dall'art. 2086, comma 2, c.c. Può ragionevolmente ritenersi che alla tradizionale responsabilità da prosecuzione dell'attività a dispetto del verificarsi di una delle cause di scioglimento ex art. 2484 c.c., alla violazione dei doveri di diligenza e di tutti gli altri obblighi specifici già espressamente previsti dalla normativa civilistica e dalle leggi speciali, si aggiunga, oggi, una responsabilità da mancata adozione di strumenti e processi atti a garantire un controllo costante ed adeguato degli assetti societari e, di conseguenza, a consentire il tempestivo accertamento di una situazione di difficoltà finanziaria.

Il procedimento per accertare la responsabilità si compone di due fasi fondamentali: la prima consiste nell'individuare un modello di condotta, in funzione della realtà esaminata, attraverso parametri astratti e sicuri; la seconda si attua con il confronto tra il comportamento concreto e il parametro astratto e si risolve, innanzitutto, in un giudizio di conformità o difformità. Nel caso della responsabilità da mancata istituzione degli adeguati assetti, la questione si complica e presuppone che si chiarisca quale sia il risultato attribuibile alle scelte degli amministratori. Mediante la predisposizione degli assetti societari si realizza l'architettura astratta delle scelte concrete di gestione che, una volta definite, contribuiscono a creare un presidio del “rischio d'impresa” con lo scopo di inibire l'assunzione di decisioni non performanti da parte degli organi di governance, proprio a causa di una sottostimata percezione del livello di rischio.

In giurisprudenza (Trib. Genova, 20/10/2017 in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Roma, 28/09/2015 ivi; Trib. Roma, 17/06/2013) e dottrina (R. RORDORF, La responsabilità degli amministratori di s.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, in Le Società n. 3/2009, 278 e ss.), si è, peraltro, già soliti distinguere tra obblighi aventi un contenuto specifico e precisamente determinato dalla legge o dall'atto costitutivo, ed obblighi generali di amministrare con diligenza e senza conflitto di interesse. Stante la variabilità dei contenuti e dell'estensione che l'adeguatezza degli assetti gestionali può assumere nei singoli casi concreti, si rende alquanto incerta e discussa anche la collocazione del dovere di istituire adeguati assetti tra i doveri generici ovvero tra quelli specifici posti a carico degli amministratori. Opinione diffusa è che tale dovere sia da collocare tra quelli di portata generale o che, volendolo catalogare quale dovere specifico, si potrebbe al massimo intendere quale dovere specifico a contenuto aperto (v. Calandra Buonaura, L'amministrazione delle società per azioni nel sistema tradizionale, in Trattato di dir. Commerciale, fond. Da Buonocore e dir. Da Costi, VI, Torino, 2019, 294 richiamato da F. Dimundo (a cura di), Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, Milano, 2019, 112).

Appare, dunque, evidente la stretta correlazione tra la responsabilità degli amministratori per l'adozione di adeguati assetti societari e l'applicabilità della business judgment rule. Quest'ultima, in estrema sintesi, rappresenta un principio in base al quale laddove la scelta d'impresa sia stata assunta non in conflitto di interessi, in buona fede e sulla base di un processo razionale, avvalendosi di tutte le informazioni disponibili, non vi è responsabilità dei gestori dell'impresa, pur in presenza di conseguenza pregiudizievoli in capo alla società. La BJR viene interpretata nell'ordinamento italiano nel seguente modo: «in tema di responsabilità dell'amministratore di una società di capitali per danni cagionati alla società amministrata, l'insindacabilità nel merito delle sue scelte di gestione trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c. (nel testo applicabile ratione temporis), sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere» (Cass. 22 giugno 2017, n. 15470). Sul tema dell'applicabilità della BJR alle scelte organizzative e, quindi, dell'istituzione di adeguati assetti societari, si sono sviluppati differenti orientamenti dottrinali.

