Omesso versamento Iva. Le soglie di punibilità non violano il diritto comunitario

Ciro Santoriello
11 Giugno 2018

La questione relativa alle soglie di punibilità e alla loro natura nell'ambito del diritto penale tributario è stata portata più volte anche all'attenzione della nostra giurisprudenza e in particolare della Corte di cassazione, con particolare frequenza ...
Massima

La direttiva Iva, in combinato con l'art. 4, par. 3, Tue, e l'art. 325, par. 1, T.F.Ue devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede che l'omesso versamento, entro i termini prescritti dalla legge, dell'Iva risultante dalla dichiarazione annuale per un determinato esercizio integri un reato punito con una pena privativa della libertà unicamente qualora l'importo Iva non versato superi una soglia di rilevanza penale pari a 250.000 euro, mentre è invece prevista una soglia di rilevanza penale pari a 150.000 euro per il reato di omesso versamento delle ritenute alla fonte relative all'imposta sui redditi

Il caso

La Corte di giustizia dell'Unione europea era stata chiamata a pronunciarsi, dal tribunale di Varese – che nell'ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di un amministratore unico di una società a responsabilità limitata per aver omesso di versare, entro i termini prescritti dalla legge, l'imposta sul valore aggiunto risultante dalla dichiarazione annuale di tale società per l'esercizio fiscale 2012 aveva sollevato un rinvio pregiudiziale - sulla compatibilità con il diritto dell'Unione delle modifiche apportate nel 2015 dal Legislatore nazionale agli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. 74/2000, che come è noto hanno innalzato le soglie di punibilità originariamente previste per tali reati e soprattutto oggi prevedono una soglia di rilevanza penale diversa per i due illeciti e soprattutto significativamente più alta per l'evasione dell'imposta sul valore aggiunto (in particolare, mentre è sufficiente il mancato versamento di € 150.000 con riferimento alle ritenute alla fonte relative all'imposta sui redditi, occorre, per procedere alla sanzione dell'omesso versamento dell'Iva, non versare € 250.000).

La differenza degli importi richiamati per le due soglie di punibilità, secondo il Tribunale di Varese, poneva dubbi di compatibilità della normativa italiana con gli obblighi derivanti dall'articolo 4, paragrafo 3, Tue e dall'articolo 325 T.F.Ue nonché dalla direttiva Iva (direttiva 2006/112/Ce del Consiglio, 28 novembre 2006), alla luce di una paventata maggiore tutela degli interessi finanziari nazionali rispetto a quelli dell'Unione europea.

Sotto un altro aspetto, il giudice di rinvio dubitava della compatibilità dell'art. 10-ter del d.lgs. 74/2000 con le disposizioni di cui alla c.d. convenzione Tif (convenzione elaborata in base all'articolo K.3 del Trattato sull'Unione europea relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, firmata a Bruxelles il 26 luglio 1995) che impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie per punire le frodi lesive degli interessi finanziari dell'Unione mediante l'utilizzo di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, che comprendano pene privative della libertà qualora l'importo non versato sia superiore a 50.000 euro.

Venivano così sottoposte all'attenzione della Corte di giustizia dell'Ue tre questioni pregiudiziali, aventi rispettivamente ad oggetto:

a) la compatibilità con il diritto europeo (cfr. artt. 4, paragrafo 3, Tue, 325 T.F.Ue e della direttiva Iva) della normativa italiana nella parte in cui prevede che la rilevanza penale dell'omesso versamento dell'Iva consegua al superamento di una soglia pecuniaria più elevata rispetto a quella stabilita in relazione all'omesso versamento dell'imposta diretta sui redditi;

b) la compatibilità con il diritto europeo (cfr. artt. 4, paragrafo 3, Tue, 325 T.F.Ue e della direttiva Iva) della normativa italiana nella parte in cui esclude la punibilità dell'imputato (sia esso amministratore, rappresentante legale, delegato a svolgere funzioni di rilevanza tributaria ovvero concorrente nell'illecito), qualora l'ente dotato di personalità giuridica ad esso riconducibile abbia provveduto al pagamento tardivo dell'imposta e delle sanzioni amministrative dovute a titolo di Iva, nonostante l'accertamento fiscale sia già intervenuto e si sia provveduto all'esercizio dell'azione penale, al rinvio a giudizio, all'accertamento della rituale instaurazione del contraddittorio in sede di processo e fin tanto che non si è proceduto alla dichiarazione di apertura del dibattimento, in un sistema che non commina a carico del predetto amministratore, rappresentante legale ovvero al loro delegato e concorrente nell'illecito alcuna altra sanzione, neppure a titolo amministrativo;

