Le note sentenze del 25 luglio 2018, pronunciate dalla Corte di Giustizia Ue nelle cause C-220/18 PPU, C‑216/18 PPU e C‑268/17 PPU, hanno definito con maggior dettaglio la portata di alcune cause di rifiuto della consegna in ambito di mandato di arresto europeo
Abstract
Le note sentenze del 25 luglio 2018, pronunciate dalla Corte di Giustizia Ue nelle cause C-220/18 PPU, C‑216/18 PPU e C‑268/17 PPU, hanno definito con maggior dettaglio la portata di alcune cause di rifiuto della consegna in ambito di mandato di arresto europeo (di seguito anche Mae o euromandato). Attraverso un'analisi del contenuto di tali pronunce, si tenta di evidenziare gli spunti di novità che esse introducono e di enucleare l'esistenza di una ratio comune in ambito di motivi che possono determinare l'arresto di una procedura sulla quale l'Europa ripone estrema fiducia.
La funzione del rinvio pregiudiziale e la particolare rilevanza in subiecta materia
Come noto, il rinvio pregiudiziale è lo strumento attraverso il quale i giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, possono interpellare la Corte di Giustizia dell'Unione europea circa l'interpretazione da fornire al diritto dell'Unione o alla validità di un suo atto. La Corte, pronunciandosi, non risolve la controversia nazionale ma fornisce al giudice la corretta interpretazione da dare alle norme invocate, spettando al giudice nazionale decidere il caso concreto, interpretando la disposizione così come indicato dalla Corte.
L'esito del rinvio pregiudiziale assume, però, una particolare rilevanza in ragione della sua capacità di vincolare gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposta un'ipotesi simile; diviene, pertanto, fondamentale ricavare indicazioni interpretative e definire con esattezza la portata di esse al fine precipuo di fornire un'applicazione uniforme del diritto di matrice europea su tutto il territorio dell'Unione. E ciò, a maggior ragione, in riferimento a disposizioni del diritto dell'Unione che, di per sé, rappresentano eccezioni ad una regola generale, come accade, in ambito di mandato di arresto europeo, in relazione alle norme della decisione quadro che introducono ipotesi di rifiuto della consegna.
Si comprende, pertanto, la ragione della particolare attenzione riservata dalla comunità giuridica alle tre pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione del 25 luglio 2018 nelle cause C-220/18 PPU, C‑216/18 PPU e C‑268/17 PPU; esse, infatti, hanno fornito preziose indicazioni circa l'effettiva portata riconosciuta ad alcuni tra i più attuali motivi di rifiuto della consegna: il rischio concreto di un trattamento inumano o degradante del ricercato (C-220/18 PPU); il rischio di violazione del diritto fondamentale del ricercato ad un giudice indipendente e, quindi, a un equo processo (C‑216/18 PP); la ricorrenza di un'ipotesi di ne bis in idem(C‑268/17 PPU).
Si procederà, di seguito, ad un'analisi del contenuto di tali pronunce, tentando di evidenziare gli spunti di novità che esse introducono e di enucleare l'esistenza di una ratio comune in materia di cause che possono determinare l'arresto di una procedura sulla quale l'Europa ha contato tanto.
Il rifiuto della consegna in caso di rischio concreto di un trattamento inumano o degradante del ricercato
La prima delle sentenze in commento (C-220/18 PPU) affronta un tema di estrema attualità a livello europeo: quello relativo all'non eseguibilità del mandato di arresto in presenza di un rischio concreto di un trattamento inumano o degradante del ricercato presso le carceri del Paese di consegna. Il pericolo in questione rappresenta, come noto, un problema che da anni interessa la Corte europea dei diritti dell'Uomo; esso, peraltro, già da tempo ha iniziato ad investire la Corte di Giustizia, nella misura in cui il rischio di un trattamento inumano o degradante può essere invocato quale causa di rifiuto della consegna in seno a procedure di euromandato.
Nel caso specifico la Corte è stata chiamata a pronunciarsi dal giudice tedesco (il tribunale superiore del Land di Brema) in relazione ad un procedimento di consegna di un cittadino ungherese verso il proprio Paese di cittadinanza. Il ricercato, infatti, con giudizio contumaciale era stato condannato in Ungheria – per percosse, lesioni, danneggiamento, truffa semplice e furto con scasso – alla pena privativa della libertà di un anno e otto mesi e per l'esecuzione di tale condanna era stato emesso un mandato di arresto europeo. Dovendo dare esecuzione alla richiesta di consegna, però, il giudice tedesco si interrogava sulla possibilità di rifiutarla in ragione delle condizioni di detenzione ungheresi: ciò in quanto lo stesso tribunale riteneva di trovarsi di fronte ad una serie di elementi dimostrativi dell'esistenza di carenze sistemiche o generalizzate nelle condizioni di detenzione in Ungheria, tutte compendiate, secondo il giudice nazionale, nella sentenza pilota del 10 marzo 2015, pronunciata dalla seconda sezione della Corte europea dei diritti dell'Uomo (Corte Edu 10 marzo 2015, Varga e altri c/ Ungheria), che aveva accolto all'unanimità il ricorso sollevato da sei persone detenute nelle carceri ungheresi per violazione degli artt. 3 e 13 Cedu.
