Persona danneggiata dal reato, intervenuta prescrizione e interesse alla ragionevole durata del procedimento
09 Febbraio 2018
Massima
Sussiste, nei confronti della persona danneggiata dal reato, la violazione dell'art. 6, par. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nell'ipotesi che il procedimento penale scaturito dalla sua denuncia venga archiviato per intervenuta prescrizione. Il caso
La vicenda esaminata dalla Corte europea prende le mosse dalla denuncia, presentata nell'ottobre 1995, dalla proprietaria di un immobile, la signora Arnoldi, per la asserita falsità della dichiarazione sottoscritta dal titolare dell'appartamento confinante e da quattro testimoni, avente a oggetto la data risalente di realizzazione di un manufatto. Per effetto di tale dichiarazione, l'amministrazione comunale aveva escluso che potesse ordinarsi la demolizione dell'opera. Dopo i solleciti rivolti dalla denunciante, con lettere del maggio 1997, del maggio 1998 e del settembre 1999, si era svolto l'interrogatorio delle persone indagate, che si erano avvalse della facoltà di non rispondere. Il 22 gennaio 2003 il procedimento era stato archiviato per intervenuta prescrizione. Il 22 luglio 2003 la signora Arnoldi aveva adito la Corte d'appello di Venezia, ai sensi della legge Pinto, al fine di conseguire la riparazione dei danni materiali e morali sofferti per la durata eccessiva del procedimento penale. Con decisione depositata il 31 ottobre 2003 la Corte d'appello aveva dichiarato il ricorso irricevibile, in quanto, per il soggetto leso, il periodo da prendere in considerazione, al fine di determinare la durata del procedimento, decorre dalla data di costituzione formale come parte civile. Pertanto, la persona danneggiata dal reato che non si sia costituita parte civile non può lamentarsi della durata eccessiva del procedimento penale, ancorché sia stata proprio la durata delle indagini preliminari ad impedire tale iniziativa, consentita solo a partire dall'udienza preliminare. Del resto, ha osservato la Corte d'appello, alla stregua della consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, il danneggiato può sempre esercitare i suoi diritti, proponendo un'autonoma azione in sede civile. La questione
La Corte europea ha esaminato le questioni sollevate dalla ricorrete, dopo avere ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale interno. Essa ha ricordato: a) che, secondo la Corte costituzionale, la persona offesa nel procedimento penale, indipendentemente dalla costituzione di parte civile, anche nel nuovo codice, conserva la veste di soggetto eventuale del procedimento o del processo, e non di parte (Corte cost., 27 luglio 2011, n. 254; si vedano anche le considerazioni svolte da Corte cost., 27 febbraio 2015, n. 23); b) che, ai sensi dell'art. 79 c.p.p., la parte danneggiata può costituirsi parte civile a partire dall'udienza preliminare e che, prima di tale momento, può esercitare determinati poteri (art. 90 c.p.p.), in ordine ai quali le autorità interne sono tenute a fornire tempestiva informazione (art. 90-bis,c.p.p.); c) che, tra l'altro, la persona offesa ha diritto di essere informata, senza pregiudizio del segreto investigativo, decorsi sei mesi dalla data di presentazione della denuncia o della querela, in ordine allo stato del procedimento (art. 335, comma 3-ter,c.p.p.), di svolgere attività investigativa (art. 327-bis, c.p.p.), di essere assistita da un difensore (art. 101 c.p.p.); d) che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo penale, la persona offesa dal reato o il querelante, anche a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 212 del 2015, che ha rafforzato la posizione della vittima del reato, non possono considerarsi parti del suddetto procedimento prima della loro costituzione come parte civile, non avendo un autonomo diritto a che il reo sia sottoposto a pena e neppure, dunque, alla tempestività della decisione di assoluzione o di condanna dell'imputato in sé sola considerata, senza che ciò contrasti con gli artt. 3 e 24 Cost., ben potendo la persona offesa svincolarsi dall'esito di quel procedimento, promuovendo un'autonoma domanda risarcitoria in sede civile ovvero, quando possibile, costituirsi parte civile nel procedimento penale, senza alcuna compromissione del proprio diritto di difesa (v., ad es., Cass. civ., 21 dicembre 2016, n. 26625). Ciò posto, si è interrogata sul se il potere riconosciuto al danneggiato di adire autonomamente il giudice civile giustifichi l'orientamento ricordato da ultimo, in tema di applicabilità della c.d. legge Pinto, ossia se valga a mettere fuori gioco la possibilità di richiedere l'equa riparazione per il caso che la durata eccessiva del procedimento penale impedisca persino la costituzione di parte civile, quante volte, come nella specie, non si giunga neppure all'udienza preliminare. Le soluzioni giuridiche