c) se la nozione di illecito fraudolento disciplinata all'articolo 1 della Convenzione Tif vada interpretata nel senso di ritenere incluso nel concetto anche l'ipotesi di omesso, parziale, tardivo versamento dell'imposta sul valore aggiunto e, conseguentemente, se l'articolo 2 della convenzione summenzionata imponga allo Stato membro di sanzionare con pene detentive l'omesso, parziale, tardivo versamento dell'Iva per importi superiori a 50.000,00 euro e di conseguenza se sia compatibile con il predetto articolo 1 una risposta sanzionatoria dello Stato membro che punisca l'omesso, parziale, ritardato versamento di Iva in relazione ad importi corrispondenti a 3 o 5 volte le soglie minime stabilite in caso di frode, pari a 50.000,00 euro».

La questione

La questione relativa alle soglie di punibilità e alla loro natura nell'ambito del diritto penale tributario è stata portata più volte anche all'attenzione della nostra giurisprudenza e in particolare della Corte di cassazione, con particolare frequenza proprio dopo la riforma del 2015 che, come detto, ha innalzato l'importo dell'imposta evasa al cui superamento è subordinata la punibilità della quasi totalità degli illeciti disciplinati dal d.lgs. 74 del 2000 – con la sola eccezione dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, di emissione di fatture mendaci e di distruzione o occultamento dei documenti contabili di cui agli artt. 2, 8 e 10 del predetto testo normativo.

In particolare, dopo l'entrata in vigore della riforma del 2015, ci si è domandato quale sorte dovesse essere riservata ai procedimenti penali pendenti – in sede dibattimentale o in fase di indagine – quando l'imposta evasa o meglio non pagata fosse di importo inferiore a quella oggi indicata dal Legislatore come penalmente rilevante. Evidentemente, la risposta al quesito suddetto passava per una definizione circa la natura delle soglie di punibilità e ciò in quanto se le stesse si qualificano come mere soglie di punibilità un problema di diritto transitorio non si pone neppure: i fatti pregressi continuano a essere sottoposti a punizione secondo la disciplina all'epoca vigente.

Con riferimento alla precedente normativa diverse pronunce avevano per l'appunto affermato che il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisca una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente (Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2001, Calcagni, in Mass. Uff., n. 250656; Cass. pen., Sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 6705, Libertone). In tale circostanza, infatti, deve ritenersi che – fissando una condizione di punibilità da individuare nell'importo dell'imposta evasa da superare – lo stesso Legislatore abbia configurato, in astratto, la condizione perché la condotta conforme alla fattispecie possa ritenersi anche offensiva degli interessi protetti; di conseguenza, è evidente che la modifica in aumento della predetta soglia non avrebbe alcun rilievo per i fatti passati, i quali hanno leso in allora interessi protetti perché le somme sottratte all'erario erano di un importo che in allora era ritenuta significativo dal Legislatore, mentre che lo stesso importo sia ritenuto oggi irrisorio nulla toglie alla valenza offensiva del bene giuridico protetto dei comportamenti tenuti in precedenza.

La tesi opposta a quella ora esposta sosteneva che le soglie di punibilità - nonostante tale qualificazione – sarebbero un elemento costitutivo del reato (Cass. pen., Sez. III, 22 gennaio 2014, Faotto, in Mass. Uff., n. 259806; Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2014, n. 36859, Bottaro, secondo cui il mancato raggiungimento della soglia impone l'assoluzione per non essere il fatto previsto come reato). Con l'adozione di questa tesi avrebbero effettivamente ragione di porsi le problematiche inerenti la sorte dei (procedimenti per i) reati commessi nella vigenza della precedente disciplina: infatti, se si stabilisce che con riferimento ai fatti ancora sotto processo debbano applicarsi le nuove soglie perché l'aumento delle stesse costituisce – come afferma la decisione in commento – una modifica in melius deve concludersi nel senso che ai sensi dell'art. 2 c.p. la nuova disciplina deve operare anche per il passato e quindi i procedimenti in corso – siano essi in fase di indagini oppure già approdati a giudizio, quale che sia la fase in cui versa lo stesso – andranno definiti con sentenza di assoluzione per la mancata punibilità della condotta.