Secondo un orientamento dottrinale che sposa la tesi dell'applicabilità di tale principio, le ragioni per le quali il merito delle scelte gestorie deve considerarsi insindacabile, salvo il caso dell'irragionevolezza, della violazione degli obblighi normativi o statutari, del conflitto di interessi, si trovano perfettamente identiche anche dietro alle scelte di istituzione ed eventuale modifica degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili (V. Di Cataldo, Dimensioni minime per il dovere di creare assetti e valutazione della diligenza nella loro creazione, in M. Irrea (a cura di), La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, Studi in onore di Oreste Cagnasso, Torino, 2020, 572-573. Per comprendere meglio l'orientamento dottrinale, l'autore riporta alcuni esempi, di seguito riassunti. Si ipotizzi che l'imprenditore crei un reparto contabile e vi inserisca un certo numero di persone; ex post, emerge che il numero di persone sia troppo basso poiché il reparto non è riuscito a gestire adeguatamente la contabilità, provocando veri e propri errori di gestione e causando un danno consistente alla società. Evidentemente, non vi sono dubbi circa la responsabilità dell'amministratore qualora abbia immesso nel reparto soltanto cinque persone quando a priori (ad esempio, facendo una valutazione sulla base del fatturato e della mole di documentazione contabile) qualunque amministratore ragionevole avrebbe pensato di inserire venti persone. La questione, invece, si pone qualora ex post si scoprisse che ne servissero sei, ovverosia appena uno in più rispetto alla scelta dell'amministratore. Dunque, l'autore si domanda «su che basi può aversi una qualche certezza a priori, nella scelta tra cinque o sei unita? E, di conseguenza, è ragionevole imputare a negligenza dell'amministratore l'aver costruito un assetto contabile con cinque unità anziché sei?». Allo stesso modo, si ipotizzi che il reparto contabilità commetta degli errori gravi ed ex post emerge che le persone non abbiano svolto la propria attività con l'efficienza del buon contabile. Dunque, l'autore si domanda, se l'amministratore ha a suo tempo selezionato persone laureate in economia aziendale e con esperienza, «e poi ci si accorge che in realtà la loro preparazione professionale non è adeguata, cosa potrebbe rimproverarsi all'imprenditore? Su quale base potrebbe dirsi che avrebbe dovuto scegliere persone diverse?»). Dando seguito a tale lettura, sarebbe possibile configurare una responsabilità degli amministratori solamente qualora, in ordine all'istituzione di adeguati assetti, essi non abbiano svolto un'adeguata istruttoria, ovvero abbiano compiuto scelte non coerenti con il risultato dell'istruttoria stessa. Inoltre, in tale eventualità, la violazione del dovere in questione non potrebbe di per sé configurare un evento dannoso, bensì limitarsi a configurare il presupposto dello stesso. Per ricollegare il danno alla violazione della disposizione di cui all'art. 2086, c.c., occorrerebbe dimostrare che esiste un concreto nesso di causalità diretta, ossia che il danno si sia verificato proprio perché l'assetto non era adeguato (ovvero che non si sarebbe verificato in presenza di un diverso assetto). Sul punto: C. IBBA, Codice della crisi e codice civile, in M. Irrea (a cura di), La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, Studi in onore di Oreste Cagnasso, Torino, 2020, 611. L'autore conclude segnalando che, sulla base dell'interpretazione fornita, il principio di adeguatezza degli assetti non dovrebbe avere risvolti particolarmente significativi sul piano della responsabilità; tuttavia, non esclude il rischio che in giurisprudenza si possa affermare un automatismo che induca a desumere dal verificarsi dell'insolvenza, l'inadeguatezza dell'assetto e da questa la conseguente responsabilità degli amministratori.

La violazione dei predetti doveri assumerebbe rilevanza , secondo tale orientamento, solo qualora il danno patrimoniale subito dalla società sia conseguenza diretta ed immediata di una inadeguatezza dell'assetto, colposamente e dolosamente ignorata dall'organo amministrativo (nello stesso senso, si legga Cass. SS. UU. n. 9100/2015).

