Libertà di espressione e tutela della magistratura nella giurisprudenza della Corte Edu

Donatella Perna
19 Marzo 2018

La questione proposta è quella, se si vuole antica e mai completamente risolta, del diritto alla libertà di espressione del pensiero in tutte le sue manifestazioni, compreso il diritto di critica della magistratura e del suo operato, e dei limiti che possono essere posti al suo esercizio.
Massima

L'azione della magistratura, quale garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, ha bisogno della fiducia dei cittadini per prosperare. Può rendersi dunque necessario proteggerla dagli attacchi gravemente pregiudizievoli destituiti di serio fondamento, soprattutto quando il dovere di riservatezza impedisce ai magistrati di reagire. Al di fuori di tale ipotesi, i magistrati possono essere oggetto di critiche personali in limiti ammissibili e non solo in via generale e astratta; tali limiti, quando essi agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali, sono più ampi di quelli relativi ai semplici cittadini.

Il caso
Il ricorrente, uomo politico francese già deputato e indagato per frode elettorale nel 2006, si ripresentava alle elezioni legislative del giugno 2007 e nel corso della campagna elettorale, in una pubblica riunione, intrattenendosi sul tema della giustizia, affermava di non avere alcun rispetto per il pubblico ministero L. e per il giudice istruttore D. che si erano occupati del suo caso, in quanto si erano trasformati in commissari politici, avevano oltrepassato i loro diritti, e avevano infangato la magistratura. Aggiungeva che gli stessi avevano preferito attaccare gli eletti della destra piuttosto che i criminali e che ne avrebbe chiesto il trasferimento, poiché non si poteva più avere alcuna fiducia in essi. Affermava ancora che i due avevano recentemente rimesso in libertà due rapinatori e che non era più tollerabile vedere poliziotti rischiare la vita per arrestare i delinquenti, e giudici rossi opporsi alla volontà del popolo e al lavoro della polizia.Tali dichiarazioni erano state diffuse per radio e riprese dai giornali, suscitando la reazione di uno dei due magistrati nominati, in particolare il giudice istruttore D., che aveva denunciato il ricorrente per oltraggio.Nel corso del procedimento che ne seguiva, questi veniva ascoltato e dichiarava di non avere mai manifestato alcuna opinione politica e, anzi, di essere stato più volte il bersaglio di tentativi di destabilizzazione da parte dell'uomo politico, il quale, dopo l'inizio dell'indagine a suo carico, aveva diffuso circa 20.000 volantini in cui criticava il suo operato di giudice istruttore. Nel corso del procedimento si accertava altresì che nessuno dei due magistrati nominati aveva preso parte alla decisione di rimettere in libertà i due rapinatori, essendo entrambi assenti il giorno in cui era stata adottata la decisione stessa.Mentre il procedimento per frode elettorale si concludeva con un non luogo a procedere, quello per oltraggio a magistrato proseguiva, con la condanna definitiva del ricorrente alla pena di euro 1000 di ammenda, oltre al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.Da ultimo, la Corte di cassazione interna affermava che se ciascuno ha diritto alla libertà di espressione e se il pubblico ha un interesse legittimo ad essere informato sui processi penali e sul funzionamento della giustizia, l'esercizio di queste libertà comporta dei doveri e delle responsabilità; esso, in particolare, può essere sottoposto a restrizioni o sanzioni previste dalla legge che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla protezione della dignità del magistrato e al rispetto dovuto alla funzione di cui egli è investito.Divenuta irrevocabile la sentenza, l'uomo politico ricorreva alla Corte Edu, lamentando la violazione dell'art. 10 della Convenzione, che tutela il diritto alla libertà di espressione, diritto comprendente la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni ed idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Egli osservava che le sue dichiarazioni non avevano di mira la vita privata o la reputazione del magistrato, né costituivano un attacco personale gratuito al giudice, essendo sua intenzione solo quella di comunicare ai presenti al meeting elettorale la propria opinione sul funzionamento della giustizia francese, utilizzando come pretesto, da un lato, la procedura giudiziaria che lo aveva riguardato; dall'altro, un fatto di attualità. D'altronde, al momento delle dichiarazioni, egli era candidato alle elezioni nazionali e il procedimento per frode elettorale a suo tempo aperto contro di lui si era concluso a suo favore.
La questione

La questione proposta è quella, se si vuole antica e mai completamente risolta, del diritto alla libertà di espressione del pensiero in tutte le sue manifestazioni, compreso il diritto di critica della magistratura e del suo operato, e dei limiti che possono essere posti al suo esercizio.