A parere del giudice remittente, in tale contesto, dunque, potendo venire in esistenza, nei confronti del ricercato, un rischio reale di un trattamento inumano e degradante (peraltro vietato dall'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), la consegna ben poteva essere rifiutata secondo le indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia nelle cause Aranyosi e Căldăraru del 5 aprile 2016 (C-404/15 e C-659/15 PPU, relative ad una richiesta di pronuncia pregiudiziale proveniente dal medesimo organo giurisdizionale tedesco). Nel caso di specie, però, per compiere tale valutazione il tribunale riteneva necessario raccogliere informazioni supplementari relativamente alle condizioni di detenzione che sarebbero state in concreto applicate al ricercato una volta trasferito in Ungheria, sicché, con la richiesta di rinvio pregiudiziale, aveva richiesto alla Corte di Giustizia ulteriori precisazioni in merito agli atti da compiere.
La Corte di Lussemburgo con la sentenza in commento coglie l'occasione per fornire preziose indicazioni e alcune precisazioni in relazione al contenuto del suo oramai noto precedente approdo ermeneutico (la citata sentenza Aranyosi e Căldăraru); per farlo, il Collegio chiarisce in premessa di non essere investito della valutazione di esistenza delle denunciate carenze nelle condizioni di detenzione, atteso che tale valutazione compete esclusivamente al giudice nazionale: l'esistenza di tali carenze, dunque, data per presupposta, deve essere comunque verificata dall'autorità giudiziaria che decide sull'esecuzione del mandato sulla base di dati aggiornati.
E tra questi, in prima battuta, il giudice del Lussemburgo dichiara irrilevante la circostanza che la legislazione del Paese di consegna preveda mezzi di ricorso finalizzati a verificare la legittimità delle condizioni di detenzione (ciò che accade in Ungheria dall'1 gennaio 2017, data di entrata in vigore della nuova possibilità di un ricorso giurisdizionale), atteso che sull'autorità giudiziaria di esecuzione incombe pur sempre l'obbligo di un esame individuale della situazione di ogni ricercato, al fine di accertare che la consegna non lo esponga ad un rischio reale di un trattamento inumano o degradante.
Alla luce di questa premessa, dunque, la Corte evidenzia come la valutazione demandata all'autorità giudiziaria d'esecuzione debba muoversi su un piano concreto e specifico, dovendo essa avere ad esame solo ed unicamente le condizioni di detenzione che saranno praticate negli istituti penitenziari in cui, sulla base delle informazioni fornite, il ricercato sarà detenuto, anche in via temporanea o transitoria. La valutazione, dunque, deve essere mirata e non può limitarsi all'esame delle condizioni generali di detenzione del sistema carcerario; si tratta di una precisazione estremamente importante, valida a restringere significativamente la portata della causa di non esecuzione: non ogni violazione diviene rilevante, ma soloquella che può concretamente interessare il consegnando.
Per fugare ogni dubbio, d'altronde, la Corte chiarisce che le condizioni di detenzione praticate negli altri istituti del Paese, nei quali il ricercato potrebbe eventualmente essere in seguito trasferito, rappresentano un aspetto che potrà essere preso in considerazione solo dagli organi giurisdizionali dello Stato membro emittente, pur sempre tenuti a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo in attuazione di obblighi costituzionali o convenzionali.
Così ridotto notevolmente l'ambito della valutazione assegnata all'autorità giudiziaria di esecuzione, la Corte delimita ulteriormente l'ambito delle condizioni di detenzione da prendere in esame: considerato che il diretto referente è rappresentato dall'esclusione del rischio di un trattamento inumano o degradante, la valutazione non potrà che prendere in considerazione solo le condizioni di detenzione, concrete e precise, che possano influire a rendere tale il trattamento.
La precisazione della Corte di giustizia, dunque, è quella di non tenere in considerazione, ad esempio, la pratica di un culto, la possibilità di fumare, le modalità di lavaggio dei vestiti nonché l'installazione di sbarre o di persiane alle finestre delle celle che, in linea di principio, costituiscono aspetti della detenzione privi di rilevanza evidente.
La Corte, peraltro, precisa che qualora per svolgere tale valutazione fossero necessarie delle informazioni urgenti complementari, la richiesta di esse non dovrà essere ridondante per numero e portata, finendo altrimenti per impedire il regolare funzionamento di una procedura di consegna concepita proprio per rendere più semplici ed accelerare le consegne dei ricercati nello spazio comune di libertà, di sicurezza e di giustizia. In questo contesto, dato che lo spazio comune è fondato sull'esistenza di una fiducia reciproca tra i Paesi membri dell'Unione e le loro autorità giudiziarie, la Corte precisa che, qualora l'autorità emittente il mandato, dopo aver declinato delle condizioni di detenzione che non integrino un trattamento inumano o degradante, renda garanzie circa il fatto che esso non muterà, l'autorità giudiziaria di esecuzione dovrà prestar fede a tali garanzie, quantomeno in assenza di elementi che possano far ritenere che le condizioni di detenzione praticate nell'istituto penitenziario dove avverrà la detenzione siano contrarie al predetto divieto. E qualora, poi, la garanzia predetta non promani da un'autorità giudiziaria, la sua affidabilità dovrà essere vagliata sulla base degli elementi di cui l'autorità giudiziaria di esecuzione è entrata in possesso.