Dopo la riforma del 2015 è stata tale ultima posizione che è stata accolta dalla Cassazione la quale in più occasioni ha affermato che le nuove soglie di punibilità richiamate dalle disposizioni presenti nel d.lgs. 74 del 2000 e innalzate con la riforma del 2015 devono trovare applicazione anche con riferimento ai fatti passati (Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2015, n. 891; Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2015, n. 48228; Cass. pen., Sez. III, 5 novembre 2015, n. 3099; Cass. pen., Sez. III, 18 novembre 2015, n. 6105). In particolare secondo la Cassazione le soglie in esame non possono essere inquadrate fra le condizioni di punibilità in quanto «quest'ultime consistono in eventi che rendono attuale l'offesa l'interesse protetto dalla norma violata o che costituiscono una progressione o un aggravamento di tale offesa, con la conseguenza che siffatti eventi, concorrendo a delineare disvalore penale del fatto, sono in realtà elementi costitutivi del reato, così che devono essere necessariamente coperti dal dolo o secondo dei casi da la colpa dell'agente». Peraltro, a detta della Suprema Corte, «l'integrazione della soglia quantitativa necessaria per il perfezionamento del reato non dipende da un evento futuro incerto ma dallo stesso comportamento dell'agente che, con la condotta volta a volta descritta dalle norme incriminatrici, sottrae all'erario l'imposta che, integrava la soglia, contribuisce alla realizzazione del fatto di tipico» mentre «l'attività di accertamento circa il superamento o meno della soglia quantitativa – che il Legislatore indica per l'integrazione di un fatto penalmente rilevante (cioè del fatto di reato) – costituisce un posterius rispetto la consumazione dell'illecito e svolge lo stesso ruolo che in altre fattispecie è spiegato dalle tecniche di accertamento processuale per provare che è stato realizzato un elemento del fatto tipico che costituisce il reato».

Le soluzioni giuridiche

La Corte di giustizia ha risposto negativamente ai quesiti sottoposti.

I giudici europei riconoscono come corretta l'affermazione secondo cui «le sanzioni che gli Stati membri [devono porre] in essere per lottare contro le violazioni delle norme armonizzate in materia di Iva [devono essere] analoghe a quelle applicabili alle violazioni del diritto nazionale simili per natura e importanza e lesive degli interessi finanziari nazionali, e dal principio di effettività, il quale impone che dette sanzioni siano effettive e dissuasive» ma al contempo negano il fondamento del ragionamento del giudice remittente il quale aveva censurato la scelta del Legislatore italiano di subordinare la condotta di frode Iva al raggiungimento di un'imposta evasa superiore ad €. 250.000.

Secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, un omesso versamento dell'Iva, come quello esaminato nel procedimento principale, caratterizzato cioè dal fatto che il soggetto passivo, dopo aver presentato, conformemente a quanto previsto dalla direttiva Iva, una dichiarazione Iva completa e corretta per l'esercizio fiscale di cui trattasi, non versa l'Iva risultante da tale dichiarazione all'Erario entro i termini prescritti dalla legge, non può costituire una frode, né ai sensi dell'art. 325 T.F.Ue, né ai sensi dell'art. 1, par. 1 della Convenzione Tif. Da ciò deriva che «né l'interpretazione adottata dalla Corte dell'art. 325, par. 1, T.F.Ue in merito ai casi di frode in materia di Iva, né la Convenzione Tif sono applicabili alla fattispecie dell'omesso versamento dell'Iva dichiarata» e «l'importo di 50.000 euro previsto dall'art. 2, par. 1, della Convenzione in parola è privo di rilevanza in un caso del genere» e ciò in quanto «siffatti omessi versamenti dell'Iva dichiarata non presentano lo stesso grado di gravità delle frodi aventi ad oggetto tale imposta», dal momento che «qualora un soggetto passivo abbia correttamente adempiuto i propri obblighi dichiarativi, tale amministrazione dispone già dei dati necessari per accertare l'importo Iva esigibile e un eventuale omesso versamento della stessa», di talché, «sebbene sanzioni penali possano essere indispensabili per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinati casi di frode grave in materia di Iva, siffatte sanzioni non sono, a parità di importo, indispensabili per lottare contro gli omessi versamenti dell'Iva dichiarata».