Secondo, invece, una scuola di pensiero avversa all'applicabilità della BJR (E. Ginevra, C. Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Le nuove leggi civili commentate, 2019, 1237-1238), in nessun modo potrebbe accettarsi che gli amministratori godano di discrezionalità nella valutazione del grado di adeguatezza da adottare, poiché l'unica discrezionalità loro concessa in tale ambito è quella tecnica (così come previsto dal nostro ordinamento per i dirigenti impiegati in enti pubblici), derivante dalla individuazione diligente, ossia secondo perizia e ragionevolezza, dei rischi interni all'attività sociale e delle modalità con cui gestirli. In tale prospettiva, l'eventuale negligente predisposizione e cura degli assetti conduce a profilare la prospettabilità, nelle società di capitali (diversamente dalle società di persona, dove comunque ai creditori è sempre consentito, in caso di incapienza del patrimonio sociale, attivare la responsabilità sussidiaria dei soci), di un'azione anche da parte dei creditori sociali, ex art. 2394 c.c., purché in concreto ricorrano anche gli altri presupposti.

Infine, secondo altra autorevole dottrina (L. Benedetti, L'applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, Riv. Soc., 2019, 413), occorre distinguere tra mancata istituzione di assetti tout court e predisposizione di assetti inadeguati. Infatti, in caso di mancata predisposizione degli assetti, «la business judgment rule non può trovare applicazione, in quanto (…) essa è inconferente a fronte della violazione di una prescrizione normativa puntuale, che non lascia alcun margine di discrezionalità agli amministratori, quale è quella che impone di curare gli assetti». Ne consegue che, in caso di mancata istituzione degli adeguati assetti, non opera la BJR. In caso, invece, di predisposizione di assetti societari inadeguati, sussiste un margine di discrezionalità per gli amministratori e, di conseguenza, opera la BJR. Pertanto, in caso di predisposizione di assetti inadeguati, «l'organo (…) non potrà incorrere in responsabilità per aver scelto un assetto piuttosto che un altro, nonostante abbia compiuto valutazioni erronee, purché ricorrano i presupposti della business judgment rule». Quest'ultimo orientamento appare in linea con quanto statuito dal Tribunale di Roma nella sentenza in commento.

Osservazioni

Il Tribunale di Roma nel prendere posizione in merito all'applicabilità della business judgment rule alle scelte organizzative dell'impresa parte dall'assunto per cui queste ultime rientrino nel concetto di gestione societaria, mentre l'organizzazione è espressione di scelte di fondo propedeutiche alla gestione, funzionali all'adozione di decisioni in grado di orientare, influenzare e dirigere l'attività gestoria, anche in situazioni di crisi.

Dopo aver effettuato un breve excursus sul principio e sui limiti operativi della BJR, il Collegio ha affermato che «la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all'espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche». Ne discende che, «la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l'oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell'impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere». Dunque, «l'esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell'adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale».

I Giudici, dunque, sono giunti alla conclusione per cui il parametro dell'adeguatezza degli assetti societari rimane comunque connotato da un marcato canone di flessibilità e variabilità, fermo restando che «la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell'incarico».

Dopo aver statuito l'applicabilità della BJR alle scelte organizzative, i Giudici si soffermano sull'operatività di quest'ultima rispetto ai doveri codificati dal novellato art. 2086 c.c.. Fermo restando che l'intervento del legislatore del Codice della crisi è volto a evidenziare che i doveri dell'organo gestorio vengano in rilievo non tanto nel momento in cui la crisi è in atto, bensì quando la stessa non si è ancora esternalizzata, i Giudici si domandano se sia configurabile una responsabilità di tali organi quando ancora non sia stata attuata alcuna pianificazione, non vi sia stata alcuna attenzione agli indizi premonitori della crisi e non sia stato adottato un assetto organizzativo a tal fine. Allo stesso modo si interrogano sulla configurabilità di tale responsabilità nel caso in cui le scelte organizzative si siano rilevate inefficaci al fine della risoluzione della crisi e si sia comunque giunti al fallimento con danno al ceto creditorio. In altre parole, i Giudici si soffermano su due questioni. La prima verte sulla sindacabilità della scelta di una determinata struttura organizzativa piuttosto che un'altra, ai fini della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. La seconda questione, invece, riguarda se un eventuale deficit organizzativo possa configurare ex se una responsabilità dell'organo gestorio laddove siano state assunte determinate scelte relative alla pianificazione degli interventi per prevenire la degenerazione della crisi, che poi, nei fatti, si siano rilevate dannose o fallimentari.