In conclusione, con la sentenza in commento la Corte di Giustizia, ribadendo che solo l'autorità giudiziaria di esecuzione può valutare e verificare l'esattezza dei dati disponibili comprovanti l'esistenza di carenze sistemiche o generalizzate delle condizioni di detenzione all'interno degli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, ha affermato i seguenti principi:
l'autorità giudiziaria dell'esecuzione non può escludere l'esistenza di un rischio reale che la persona interessata da un mandato d'arresto europeo emesso ai fini dell'esecuzione di una pena privativa della libertà sia oggetto di un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell'art. 4 della Carta, per il solo motivo che tale persona disponga, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso che le permette di contestare le sue condizioni di detenzione, sebbene l'esistenza di un simile mezzo di ricorso possa essere presa in considerazione da parte della medesima autorità al fine di adottare una decisione sulla consegna della persona interessata;
l'autorità giudiziaria dell'esecuzione è tenuta unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali è probabile, secondo le informazioni a sua disposizione, che la suddetta persona sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria;
l'autorità giudiziaria dell'esecuzione deve verificare, a tal fine, solo le condizioni di detenzione concrete e precise della persona interessata che siano rilevanti al fine di stabilire se essa correrà un rischio reale di trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 4 della Carta;
l'autorità giudiziaria dell'esecuzione può prendere in considerazione talune informazioni fornite da autorità dello Stato membro emittente diverse dall'autorità giudiziaria emittente, quali, in particolare, la garanzia che la persona interessata non sarà sottoposta a un trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 4 della Carta.
Risulta, dunque, confermata come acquisita al sistema interno l'esistenza di un motivo ostativo all'esecuzione di un mandato di arresto europeo per «gravi indizi» di violazione dei diritti fondamentali dell'interessato e dei principi giuridici generali, per cui vengano in considerazione le condizioni di detenzione dei consegnando (nel panorama nazionale, per i primi recepimenti di tale principio, ad oggi unanimemente seguiti, cfr., ex pluribus, Cass. pen., Sez. VI, 21 settembre 2016, n. 40032; Cass. pen., Sez. feriale., 18 agosto 2016, n. 35255; Cass. pen., Sez. VI, 8 luglio 2016, n. 29721; Cass. pen., Sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277). Allo stesso modo, però, al principio di reciproca fiducia tra gli Stati membri – in ragione dell'appartenenza allo spazio comune europeo di libertà, sicurezza e giustizia – deve accompagnarsi necessariamente la presupposta considerazione che i sistemi giuridici di tali Stati siano capaci di fornire una protezione equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali riconosciuti a livello dell'Unione, con riferimento all'art. 2 Tue (Lisbona), già art. 6, par. 1, Tue, richiamato dalla decisione quadro all'art. 1, par. 3; all'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea; agli artt. 3 e 15, par. 2, Cedu.
Nel bilanciamento tra diversi interessi, dunque, la conseguenza, sotto il profilo nazionale, non può che essere quella già affermata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, «ove l'autorità giudiziaria dello Stato d'esecuzione disponga di elementi oggettivi, affidabili, accurati e debitamente aggiornati che attestino un rischio reale di trattamenti inumani o degradanti per le persone detenute in uno Stato membro, per carenze sistematiche o generalizzate, la stessa è tenuta a valutare l'esistenza di questo rischio quando deve decidere sulla consegna alle autorità di tale Stato della persona oggetto di un mandato d'arresto europeo» (Cass. pen., Sez. VI, 21 settembre 2016, n. 40032, che richiama precedenti pronunce); tale conclusione, però, oggi, merita la specificazione ulteriore – peraltro, sin dall'inizio, già implicitamente riconosciuta dalle nostre autorità giudiziarie – che la valutazione deve avere ad oggetto carenze che possano incidere concretamente sulla posizione del ricercato.
Ne consegue, dunque, che il supplemento istruttorio, ai sensi dell'art. 16 legge 69/2005, che l'autorità giudiziaria di esecuzione è tenuta a disporre per stabilire se il ricercato, qualora venisse consegnato, verrà sottoposto ad un trattamento inumano o degradante, dovrà restituire dati specifici con riferimento a strutture di detenzione nelle quali è previsto – o appare probabile – il transito del soggetto, e non indicazioni generiche.
Il rifiuto della consegna in caso di rischio di violazione del diritto fondamentale del ricercato ad un giudice indipendente e, quindi, ad un equo processo
Con la seconda sentenza in esame, emessa nella causa C‑216/18 PPU, la Corte di Giustizia dell'Unione si è pronunciata su un'ulteriore problematica, relativa all'interpretazione dell'art. 1, § 3, della decisione quadro 2002/584/Gai. Il giudice europeo è stato chiamato dall'Alta Corte d'Irlanda a pronunciarsi su un quesito che, a ben vedere, poggiava ancora una volta sull'esito di un'altra interpretazione fornita in sede di rinvio pregiudiziale: quella relativa al già citato caso Aranyosi e Căldăraru.
Di fronte al giudice irlandese, infatti, a fronte del mandato d'arresto europeo emesso dall'autorità giudiziaria polacca, il ricercato non aveva acconsentito alla sua consegna deducendo che, a causa delle riforme del sistema giudiziario polacco, il suo diritto ad un equo processo sarebbe stato a rischio. Stando a quanto eccepito dal ricercato, le modifiche al sistema giudiziario della Repubblica di Polonia avrebbero, per tale ragione, pregiudicato in maniera sostanziale le fondamenta della fiducia reciproca tra l'autorità emittente il mandato d'arresto europeo e l'autorità d'esecuzione di tale mandato, con la conseguente necessità di rigetto della richiesta. Nelle deduzioni del ricercato tali affermazioni trovavano fondamento nella proposta motivata della Commissione, del 20 dicembre 2017, presentata a norma dell'art. 7, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione europea sullo Stato di diritto in Polonia [COM(2017) 835 final], ove la Commissione, rifacendosi a precedenti constatazioni proprie e di altre istituzioni e organismi polacchi, aveva illustrato, in maniera dettagliata, il contesto e la genesi delle ultime riforme legislative, evidenziando due particolari motivi di preoccupazione: l'assenza di un controllo di costituzionalità indipendente e legittimo e i rischi di violazione dell'indipendenza dei giudici ordinari. Il fatto, poi, che la Commissione avesse invitato il Consiglio a constatare l'esistenza di un rischio evidente di violazione grave, da parte della Repubblica di Polonia, dei valori di cui all'art. 2 Tue, nonché a rivolgere a tale Stato membro le raccomandazioni necessarie a tal riguardo, avrebbe connotato di grande concretezza il rischio paventato.