Alla luce di tale distinzione fra condotte di frode all'erario propriamente dette e mere omissioni di versamenti d'imposta – di cui facilmente l'Amministrazione finanziaria può avvedersi ed a cui può altrettanto agevolmente porre rimedio -, predisporre nei confronti della seconda tipologia di condotta (di cui la Corte di giustizia, contestando sul punto un'interpretazione restrittiva avanzata dai Governi tedesco e dei Paesi Bassi, riconosce comunque la portata illecita ed illegale) «sanzioni come quelle previste dall'articolo 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, tenuto conto del margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri in materia” è scelta del Legislatore nazionale che non può essere censurata trattandosi di “pene pecuniarie… [che in ragione] del loro elevato grado di rigore, appaiono idonee a indurre i soggetti passivi a rinunciare a qualsiasi velleità di ritardare od omettere il versamento dell'Iva».

La conclusione che se ne ricava è allora che «il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale, come quella in esame nel procedimento principale, che prevede che l'omesso versamento, entro i termini prescritti dalla legge, dell'Iva risultante dalla dichiarazione annuale per un determinato esercizio integri un reato punito con una pena privativa della libertà unicamente qualora l'importo Iva non versato superi una soglia di rilevanza penale pari a 250.000 euro».

Quanto alla determinazione di una diversa soglia di punibilità prevista dalla normativa italiana per l'omesso versamento delle ritenute alla fonte e dell'Iva, nonostante le due omissioni si caratterizzino “indistintamente per l'inosservanza dell'obbligo di versamento, entro i termini prescritti dalla legge, dell'imposta dichiarata” e sia ad essi sottesa la medesima finalità («garantire che l'Erario riscuota l'imposta in tempo utile e che sia quindi preservata l'integralità del gettito fiscale), le due ipotesi “si distinguono tanto per i loro elementi costitutivi quanto per le difficoltà a scoprirli» e perciò le due fattispecie non possono essere considerate simili per natura e importanza, con il corollario che «tali differenze comportano segnatamente che lo Stato interessato non è tenuto a prevedere un regime identico per entrambe queste categorie».

La conclusione della Corte di giustizia, che replica solo alla prima e terza questione (ritenendo superfluo soffermarsi sulla seconda) è nel senso che «la direttiva Iva, in combinato con l'art. 4, par. 3, Tue, e l'art. 325, par. 1, T.F.Ue devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede che l'omesso versamento, entro i termini prescritti dalla legge, dell'Iva risultante dalla dichiarazione annuale per un determinato esercizio integri un reato punito con una pena privativa della libertà unicamente qualora l'importo Iva non versato superi una soglia di rilevanza penale pari a 250.000 euro, mentre è invece prevista una soglia di rilevanza penale pari a 150.000 euro per il reato di omesso versamento delle ritenute alla fonte relative all'imposta sui redditi».

Osservazioni

La decisione della Corte di giustizia è apprezzabile in ragione degli argomenti utilizzati per respingere le perplessità manifestate dal giudice italiano ma al contempo non pare adeguatamente considerare le conseguenze che derivano dalla scelta del Legislatore nazionale di innalzare le soglie di punibilità previste per i reati tributari e soprattutto gli effetti della giurisprudenza della Cassazione che ritiene tale innalzamento operante non solo per il futuro ma anche in relazione ad episodi delittuosi precedenti alla riforma del 2015.