Nella Convenzione Edu la materia è disciplinata nell'art. 10, il quale così dispone:

  1. Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.
  2. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all'integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario.
Le soluzioni giuridiche

I giudici europei esordiscono affermando che la condanna penale del ricorrente per oltraggio a magistrato rappresenta un'ingerenza nell'esercizio del suo diritto alla libertà di espressione, sebbene si tratti di ingerenza prevista dalla legge (art. 434-24 del codice penale francese), avente il legittimo scopo di proteggere la reputazione o i diritti di terzi, nella specie quelli del giudice D., nonché lo scopo di garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario di cui il predetto faceva parte.

Ciò premesso, osserva la Corte, resta da stabilire se tale ingerenza costituisse misura “necessaria” in una società democratica, ai sensi dell'art. 10 § 2, della convenzione.

Vanno in proposito considerate le circostanze concrete del fatto: la qualità del ricorrente e quella della persona destinataria delle dichiarazioni incriminate, il contesto in cui le dichiarazioni sono state pronunciate, la loro natura e la loro base fattuale, ed infine va considerata la natura della sanzione inflitta al ricorrente.

Quest'ultimo, allorché pronunciò le frasi incriminate, era deputato e candidato alle nuove elezioni politiche: dunque era sicuramente una personalità politica che si esprimeva nella sua qualità di eletto e nel quadro del suo impegno politico militante, il che – avvertono i Giudici europei – impone la massima cautela, poiché, se la libertà di espressione è preziosa per ognuno, lo è particolarmente per un eletto dal popolo che rappresenta i suoi elettori, segnala le loro preoccupazioni e difende i loro interessi.

Dall'altro lato, la persona destinataria delle dichiarazioni incriminate è un magistrato che aveva messo sotto inchiesta il ricorrente per frode elettorale, qualche mese prima della pubblica riunione in cui questi si era espresso: e la Corte ricorda la missione particolare del potere giudiziario nella società. Come garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, la sua azione ha bisogno della fiducia dei cittadini per prosperare, sicché può essere necessario proteggerla dagli attacchi gravemente pregiudizievoli e privi di concreto fondamento, soprattutto quando il dovere di riservatezza impedisce al magistrato di reagire. Ma al di fuori di tali attacchi, i magistrati ben possono essere oggetto di critica personale in limiti ammissibili, e non solo in via generale ed astratta; tali limiti, quando essi agiscono nelle loro funzioni ufficiali, sono più ampi di quelli relativi ai privati cittadini.

Quanto al contesto delle dichiarazioni, esse sono state rese durante una riunione politica in pieno periodo elettorale e davanti a duecento persone, e non erano dunque direttamente indirizzate al giudice D.; inoltre, esse avevano una certa relazione con il tema della sicurezza poiché il ricorrente denunciava, evocando un caso concreto, l'atteggiamento permissivo dei magistrati di fronte a persone sospettate di reato. Inoltre, esse avevano attinenza con la vicenda giudiziaria in cui il ricorrente era rimasto coinvolto e che era stata ampiamente ripresa dalla stampa.

Osserva la Corte che le informazioni sul funzionamento della giustizia, in linea di principio, rivestono sempre interesse generale e ancor di più in un dibattito politico, essendo importante in periodo elettorale che le opinioni e le informazioni circolino liberamente, poichè la libertà d'espressione è una delle condizioni che assicurano la libera espressione dell'opinione di un popolo sulla scelta dell'organo legislativo.

Ciò detto, secondo i giudici le dichiarazioni incriminate, più che una critica, esprimevano un attacco personale al magistrato, e miravano a colpire la sua dignità e il rispetto della funzione, e non anche il modo in cui egli aveva assolto alle sue funzioni di giudice istruttore nella vicenda delle frodi elettorali: termini come “non rispetto il giudice D.”, “trasformato in commissario politico”, “che ha oltrepassato i suoi diritti”, “infangato la magistratura”, e nel quale “non si può avere fiducia”, lo dimostrano.