Alla luce di quanto sopra e dopo aver individuato ben quattro modifiche normative quali principali fonti del predetto rischio, l'Alta Corte irlandese aveva, dunque, chiesto alla Corte di Giustizia:
se l'autorità giudiziaria dell'esecuzione debba procedere, sulla scorta di quanto indicato nella sentenza Aranyosi e Căldăraru, ad accertare l'esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale del ricercato ad un equo processo dovuto alle carenze del sistema giudiziario polacco,
se l'accertamento della Corte debba spingersi fino alla verifica dell'effettiva esposizione della persona interessata a tale rischio, ovvero se sia sufficiente il mero accertamento dell'esistenza di carenze del sistema giudiziario polacco, senza la specifica valutazione di un'effettiva esposizione del ricercato;
quali siano le informazioni e le garanzie che l'autorità giudiziaria di esecuzione debba ricevere da quella di emissione al fine di escludere tale rischio.
(Segue). La risposta ai primi due quesiti
La Corte di Giustizia risponde ai quesiti interpretativi proposti trattando congiuntamente i primi due; ed in merito ribadisce l'importanza del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, fondato sull'elevato livello di fiducia tra i Paesi dell'Unione, che deve condurli «a presumere il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri» (una sorta di presunzione iuris tantum).
Per la Corte, infatti, risulta preclusa ai singoli Paesi dell'Unione la possibilità non solo di esigere da un altro Stato membro un livello di tutela nazionale dei diritti fondamentali più elevato di quello garantito dal diritto dell'Unione, ma anche, salvo in casi eccezionali, quella di verificare se tale altro Stato membro abbia effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall'Unione.
Proprio con riferimento alla procedura di consegna di cui alla decisione quadro 2002/584/Gai, la Corte di Giustizia ricorda che «mentre l'esecuzione del mandato d'arresto europeo costituisce il principio, il rifiuto di esecuzione è concepito come un'eccezione che deve essere oggetto di interpretazione restrittiva» (citando, sul punto la sentenza della stessa Corte del 10 agosto 2017, Tupikas, C‑270/17 PPU, EU:C:2017:628, §§ 49 e 50, e la giurisprudenza ivi citata). In ogni caso, il Giudice di Lussemburgo ribadisce che limitazioni ai principi di riconoscimento e di fiducia reciproci tra Paesi membri possono essere comunque apportate «in circostanze eccezionali», proprio come sancito nella più volte citata sentenza Aranyosi e Căldăraru, invocata dal giudice del rinvio, che ha ammesso, a determinate condizioni, la facoltà (per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione) di porre fine alla procedura di consegna qualora quest'ultima rischi di comportare un trattamento inumano o degradante del ricercato.
Da qui il passo è semplice: secondo la Corte, così come è necessario verificare l'esistenza di un rischio reale di violazione dell'art. 4 della Carta dei diritti dell'Unione europea (secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti»), allo stesso modo occorre verificare se sussista un rischio reale di violazione del diritto fondamentale dell'interessato a un giudice indipendente e, quindi, del suo diritto fondamentale a un equo processo, sancito dall'art. 47, secondo comma, della stessa Carta. E, alla ricorrenza del rischio, correttamente l'autorità giudiziaria dell'esecuzione dovrà astenersi, a titolo eccezionale, dal dare seguito al mandato d'arresto europeo, in applicazione dell'art. 1, § 3, della decisione quadro 2002/584.
Il ragionamento della Corte di Giustizia è chiaro: evidenziata, in motivazione, l'importanza dell'indipendenza della figura del giudice quale contenuto essenziale del diritto fondamentale ad un equo processo, il supremo giudice dell'Unione, infatti, ne afferma la centralità anche nella logica del principio del reciproco riconoscimento.
La premessa posta a base di questo principio, d'altronde, è quella che, nel Paese di consegna, al ricercato sarà riconosciuta una tutela giurisdizionale effettiva; qualora essa, però, venga posta in dubbio dalla carenza di indipendenza e imparzialità dei giudici che saranno chiamati a decidere sull'esercizio dell'azione penale o sul procedimento di esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, l'autorità giudiziaria d'esecuzione sarà ovviamente autorizzata ad astenersi, a titolo eccezionale, dal dare seguito a tale mandato d'arresto europeo.
L'autorità giudiziaria di esecuzione non deve limitarsi ad accertare l'esistenza di un rischio reale di violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo, a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti il potere giudiziario di tale Stato membro; effettuato tale accertamento, infatti, deve spingersi fino a «valutare, in modo concreto e preciso, se, nelle circostanze del caso di specie, esistano motivi seri e comprovati per ritenere che, in seguito alla sua consegna allo Stato membro emittente, il ricercato corra tale rischio», operando in analogia a quanto indicato nella già citata sentenza Aranyosi e Căldăraru.