Il Tribunale ritiene che sotto entrambi i profili (rilevazione della crisi e conseguenti interventi), le scelte dell'amministratore – sia gestionali che di tipo organizzativo – possano essere sindacate nei limiti della business judgment rule. Ne consegue che «mentre da un lato appare certo che la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa comporti di per sé una responsabilità dell'organo gestorio, dall'altra, si ritiene possibile assoggettare a sindacato giudiziale la struttura organizzativa predisposta dall'amministratore nei limiti e secondo i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza (e, precisamente, in questo ambito secondo i criteri della adeguatezza), ciò al fine di verificare se fosse idonea a far emergere gli indici della perdita della continuità aziendale e se la tipologia degli interventi scelta dall'organo gestorio sia ragionevole e non manifestamente irrazionale». Poiché la responsabilità dell'amministratore presuppone una condotta colposa o dolosa, tale verifica deve, da un lato, prescindere dai risultati concreti raggiunti e, dall'altro, deve essere effettuata sulla base di una valutazione condotta ex ante, tenendo conto delle informazioni conosciute o conoscibili dall'amministratore.

In conclusione, i Giudici hanno preso posizione sulla configurabilità della BJR entro l'ambito del dovere di istituire gli adeguati assetti, distinguendo tra le seguenti casistiche. Qualora l'amministratore ometta del tutto di approntare una qualsivoglia struttura organizzativa, rimanendo inerte di fronte ai segnali indicatori di una situazione di crisi, deve considerarsi responsabile. La responsabilità dell'amministratore è, dunque, indiscussa in caso di mancata istituzione tout court degli assetti societari. Non può, invece, ritenersi responsabile l'amministratore che abbia predisposto delle misure organizzative che, con una valutazione ex ante, potessero essere ritenute astrattamente adeguate, sulla base delle sue conoscenze e degli elementi a sua disposizione, a verificare tempestivamente la perdita della continuità aziendale. Parimenti, non può ritenersi responsabile l'amministratore che, pur avendo tempestivamente rilevato il venir meno della continuità aziendale (grazie alla struttura organizzativa istituita), abbia posto in essere degli interventi che successivamente si siano rilevati inutili ad evitare la degenerazione della crisi (ed eventualmente il fallimento), qualora tali interventi, sempre sulla base di una valutazione ex ante, non siano manifestamente irrazionali ed ingiustificati.

La denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. e i doveri di cui all'art. 2086 c.c.

Il collegio sindacale chiedeva al Tribunale di disporre, ai sensi dell'art. 2409 c.c., la revoca immediata dei componenti del consiglio di amministrazione e la conseguente nomina di un amministratore giudiziario. In particolare, l'organo di controllo della società aveva accertato gravi irregolarità nella gestione della stessa, in relazione all'equilibrio economico-finanziario e alla continuità dell'attività aziendale.

In primo luogo, il Collegio sindacale aveva accertato una prima situazione di irregolarità connessa all'omesso accertamento della perdita della continuità aziendale, per le seguenti ragioni:

(i) gli amministratori omettevano di considerare gli evidenti segnali relativi all'impossibilità di garantire la continuità aziendale (art. 2086, comma 2, c.c., prima parte), poiché le entrate derivanti dall'attività produttiva non erano sufficienti a coprire i costi della produzione e a far fronte all'ingente indebitamento;

(ii) a fronte della conclamata impossibilità di dare esecuzione al piano industriale, gli amministratori non adottavano alcuno strumento di risoluzione della crisi in corso (art. 2086, comma 2, c.c., seconda parte);

(iii) a seguito di plurime iniziative esecutive da parte dei creditori, gli amministratori decidevano di conferire in una società terza l'unico ramo d'azienda ancora profittevole, senza percepire alcun corrispettivo monetario;

(iv) l'assenza di una visione programmatica finalizzata alla soluzione della crisi e la conseguente violazione dell'art. 2086, comma 2, c.c. poiché gli amministratori non provvedevano all'adozione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per la composizione della crisi, bensì si limitavano ad una pregiudizievole attività di dismissione dei beni.