Allo stesso modo, le dichiarazioni sulla liberazione dei rapinatori da parte di “giudici rossi”, “che preferiscono attaccare gli eletti della destra piuttosto che i delinquenti”, attentano alla reputazione del giudice e lo fanno apparire come sottomesso a ragioni di ordine politico ed ideologico, e oltrepassano il semplice dibattito o la critica sul funzionamento dell'istituzione giudiziaria.

Da ultimo, anche se le dichiarazioni sono state rese durante un meeting politico in cui l'invettiva spesso può debordare sul piano personale, esse non avevano una base fattuale sufficiente.

Ed è questo un profilo sul quale la Corte pone l'accento: l'informazione di fatto, ovvero la liberazione dei rapinatori, che accompagnava l'accusa di permissivismo rivolta al giudice, era errata poiché non era stato lui a prendere la decisione criticata.

Dunque queste ulteriori dichiarazioni, che possono essere considerate giudizi di valore piuttosto che affermazioni su fatti, considerato il tono generale ed il contesto in cui sono state rese, si basano sulla sola circostanza della messa sotto inchiesta del ricorrente da parte del giudice D., e riposano su un'animosità diretta contro il magistrato, slegata dalle intenzioni dichiarate dal ricorrente di volersi esprimere sul funzionamento della giustizia.

L'affermazione secondo cui il giudice ha infangato la magistratura, implica che questi non abbia rispettato la legge e non sia stato imparziale, in violazione dei doveri che caratterizzano l'esercizio dell'attività giudiziaria: a tal proposito, rileva la Corte, il ricorrente non ha precisato quali siano i concreti comportamenti imputati al magistrato, e non ha indicato alla pubblica opinione elementi suscettibili di dimostrare che questi abbia assunto decisioni contrarie ai suoi obblighi deontologici.

In tale contesto, dunque, i giudici nazionali ben potevano ritenere che le dichiarazioni del ricorrente costituissero un attacco personale gratuito e che fossero ingannevoli, non avendone egli dato alcun riscontro concreto; esse attentavano altresì all'indipendenza e all'autorità del potere giudiziario, poiché pronunciandole il ricorrente ha attribuito al magistrato un comportamento da “commissario politico” opposto alla sua azione politica; inoltre, chiedendone il trasferimento, egli ha mostrato disprezzo dell'indipendenza dell'ordine giudiziario; da ultimo, le dichiarazioni incriminate attentavano alla fiducia dei cittadini nell'integrità del potere giudiziario.

Ecco perché, conclude la Corte, malgrado il controllo rigoroso che essa deve esercitare in questo campo, non è possibile ravvisare nelle dichiarazioni del ricorrente quella dose di esagerazione o di provocazione di cui è consentito l'uso nel quadro della libertà di espressione politica.

Infine, quanto alla sanzione, la Corte osserva che la condanna penale è una delle forme di ingerenza più gravi nel diritto alla libertà di espressione, essendovi altri mezzi di intervento e dissuasione, ed in particolare quelli del diritto civile; e tuttavia, nella specie, la sanzione irrogata di 1000 euro di ammenda non è eccessiva e tale da incidere sulla libertà di espressione; inoltre, essa non ha avuto alcuna ripercussione sulla carriera politica del ricorrente, rieletto deputato sia nel 2007 che nel 2012.

Conclusivamente, la condanna del ricorrente per oltraggio e la sanzione inflittagli, non erano sproporzionate rispetto agli scopi legittimi cui erano dirette.

L'ingerenza nel diritto del ricorrente alla libertà di espressione era dunque necessaria in una società democratica, al fine di proteggere la reputazione altrui, e per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario.

Osservazioni

La motivazione della sentenza resa dalla quinta Sezione della Corte Edu, e sopra riassunta, è un vero e proprio esercizio di equilibrismo tra l'esigenza di tutela del diritto alla libertà di espressione, come essenziale diritto di civiltà e valore fondante di ogni Stato democratico, e l'esigenza, parimenti avvertita, di individuare i limiti oltre i quali il suo esercizio rischia di ledere valori altrettanto importanti, come il diritto alla reputazione, in particolare la reputazione del magistrato attaccato a causa delle proprie funzioni, nonché l'indipendenza e l'imparzialità della magistratura.