Sul punto, peraltro, la Corte di giustizia chiarisce che una tale penetrante valutazione è necessaria in tutti i casi in cui l'attuazione del meccanismo del mandato d'arresto europeo non sia stata sospesa per grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei principi sanciti all'art. 2 Tue.
La Corte, infatti, ricorda che, ai sensi del considerandum 10 della decisione quadro 2002/584/Gai, tale sospensione – con conseguente rifiuto automatico delle richieste – può verificarsi, nel caso della predetta violazione, solo a seguito di una constatazione di essa da parte del Consiglio in applicazione dell'art. 7, paragrafo 2, Tue, con le conseguenze previste al paragrafo 3 dello stesso articolo. In assenza di una tale decisione del Consiglio e pur in presenza, come nel caso di specie, di una proposta motivata della Commissione, adottata ai sensi dell'art. 7, paragrafo 1, Tue, diretta ad ottenere che il Consiglio constati l'esistenza del citato rischio, risulta, dunque, impossibile una sistematica non esecuzione delle richieste di consegna. In questa evenienza, dunque, l'autorità giudiziaria dell'esecuzione può astenersi, sulla base dell'art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584, dal dare seguito ad un mandato d'arresto europeo soltanto in circostanze eccezionali in cui essa accerti, a seguito di una valutazione concretae precisa del caso sottopostole, che vi sono motivi seri e comprovati per ritenere che la persona oggetto di tale mandato d'arresto europeo corra, a seguito della sua consegna all'autorità giudiziaria emittente, un rischio reale di violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, pertanto, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale ad un equo processo.
Con riferimento, poi, al caso specifico, la Corte ricorda come l'autorità giudiziaria di esecuzione sia chiamata ad esaminare in quale misura le carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l'indipendenza dei giudici dello Stato membro emittente, attestate dagli elementi a sua disposizione, «siano idonee ad avere un impatto a livello dei giudici di tale Stato membro competenti a conoscere dei procedimenti cui sarà sottoposto il ricercato»; dopo un'analisi che muove dal generale al particolare, dunque, se l'autorità giudiziaria chiamata a disporre la consegna avrà verificato l'effettiva incidenza della carenza sistemica sul giudice interessato, dovrà ancora valutare, alla luce delle specifiche preoccupazioni manifestate dal ricercato e delle informazioni dallo stesso eventualmente fornite, se esistano motivi seri e comprovati per ritenere che questi corra un rischio reale di violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente e, pertanto, del contenuto essenziale del suo diritto fondamentale ad un equo processo, avendo conto della sua situazione personale nonché della natura del reato per cui è perseguito e delle circostanze di fatto poste alla base del mandato d'arresto europeo.
In conclusione, dunque, la Corte ha affermato, in risposta ai primi due quesiti proposti, che l'art. 1, § 3, della decisione quadro 2002/584/Gai deve essere interpretato nel senso che, qualora l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, chiamata a decidere sulla consegna di una persona oggetto di un Mar emesso ai fini dell'esercizio di un'azione penale, disponga di elementi qualificati – come possono essere ritenuti quelli contenuti in una proposta motivata della Commissione europea, adottata a norma dell'art. 7, paragrafo 1, TUE – idonei a dimostrare l'esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo garantito dall'art. 47, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, «a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l'indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente», essa deve verificare in modo concreto e preciso se – alla luce della situazione personale di tale persona, nonché della natura del reato per cui è perseguita e delle circostanze di fatto poste alla base del mandato d'arresto europeo, e in ragione delle informazioni fornite dallo Stato membro emittente, ai sensi dell'art. 15, § 2, della decisione quadro 2002/584 – ricorrano motivi seri e comprovati di ritenere che, in caso di consegna, detta persona corra un siffatto rischio.
(Segue). La risposta al terzo quesito
In riferimento, poi, al terzo quesito, relativo alle informazioni e alle garanzie che l'autorità giudiziaria di esecuzione deve ricevere da quella di emissione per consentire di ritenere escluso il rischio paventato, la Corte di Giustizia ricorda che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione deve richiedere all'autorità giudiziaria emittente, ai sensi dell'art. 15, paragrafo 2, della decisione quadro 2002/584/Gai, «ogni informazione complementare che reputi necessaria per la valutazione dell'esistenza di un siffatto rischio»; nel caso di specie, dunque, potrà essere fornito qualsiasi elemento oggettivo, in merito alle eventuali modifiche riguardanti le condizioni di tutela nello Stato membro emittente della garanzia di indipendenza giudiziaria, che sia idoneo ad escludere l'esistenza di tale rischio per la persona interessata. Solo nel caso in cui le informazioni predette non inducano l'autorità di esecuzione ad escludere l'esistenza di un rischio reale della violazione paventata, tale autorità deve astenersi dal dare seguito al mandato d'arresto europeo di cui è oggetto il ricercato.
Il rifiuto della consegna in caso di bis in idem
Di rilievo sempre nell'ottica delle cause ostative alla consegna è la decisione della Corte nella causa C‑268/17 PPU, anch'essa depositata il 25 luglio 2018. In tale pronuncia il giudice di Lussemburgo ha risposto a cinque quesiti interpretativi che avevano formato oggetto del rinvio pregiudiziale e che possono essere ricondotti a due diverse problematiche:
l'obbligo di una pronuncia sulla richiesta di consegna anche nel caso in cui una precedente richiesta, avente ad oggetto lo stesso ricercato e gli stessi fatti, sia stata rigettata;
la portata effettiva da riconoscersi a due cause di rifiuto della consegna – previste dagli artt. 3, § 2, e 4, § 3, della decisione quadro – che, in linea generale, possono essere ricondotte al principio del ne bis in idem.