In secondo luogo, il collegio sindacale rilevava il compimento di atti pregiudizievoli per la corretta conservazione del patrimonio sociale e il conseguente rischio di ulteriore depauperamento, osservando che:

(i) l'amministratore delegato dava corso ad un'operazione di conferimento d'azienda in cambio di una partecipazione nel capitale sociale della conferitaria, senza quindi alcun corrispettivo in denaro;

(ii) a fronte delle richieste avanzate dall'organo di controllo, l'amministratore non forniva copia dell'atto di conferimento e nemmeno indicava i termini precisi dell'operazione;

(iii) dai verbali del Cda emergeva la imminenza di ulteriori attività di esternalizzazione, con il conseguente rischio di svuotare la società di qualsivoglia contenuto patrimoniale.

Il Tribunale ha ritenuto che, a fronte di una evidente situazione di crisi dovuta all'ingente indebitamento, il Consiglio di amministrazione non possa essere accusato di inerzia a fronte della serie di interventi dal medesimo messi in atto. Tra questi rilevano, in particolare, il tentativo di concludere la quotazione della società sul mercato AIM, l'emissione di una prima tranche di prestito obbligazionario c.d. bond e il perseguimento di una politica di abbattimento dei costi e di riorganizzazione di un ramo d'azienda.

Il Tribunale, tuttavia, rimettendo all'attività del nominando ispettore una più compiuta analisi della denunzia presentata dal collegio sindacale, ha ritenuto sussistere alcuni indicatori di irregolarità nella gestione societaria. In particolare, i Giudici hanno ritenuto sussistente una presunzione di irregolarità non tanto sotto il profilo della rilevazione della situazione di crisi, bensì in relazione agli specifici interventi adottati dal Consiglio di amministrazione. Infatti, da un lato, il Consiglio di amministrazione, al fine di far fronte all'ingente indebitamento, aveva approvato un piano industriale basato essenzialmente sulla quotazione in borsa e sull'ampliamento dell'emissione obbligazionaria; dall'altro lato, tuttavia, la governance medesima, abbandonato il piano suddetto, non fornisce motivazione in tal senso. In secondo luogo, i Giudici hanno rilevato un ulteriore sospetto di irregolarità con riferimento alla operazione di conferimento del ramo di azienda, per la quale è stata determinata, come corrispettivo, una partecipazione societaria anziché un pagamento in moneta. I Giudici ritengono, in tal senso, che non sia chiaro il motivo per il quale il consiglio di amministrazione, anziché utilizzare la cessione del ramo di azienda come strumento atto a ottenere la liquidità necessaria per far fronte quantomeno ad una parte dell'ingente debito sociale, abbia preferito conferire il suddetto asset in società di capitali terza, rinunciando così al corrispettivo in denaro in cambio di una partecipazione societaria.

Conclusioni

La sentenza del Tribunale di Roma ha preso posizione su un tema di estrema attualità e delicatezza, alla luce del novellato art. 2086 del Codice civile, ritenendo applicabile la business judgment rule come strumento di identificazione del perimetro di correttezza delle scelte organizzative, precisando altresì l'operatività di quest'ultima rispetto ai nuovi doveri codificati dalla predetta disposizione. Occorre ora attendere le prossime pronunce per capire se l'orientamento adottato dai Giudici della capitale diverrà prevalente o se, invece, la giurisprudenza si attesterà su posizioni differenti che limiteranno o escluderanno l'utilizzo della business judgment rule come strumento interpretativo dell'adeguatezza degli assetti richiesta dal riformato art. 2086 c.c.