La norma di diritto interno portata all'attenzione della Corte è l'art. 434-24 del codice penale francese, il quale punisce l'oltraggio – attraverso parole, gesti o minacce, scritti o immagini di qualsiasi natura o l'invio di oggetti – indirizzato a magistrato, giurato o componente di un organo giurisdizionale nell'esercizio delle sue funzioni, o in occasione di tale esercizio, finalizzato ad attentare alla sua dignità o al rispetto dovuto alla funzione di cui è investito. Se l'oltraggio ha luogo nei confronti di una corte, di un tribunale o di una formazione giurisdizionale in udienza, la pena è aumentata.

Nel nostro codice penale non vi è una norma perfettamente omologa, ma sono diverse le disposizioni in argomento: aldilà di quella più generale sul reato di diffamazione (art. 595), l'art. 342 punisce chiunque offende l'onore o il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, al suo cospetto, o mediante comunicazione a distanza (c.d. oltraggio corporativo); l'art. 595, comma 4, prevede quale circostanza aggravante del reato di diffamazione, l'ipotesi in cui l'offesa sia recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, ad una sua rappresentanza, o a una Autorità costituita in collegio. L'art. 343 prevede a sua volta un'ipotesi speciale di oltraggio, che è quella dell'offesa all'onore o al prestigio del magistrato in udienza, ove si richiede che l'offesa sia arrecata al magistrato nel corso della seduta destinata allo svolgimento dell'attività giudiziaria (l'art. 343-bis, infine, estende le disposizioni di cui agli artt. 342 e 343 alla Corte penale internazionale, quale istituzione e nella persona dei suoi magistrati e del suo personale).

Si tratta di previsioni normative spesso criticate in dottrina, in quanto ritenute anacronistiche e comunque confliggenti con il diritto di critica e di difesa, che è il tema di fondo della sentenza della Corte edu qui in commento.

A tal proposito, deve dirsi che la giurisprudenza italiana è perfettamente in linea con quella europea: si afferma infatti in via generale che il diritto di critica, come espressione del diritto individuale di manifestare il proprio pensiero, garantito dall'art. 21 Cost., investe le istituzioni nel loro complesso e quindi anche l'istituzione giustizia; in particolare, la critica a un provvedimento del giudice esula dalla fattispecie astratta dell'oltraggio, in quanto il rispetto, di cui tutti i pubblici funzionari devono essere circondati, non equivale a insindacabilità. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario che le espressioni, attraverso le quali si esercita il diritto di critica, siano immediatamente percepibili come un giudizio che investe la legittimità o l'opportunità del provvedimento in sé considerato, e non la persona del magistrato (Cass. pen. Sez. VI, n. 20085/2011). Si precisa poi che nel caso dell'attività giudiziaria, i modi e i limiti devono essere ricercati in primo luogo nella legge regolatrice del processo, che ne costituisce lo strumento funzionale, e nei mezzi messi a disposizione dal codice di procedura penale, in particolare l'impugnazione della sentenza (Cass. pen., Sez. VI, n. 223/2006).

Tornando alla decisione in commento, va sottolineato che essa è stata adottata dai sette componenti del collegio giudicante all'unanimità, e quindi – caso piuttosto raro per la Corte Edu – senza opinioni dissenzienti: segno, questo, di un comune sentire e di valori condivisi in una materia delicata e controversa come quella dei rapporti tra libertà di espressione, intesa anche come diritto di critica dell'operato della magistratura, e rispetto dovuto alle funzioni giudiziarie.

D'altro canto, si tratta di giurisprudenza consolidata: la Corte si è espressa nei medesimi termini già nel 2015, nella causa P. contro Italia (ricorso n. 39294/09), valutando che non vi è stata violazione dell'art. 10 della Convenzione nella condanna per diffamazione di un avvocato, che aveva inviato al Consiglio superiore della magistratura un esposto, lamentandosi del comportamento di un giudice del tribunale, e ne aveva poi diffuso il contenuto con una “circolare” indirizzata a vari giudici del tribunale stesso, senza però indicare esplicitamente il nome del magistrato in questione.

Anche in tal caso, infatti, la Corte ha ritenuto che l'ingerenza nel diritto del ricorrente alla libertà di espressione poteva ragionevolmente sembrare «necessaria in una società democratica» allo scopo di tutelare la reputazione altrui e garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario ai sensi dell'articolo 10 § 2 della Convenzione.

Guida all'approfondimento

M.T. LATTARULO, La diffamazione tra convenzione europea dei diritti umani, diritto interno vigente e disegni di riforma, 6 novembre 2017, in www.Diritto.it

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