A tali quesiti la Corte ha fornito le seguenti risposte, delle quali si darà conto secondo il medesimo ordine seguito dal giudice europeo, dettato peraltro da ragioni di logicità.
(Segue). La risposta al primo quesito
La Corte ha risposto, innanzitutto, al quinto (e ultimo) quesito, con il quale tribunale di comitato di Zagabria chiedeva «se l'art. 1, paragrafo 2, della decisione quadro 2002/584 debba essere interpretato nel senso che lo Stato di esecuzione è tenuto ad adottare una decisione in merito ad ogni Mae che gli venga trasmesso, e ciò anche qualora esso abbia già statuito su un precedente Mae emesso dall'altra autorità giudiziaria contro la stessa persona ricercata nell'ambito dello stesso procedimento penale e qualora il nuovo Mae venga emesso aseguito di un mutamento di circostanze nello Stato di emissione del Mae (decisione di rinvio a giudizio – avvio del procedimento penale, criterio più rigoroso in materia di indizi della commissione del reato, nuova autorità giudiziaria/nuovo giudice competente)».
Nel caso specifico, infatti, l'autorità giudiziaria ungherese riteneva di non poter né dover adottare alcun provvedimento sulla seconda richiesta di consegna avanzata dall'Ungheria, considerato che, in passato, si era già pronunciata negativamente su identica richiesta: ciò per l'essere stato già chiuso, da parte delle autorità giudiziarie croate, un procedimento per i medesimi fatti, con possibilità conseguente di opporre l'esistenza di una causa ostativa alla consegna non superata né superabile.
La Corte, rispondendo al quesito, ha affermato che la disposizione invocata deve essere interpretata nel senso che l'autorità giudiziaria dello Stato membro dell'esecuzione è tenuta ad adottare sempre una decisione in riferimento ad una richiesta di consegna, anche nel caso in cui essa o altra autorità giudiziaria del Paese abbiano già statuito su un precedente Mae riguardante la stessa persona e vertente sui medesimi fatti e quando, in tal caso, il secondo Mae sia stato emesso soltanto in ragione del rinvio a giudizio, nello Stato membro emittente, della persona ricercata.
Estremamente convincenti le ragioni addotte a sostegno di tale conclusione, tutte motivate sul dato testuale della decisione quadro 2002/584/Gai: fermi i vincoli, di stretta interpretazione, rappresentati dalle cause di rifiuto della consegna o dalle condizioni alla quale questa può essere subordinata, le varie disposizioni della decisione quadro impongono pur sempre una decisione sulla consegna. Infatti: l'art. 15, § 1, della decisione quadro prevede che «l'autorità giudiziaria dell'esecuzione decide la consegna della persona nei termini e alle condizioni stabilite dalla presente decisione quadro»; l'art. 17, § 1 e 6, della decisione quadro dispone che «un mandato di arresto europeo deve essere trattato ed eseguito con la massima urgenza» e che «qualsiasi rifiuto di eseguire un mandato d'arresto europeo deve essere motivato»; l'art. 22 della decisione quadro enuncia che «l'autorità giudiziaria dell'esecuzione notifica immediatamente all'autorità giudiziaria emittente la decisione riguardante il seguito dato al mandato d'arresto europeo».
Tutto ciò, ovviamente, impedisce di poter ritenere che lo Stato di esecuzione risulti libero di non pronunciarsi, anche solo per rigettare – motivando – la richiesta ricevuta.
(Segue). La risposta ai primi quattro quesiti
La Corte ha poi analizzato congiuntamente – e nell'ordine – le altre (prime) quattro questioni, con le quali, in sostanza, le veniva richiesto se l'art. 3, § 2, e l'art. 4, § 3, della decisione quadro debbano essere interpretati nel senso che una decisione del pubblico ministero, come quella adottata dall'ufficio centrale delle indagini preliminari ungherese nel procedimento principale, che aveva posto fine a indagini preliminari avviate contro ignoti, nel corso delle quali la persona oggetto del mandato di arresto europeo era stata sentita soltanto in veste di testimone, possa essere invocata per rifiutare l'esecuzione della consegna in base all'una o all'altra delle disposizioni citate. Nel caso specifico, infatti, l'Ungheria (Stato di esecuzione) aveva giustificato, al di fuori della procedura di consegna, il suo rifiuto di adottare una decisione in relazione al secondo mandato emesso dalla Croazia sul presupposto di aver già aperto e chiuso in fase di indagine un procedimento penale per il medesimo fatto. Più precisamente, in un parere fornito al membro croato di Eurojust (intervenuto su richiesta del giudice croato che aveva emesso il Mae), l'autorità giudiziaria ungherese aveva affermato di non ritenersi obbligata a dare seguito al secondo Mae, essendosi già pronunciata sul primo emesso durante la fase istruttoria del procedimento penale aperto in Croazia, né di essere vincolata dai termini per l'esame previsti nella decisione quadro 2002/584/Gai.