La risposta della Corte europea, adottata all'unanimità, pur se corredata da una concurring opinion del giudice Koskelo, alla quale ha aderito il giudice Eicke, è stata nel senso di ritenere che l'eccessiva durata del procedimento penale abbia leso i diritti di carattere civile del danneggiato. In sintesi, i capisaldi argomentativi sono i seguenti: a) il diritto di far perseguire penalmente o di ottenere la condanna di una persona non assume rilievo in sé considerato ma in quanto l'esito del procedimento sia determinante per i diritti di carattere civile che vengono in rilievo; b) la questione dell'applicabilità dell'art. 6, § 1 della Convenzione non può dipendere dal riconoscimento dello status formale di parte, alla stregua del diritto interno, in quanto lo spirito della Convenzione impone di andare al di là delle apparenze e di cercare la sostanza della situazione controversa; c) in definitiva, diviene essenziale accertare se il richiedente intenda ottenere la protezione di un suo diritto civile o far valere il suo diritto al risarcimento nel quadro del procedimento penale e se l'esito delle indagini preliminari sia determinante per il diritto di carattere civile in causa; d) sotto il primo profilo, il conseguimento di una riparazione, ancorché simbolica, o di una forma di protezione identifica condizioni non cumulative, ma alternative, destinate ad evitare la tutela di forme di vendetta privata o il riconoscimento di un'actio popularis; e) sotto il secondo profilo, è necessaria una considerazione non astratta, ma alla luce delle peculiarità del sistema giuridico nazionale e del caso di specie; f) che, in quest'ultima prospettiva, la sfera di poteri riconosciuti al soggetto danneggiato nella fase delle indagini preliminari può assumere rilievo determinante, in particolare alla luce del possibile deteriorarsi delle prove con il passare del tempo e, comunque, in un contesto ordinamentale retto dal principio di legalità e obbligatorietà dell'azione penale. Alla stregua di tali considerazioni, la Corte europea ha ritenuto che, nell'ordinamento italiano, la posizione della persona offesa in attesa di costituirsi parte civile, proprio in ragione dei poteri che le sono riconosciuti, non differisce, nella sostanza, ai fini dell'applicabilità dell'art. 6 della Convenzione, da quella della parte civile. Osservazioni
Il nucleo fondante della decisione si coglie nella nozione autonoma di parte delineata dalla Corte europea, tenendo conto delle finalità protettive perseguite dall'art. 6, § 1 della Convenzione. In definitiva, non si tratta di individuare, secondo la prospettiva e gli obiettivi del Legislatore domestico, una nozione di parte come soggetto che abbia rivolto una richiesta al giudice ma, nella dimensione sovranazionale, di accertare se il soggetto sia o non legittimato a partecipare al procedimento, della cui ragionevole durata si tratta, in quanto destinatario di doveri di informazione strumentali e di poteri procedimentali, riconosciuti in vista della protezione di interessi di natura civile. In tale cornice di riferimento, la possibilità alternativa di rivolgersi al giudice civile appare completamente fuori campo, in quanto non è il potere di ottenere audizione da un giudice che viene in questione ma la lentezza della procedura alla quale la persona, per effetto di scelte dello stesso ordinamento interno, ha diritto di partecipare. Rispetto a tali esigenze, allora, non ha senso interrogarsi sulla avvenuta formulazione di una domanda alla quale il giudice abbia il dovere di rispondere, ma di ricostruire il quadro concettuale nel quale individuare il titolare dell'interesse giuridicamente protetto alla sollecita definizione del procedimento il cui esito è destinato a incidere in modo determinante sulla protezione delle sue ragioni. La sollecitazione della Corte ad andare oltre il dato letterale, per cogliere lo scopo protettivo della Convenzione, che rappresenta la stella polare nella individuazione del significato nelle nozioni adoperate o, se si preferisce, nell'accertamento della portata delle regole di tutela delineata dallo strumento internazionale, induce ad una ulteriore riflessione. Nella tradizione interna, la posizione della parte civile nel processo penale è, d'ordinario, vista in termini sostanzialmente recessivi, proprio in considerazione della finalità principale del processo penale. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale si leggono ripetuti cenni al fatto che «l'inserimento dell'azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall'esercizio dell'azione civile nel processo civile [...], e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi» (sentenza 19 luglio 1994, n. 353; 8 luglio 2009, n. 217). Da tale premessa discende la conseguenza che quando il danneggiato, «previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli”, scelga di esercitare l'azione civile nel processo penale, invece che nella sede civile, “non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono» (Corte cost. 3 aprile 1996, n. 94; Corte cost., 23 dicembre 1998, n. 424). La sentenza Arnoldi, tuttavia, ci pare possa indurre ad un ripensamento di tali conclusioni, tutte le volte che, in un giudizio di bilanciamento dagli esiti non scontati, la soluzione domestica, sia essa di fonte legislativa o giurisprudenziale, finisca per tradursi in un'irragionevole compressione del diritto della parte civile a vedere soddisfatte le proprie ragioni all'interno del processo penale (e fintanto che, s'intende, tale percorso processuale sia consentito dal legislatore). Un esempio recente di tali questioni ci sembra provenga dalle conseguenze della introduzione nel nostro ordinamento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Nella giurisprudenza di legittimità prevale decisamente la tesi che ritiene preclusa la possibilità di decidere sulla domanda proposta dalla parte civile, poiché si può far luogo alle statuizioni civili nel giudizio penale solo in presenza di una sentenza di condanna o nelle ipotesi previste dall'art. 578 c.p.p., tra le quali non rientra quella di cui all'art. 131-bis c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 6 dicembre 2016, n. 6347, La Mastra; v. anche Cass. pen., Sez. V, 28 giugno 2017, n. 38762, secondo la quale è inammissibile per mancanza di interesse il ricorso della parte civile, proposto, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, avverso la sentenza con cui si è dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto). Del tutto minoritario è l'orientamento secondo cui la sussistenza della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in sede di legittimità, lascia ferme le statuizioni civili disposte dal giudice di merito (Cass. pen., Sez. V, 7 ottobre 2015 – 3 dicembre 2015, n. 48020). Tuttavia, se pure non si dubita del carattere generale dell'art. 578 c.p.p., insuscettibile di applicazione analogica (v., di recente, Cass. pen., Sez. unite, 29 settembre 2016, n. 46688, Schirru), pure, nel contesto di economia dei mezzi processuali e di conservazione delle attività svolte – da non disperdere se tale esito non sia imposto da esigenze sistematiche – non può farsi a meno di rilevare che altro è il caso dell'abolitio criminis, destinata a paralizzare i poteri di accertamento del giudice penale, altro è il caso in cui opera una causa di non punibilità, che non preclude affatto l'esercizio di tali poteri, ma li presuppone così come presuppone la verifica di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito, con la conseguenza che davvero non s'intende quale sia la ragione per far pagare alla parte civile il prezzo della necessità di iniziare nuovamente l'azione penale e all'imputato stesso un costo maggiorato di spese per la controparte (se è vero, come ricorda la citata sentenza 46688 del 2016, che l'arresto dell'azione civile nel processo penale per una causa esogena come l'abrogazione del reato consente al danneggiato di richiedere le spese sostenute – oltre che quelle che andrà sostenere per riproporre l'azione – nella sede civile). In tale contesto, appare necessaria una rinnovata riflessione interna, anche a livello legislativo, o, in radice, sulla opportunità di conservare l'innesto dell'azione civile nel processo penale o, più conservativamente, sulla consapevolezza che, una volta riconosciuta tale possibilità, non è possibile sbrigativamente risolvere ogni questione alla luce del carattere recessivo della posizione del danneggiato, trascurando del tutto l'affidamento sulla ragionevole durata degli strumenti processuali che l'ordinamento, nella sua autonomia, mette a disposizione dei consociati. |