Con riferimento al primo profilo in effetti pare corretta la tesi dei giudici sovranazionali di escludere la sussistenza di una condotta fraudolenta laddove il contribuente si limiti a non versare le somme dovute, specie quando il calcolo delle stesse avviene sulla base di una corretta comunicazione dello stesso privato – come appunto accade in presenza di dichiarazioni Iva o sulle ritenute d'acconto operate. Come sostenuto nella sentenza Cedu, sentenza Frasson C-617-10 del 26 febbraio 2013, può parlarsi di illecito fraudolento in sede tributaria solo laddove al mancato versamento dell'imposta – condotta che esaurisce la violazione dell'art. 10-ter d.lgs. 74/2000 – si accompagnino elementi ulteriori, intesi a celare al Fisco l'effettiva consistenza del proprio patrimonio e quindi ad impedire il corretto calcolo dell'imposta effettiva: in effetti, sarebbe sorprendente qualificare come fraudolento il comportamento di chi – come sopra detto – esterni palesemente all'Erario quanto da lui dovuto, mediante la presentazione delle relative dichiarazioni.

Al contempo, però, come accennato, la Corte di giustizia non ha prestato – anche perché non espressamente sollecitata in tal senso dall'ordinanza di remissione – a una conseguenza della riforma del 2015 questa sì senz'altro in grado di incidere sull'effettività ed adeguatezza del regime sanzionatorio adottato dallo Stato italiano in relazione agli illeciti fiscali.

Come detto sopra, secondo la giurisprudenza ormai pacifica l'innalzamento delle soglie di punibilità operato con il d.lgs. 158 del 2015 ha determinato, per il principio della retroattività della legge penale più favorevole, l'irrilevanza penale delle condotte assunte nella vigenza della precedente disciplina quando le stesse non risultino superare le nuove soglie di punibilità, con conseguente revoca ai sensi dell'art. 673, comma 1, c.p.p. delle sentenze di condanna già passate in giudicato perché il fatto in allora previsto come reato non è più considerato tale dal Legislatore. Da questa conclusione – inevitabile, laddove si aderisca alla ricostruzione della Cassazione secondo cui il mancato superamento in passato delle soglie di punibilità oggi fissate rende la condotta in precedenza posta in essere non più penalmente rilevante – rischia però di derivare l'inutilità dei processi in tema di reati tributari che verranno a svolgersi negli anni futuri, i quali saranno destinati ad essere messi nel nulla da una nuova – inevitabile – riforma del diritto penale tributario, che innalzi le soglie di punibilità.

Infatti, il Legislatore, fissando una condizione di punibilità da individuare nell'importo dell'imposta da superare, configura, in astratto, la condizione perché la condotta conforme alla fattispecie possa ritenersi anche offensiva degli interessi protetti: in sostanza, l'evasione rappresenta un illecito, ma si è in presenza di un reato solo quanto il mancato pagamento dell'imposta superi una certa cifra giacché solo in questo caso deve ritenersi significativa l'offesa all'Erario. Ovviamente, la determinazione del quantum di evasione penalmente significativo dipende dalle circostanze storiche in cui la condotta è tenuta, per cui, esemplificando, un'evasione di 20.000 €. aveva una significativa rilevanza economica – e ciò ne giustificava la punizione nel 2000 e negli anni successivi – mentre invece ha una connotazione economicamente irrisoria oggi, e quindi il Legislatore ha fissato una nuova soglia di punibilità rendendo irrilevante i comportamenti in precedenza tenuti. Orbene, non vi è chi non veda come questa spirale di innalzamento delle soglie sia destinata a protrarsi nel futuro conformemente alla crescita dei prezzi e dei valori economici, circostanza storica che renderà nel futuro irrilevanti economicamente comportamenti oggi invece portatori di una significativa lesione degli interessi dell'erario.

Ma ciò significa, allora, che le condanne che vengono oggi pronunciate con riferimento, ad esempio, all'omesso versamento di acconti Iva o di ritenute fiscali o di omessa dichiarazione diverranno in futuro – fra uno, fra dieci, fra vent'anni (si ricorda che la recente riforma delle soglie di punibilità segue di 15 anni l'adozione dell'originaria disciplina) – penalmente irrilevanti e le condanne nel frattempo pronunciate, anche se passate in giudicato, verranno per l'appunto poste nel nulla. Peccato che la Corte non abbia detto cosa pensa di tale scenario futuro, visto che i giudici di Lussemburgo con la famosa sentenza Taricco già hanno ritenuto eccessivamente benevola la nostra disciplina in tema di prescrizione.

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