Più precisamente, la prima decisione di rigetto era stata motivata sulla base della ricorrenza dell'art. 4, § 3 (secondo il quale l'autorità giudiziaria dell'esecuzione può rifiutare di eseguire il Mae «se le autorità giudiziarie dello Stato membro dell'esecuzione hanno deciso di non esercitare l'azione penale per il reato oggetto del Mae oppure di porvi fine, o se la persona ricercata ha formato oggetto in uno Stato membro di una sentenza definitiva per gli stessi fatti che osta all'esercizio di ulteriori azioni»), e dell'art. 3, § 2, della decisione quadro (secondo cui la consegna deve essere sempre rifiutata «se in base ad informazioni in possesso dell'autorità giudiziaria dell'esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro della condanna»).
La Corte di giustizia, nel fornire risposta all'articolato quesito proposto, esclude in primo luogo che, in un caso come quello di specie, possa invocarsi la causa facoltativa di cui all'art. 3, § 2, della decisione quadro, osservando come dalla descrizione dei fatti non emerga la pronuncia di una decisione definitiva a carico del ricercato per il medesimo fatto, né a maggior ragione l'imposizione di alcuna sanzione.
Come ricorda la Corte, la causa ostativa in esame mira ad evitare che una persona sia nuovamente perseguita o giudicata penalmente per gli stessi fatti (cfr. C.G.Ue 16 novembre 2010, Mantello, C‑261/09, punto 40) e rispecchia il principio del ne bis in idem, sancito all'art. 50 della Carta dei diritti dell'Unione europea. Nonostante il riferimento testuale alla «sentenza», per il giudice europeo la disposizione è comunque applicabile a qualsiasi decisione, emessa da un'autorità incaricata di amministrare la giustizia penale nell'ordinamento giuridico nazionale interessato, che chiuda definitivamente il procedimento penale in uno Stato membro, benché tale decisione sia adottata senza l'intervento di un giudice e non assuma, appunto, la forma di una sentenza (cfr. CGUE 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). Ciò con la conseguenza che la causa ostativa risulta applicabile nel caso in cui, in esito a un procedimento penale, l'azione penale si sia definitivamente estinta o, ancora, quando le autorità giudiziarie di uno Stato membro abbiano emanato una decisione di definitivo proscioglimento dell'imputato per i fatti contestatigli (C.G.Ue 16 novembre 2010, Mantello, C‑261/09, punto 45 e giurisprudenza ivi citata). In ogni caso è pur sempre naturale che la decisione («sentenza») definitiva sia preceduta da un'azione penale esercitata nei confronti della persona ricercata (v., in tal senso, C.G.Ue 16 novembre 2010, Mantello, C‑261/09, punti 46 e 47; C.G.Ue 5 giugno 2014, M., C‑398/12, punti 31 e 32, nonché C.G.Ue 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14, punti 34 e 35): il principio del ne bis in idem, infatti, si applica soltanto alle persone giudicate con decisione definitiva in uno Stato membro (cfr. C.G.Ue 28 settembre 2006, Gasparini e a., C‑467/04, punto 37) e non si estende alle persone che sono state esclusivamente sentite nell'ambito di indagini preliminari perché informate sui fatti, come accaduto nel caso di specie.
Molto articolata anche l'argomentazione della Corte in relazione all'applicabilità della causa ostativa di cui all'art. 4, § 3, della decisione quadro. La Corte, infatti, esclude che, nel caso di specie, il ricercato abbia formato oggetto di una sentenza definitiva per gli stessi fatti che osti all'esercizio di ulteriori azioni (classica riproposizione del principio del ne bis in idem) e afferma come la decisione assunta dall'ufficio centrale delle indagini preliminari ungherese non rappresenti neppure una rinuncia all'esercizio dell'azione penale: ciò con l'effetto di ritenere non applicabile, in parte qua, la causa di rifiuto della consegna.
Più analitica, invece, la motivazione con la quale la Corte esclude l'applicabilità, nel caso di specie, del motivo di rifiuto in esame nella parte in cui esso si riferisce all'intervenuta decisione di non esercitare l'azione penale per il reato oggetto del Mae oppure di porvi fine.
La Corte, infatti, analizza il dato testuale alla luce della ratio della previsione e contesta l'interpretazione secondo cui il fatto di non aver avviato un'azione penale per il reato oggetto del Mae o di avervi posto fine faccia riferimento solo al fatto di reato, prescindendo dalla circostanza che ciò sia avvenuto o meno nei confronti della persona ricercata nella sua qualità di indagato/imputato nell'ambito dell'azione penale medesima. È vero, infatti, che l'art. 4, § 3, prima parte, della decisione quadro 2002/584 si riferisce esclusivamente al «reato oggetto del mandato di arresto europeo» e non alla persona ricercata; i motivi di non esecuzione, però, rappresentando un'eccezione, devono essere oggetto di interpretazione restrittiva (cfr. CGUE 23 gennaio 2018, Piotrowski, C‑367/16, punto 48 e giurisprudenza ivi citata).
D'altronde, come ricordato dal giudice europeo, un'interpretazione che consideri solo l'identità del fatto di reato e non quella del soggetto sarebbe «manifestamente troppo ampia» e rappresenterebbe un vulnus per la corretta esecuzione del procedimento di consegna. E ciò a maggior ragione se si considera che il mandato, sempre emesso nei confronti di un soggetto e non solo per un fatto di reato, non ha lo scopo di tutelare una persona dall'eventualità di doversi sottoporre a ulteriori accertamenti, per gli stessi fatti, in più Stati membri, rappresentando, piuttosto, una misura che, in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ha la funzione di prevenzione della criminalità e di lotta contro la stessa (cfr. C.G.Ue 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14, punti 45 e 46).
In particolare, poi, come ricorda la Corte, l'art. 4, § 3, della decisione quadro riproduce il contenuto dell'art. 9 Conv. europea di estradizione, secondo cui l'estradizione «potrà essere rifiutata se le autorità competenti della Parte richiesta hanno deciso di non aprire un perseguimento penale o di chiuderne uno già avviato per gli stessi fatti»; con riferimento a tale previsione, però, la relazione esplicativa della Convenzione (pag. 9) chiarisce che essa fa riferimento all'ipotesi di un individuo che «è stato oggetto» di una decisione che osta o pone fine all'esercizio dell'azione penale. D'altronde – aggiungiamo noi – la prima parte dell'art. 9 dispone il rifiuto dell'estradizione nei casi in cui «l'individuo reclamato [sia] stato definitivamente giudicato dalle autorità competenti della Parte richiesta per i fatti che motivano la domanda»: il riferimento soggettivo, pertanto, è sicuramente imprescindibile.
Il principio di diritto di natura generale, ricavabile dalla sentenza della Corte, è dunque quello secondo cui una decisione che ponga fine ad indagini preliminari avviate contro ignoti, nel corso delle quali la persona ricercata con il Mae sia stata sentita soltanto in veste di testimone, senza che nei suoi confronti sia stata esercitata l'azione penale e senza che, pertanto, la predetta decisione sia stata adottata nei suoi confronti, non può essere invocata per rifiutare l'esecuzione del mandato in base all'art. 3, § 2, o all'art. 4, § 3, della decisione quadro 2002/584/Gai.
In conclusione
Dall'analisi delle tre sentenze emerge un dato fondamentale: le cause ostative alla consegna sono considerate, a livello sovranazionale, come delle deroghe riservate a ipotesi limite. È per tale ragione, d'altronde, che la Corte di giustizia invita in ogni occasione ad una lettura tassativa delle disposizioni della decisione quadro che le introducono; un atteggiamento molto differente da quello seguito dal nostro legislatore, che anzi, nel recepire i motivi di rifiuto, ha disconosciuto la suddivisione tra motivi obbligatori e motivi facoltativi, optando, invece, per configurare entrambe le categorie come cause di rifiuto obbligatorio.
Un dato, però, emerge sempre più spesso dalle sentenze della Corte di Giustizia, allorquando essa è chiamata a fornire la corretta interpretazione dellecause capaci di arrestare la procedura di consegna: i Paesi membri nutrono sempre più dubbi circa il rispetto dei diritti dei ricercati fuori dai confini nazionali. È vero che talvolta la causa ostativa costringe il Paese a respingere la consegna nei confronti di altri Stati nei quali il livello di tutela dei singoli diritti è talvolta identico al proprio: si pensi a quanto accade al nostro Paese proprio in tema di condizioni di detenzione, per le quali in più occasioni l'Italia è stata condannata dalla Cedu.
Esclusi, comunque, casi limite, ciò sembra far emergere la diversità di garanzie riconosciute da molti ordinamenti: una circostanza che, ancora una volta, induce a ribadire l'importanza di un ravvicinamento delle legislazioni e di un potenziamento della tutela giudiziaria dei dirittidei singoli per facilitare effettivamente la cooperazione fra i Paesi dell'Unione.
Guida all'approfondimento
Sul tema delle cause ostative alla consegna:
M. Bargis, Il mandato d'arresto europeo dalla decisione quadro alle prospettive di attuazione, in Pol. dir., 2004;
M. Bargis, Mandato di arresto europeo e diritti fondamentali: recenti itinerari "virtuosi" della corte di giustizia tra compromessi e nodi irrisolti, in www.penalecontemporaneo.it, 2017
D. Battista – G. Frigo, Cautele particolari se il soggetto è minore, in Guida al dir., 2005, n. 19;
E. Calvanese, Sub art. 18 legge 22 aprile 2005, n. 69, in Cooperazione giudiziaria europea in materia penale, a cura di A. Marandola, Giuffrè, 2018;
Camere Penali, La sentenza della CGUE Aranyosi e Caldararu apre nuovi orizzonti nella valutazione del MAE che comporti il rischio di trattamento inumano e degradante, in www.camerepenali.it, 2018
F. Cancellaro, La Corte di giustizia si pronuncia sul rapporto tra mandato d'arresto europeo e condizioni di detenzione nello stato emittente, in www.penalecontemporaneo.it, 2016;
M. Castellaneta, Mandato d'arresto europeo: il rischio reale e verificato di trattamenti inumani blocca la consegna, Guida al dir., 2018, n. 34;
A. Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010;
G. Iuzzolino, La decisione sull'esecuzione del mandato d'arresto europeo, in Mandato d'arresto europeo, dall'estradizione alle procedure di consegna, a cura di M. Bargis e E. Selvaggi, Torino, 2005;
M. R. Marchetti, Sub art. 18 legge 22 aprile 2005, n. 69, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda – G. Spangher, Wolter Kluwer, 2017;
C. Pansini, Il rifiuto della consegna motivato da esigenze “processuali”, in Aa.Vv., Il mandato d'arresto europeo, a cura di G. Pansini e A. Scalfati, Jovene, 2005;
G. Repetto, Ancora su mandato d'arresto e diritti fondamentali di fronte alla Corte di Giustizia: il caso Aranyosi, in www.diritticomparati.it, 2016.
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Sommario
Il rifiuto della consegna in caso di rischio di violazione del diritto fondamentale del ricercato ad un giudice indipendente e, quindi, ad un equo processo