Condanna basata sulla testimonianza assunta in assenza di contradditorio e compatibilità con l'equo processo

Donatella Perna
27 Luglio 2018

La questione proposta è quella, peraltro già affrontata dalla Corte Edu, della possibilità di ritenere equo un processo in cui la decisione di condanna sia fondata principalmente su una testimonianza non assunta nel contraddittorio delle parti.
Massima

Nell'interpretazione giurisprudenziale della Corte Edu, il decesso del testimone costituisce «seria ragione» che ne impedisce l'escussione nel processo, e consente l'acquisizione della deposizione da questi resa nel corso delle indagini, quando era ancora in vita; ciò anche nel caso in cui la condanna dell'imputato si fondi in maniera determinante, sebbene non esclusiva, su tale deposizione.

Il caso

La vicenda portata all'attenzione della Corte trae origine dalla denuncia presentata il 14 marzo 1998 alla polizia di Plovdiv (Bulgaria) da una giovane donna di ventisei anni, la quale riferiva che la sera prima era stata prelevata a casa propria, condotta in un locale in centro città e lì sequestrata e violentata dai due ricorrenti, M. e D.

Sottoposta a visita medica, la giovane presentava molte contusioni ed ecchimosi alla testa, al collo, alle braccia e alle ginocchia ma non altri segni fisici o tracce biologiche che potessero attestare rapporti sessuali certi.

Riascoltata il 18 marzo 1998, la giovane ritrattava la denuncia, dicendo di voler preservare la propria tranquillità, di non stare bene e di avere problemi personali.

Frattanto erano esaminati anche i due accusati, sentiti in qualità di testimoni: il primo, M., dichiarava che la donna aveva effettivamente accompagnato lui e il suo amico D. in un caffè in centro città il 13 marzo 1998, di buon mattino, ma non aveva avuto alcun rapporto sessuale con lei e, per quanto a sua conoscenza, nemmeno D. Entrambi l'avevano poi accompagnata a casa sua.

Il secondo, D., dichiarava che il 13 marzo 1998, insieme all'amico M., avevano deciso di prendere un caffè in centro città e avevano invitato la denunciante, con la quale in passato egli aveva avuto una relazione intima, a unirsi a loro, e questa aveva accettato. Una volta sul posto, un locale in corso di ristrutturazione, M. si era allontanato per acquistare dei caffè e in quel frangente egli aveva avuto un rapporto sessuale consenziente con la giovane. Poco dopo tutti e tre avevano preso un taxi: M. era andato a lavoro, la ragazza era tornata a casa sua.

Nuovamente interrogata il 29 gennaio 1999, la giovane donna rendeva una versione dei fatti del tutto coincidente con quella di D., ammettendo la trascorsa relazione sentimentale con quest'ultimo, il rapporto sessuale consenziente nel locale in ristrutturazione, il ritorno a casa in taxi, e dichiarando di avere sporto denuncia per vendetta, dopo che D. le aveva confessato di essere sposato.

A questo punto l'autorità procedente avanzava richiesta di archiviazione del procedimento, richiesta rigettata dal procuratore del distretto, il quale ordinava ulteriori indagini; nel frattempo la denunciante indirizzava all'autorità procedente una lettera, nella quale insisteva nella ritrattazione dell'originaria denuncia, chiedeva l'archiviazione del procedimento, e aggiungeva di essere molto malata e di stare seguendo un trattamento chemioterapico.

Ciò nonostante i due ricorrenti venivano incolpati di violenza sessuale e il 19 dicembre 2000 – come richiesto dal procuratore – il giudice del distretto procedeva all'interrogatorio della denunciante, previa notifica dell'incombente a D. da parte del competente organo di polizia.

Questa volta l'interrogatorio sortiva un esito del tutto inaspettato: la giovane donna infatti tornava alla versione iniziale, riferendo che il mattino del 13 marzo 1998 D. era venuto a prenderla a casa, l'aveva costretta con la forza a salire su un taxi nel quale già si trovava M., e che entrambi gli uomini sembravano avere assunto alcol. Il taxi li aveva lasciati nel caffè in ristrutturazione in centro città e, nonostante avesse cercato di fuggire, D. l'aveva colpita alla nuca e spinta all'interno del locale, dove l'aveva costretta a spogliarsi, colpendola molte volte al capo. A questo punto era stata colta da malore per un attacco ipoglicemico, che aveva superato assumendo diverse bustine di zucchero che i due ricorrenti le avevano procurato. Era stata quindi violentata due volte da D. e una volta da M., dopodiché era stata riportata a casa con un taxi, pagato dai due ricorrenti. L'indomani, dopo essersi confidata con i propri familiari, aveva presentato denuncia.

Precisava ancora di essere poi stata costretta alla ritrattazione in quanto minacciata da D. e dai familiari dei due ricorrenti, nonché di essere stata anche avvicinata da un avvocato, mandato da D., che l'aveva convinta a scrivere la lettera di ritrattazione inviata al procuratore. Aggiungeva infine di essere affetta da un tumore ma di sentirsi bene.

A questa nuova deposizione seguiva quindi l'incriminazione dei due ricorrenti per rapimento, sequestro e violenza sessuale; la richiesta del difensore dei due di avere un confronto con la denunciante veniva rigettata dal procuratore, in quanto non obbligatoria e non necessaria per l'accertamento dei fatti; poco dopo la ragazza moriva a causa della sua malattia.

Il processo seguente si concludeva in primo grado con la condanna di D. per violenza sessuale, mentre M. veniva assolto: il tribunale di primo grado – pur ammettendo come prova anche l'ultima deposizione accusatoria resa in vita dalla denunciante – riteneva che il materiale probatorio raccolto consentiva unicamente di affermare che la giovane aveva avuto un rapporto sessuale non consenziente con D.

Ma il verdetto cambiava in secondo grado: M. veniva anch'egli condannato, e D. riconosciuto colpevole non solo di violenza sessuale ma anche di rapimento, minaccia aggravata e sequestro di persona.

Il tribunale regionale di secondo grado riteneva infatti pienamente attendibile l'ultima deposizione resa dalla persona offesa prima della sua morte, osservando che era intrinsecamente credibile e riscontrata dalle dichiarazioni dei poliziotti che avevano raccolto la denuncia, dai risultati degli esami e delle perizie mediche, dai dati emergenti dai verbali d'ispezione dei luoghi.

Quanto ai cambi di versione nel corso dell'inchiesta, essi venivano giustificati con le pressioni e le minacce che la persona offesa aveva subito dagli imputati e dai loro parenti.

La responsabilità dei due era infine confermata anche in Cassazione, cosicché, divenuta irrevocabile la sentenza, i due condannati ricorrevano alla Corte Edu, lamentando la violazione dell'art. 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione.

Essi allegavano infatti di essere stati condannati sulla base della deposizione di una testimone con la quale non si erano mai potuti confrontare e che non avevano mai potuto interrogare: né durante le indagini – non essendo stati previamente informati dell'interrogatorio e non avendo potuto assistervi – né durante il processo; ciò nonostante, tale deposizione aveva costituito la prova principale d'accusa, e la prova principale per la loro condanna.

La questione

La questione proposta è quella, peraltro già affrontata dalla Corte Edu, della possibilità di ritenere equo un processo in cui la decisione di condanna sia fondata principalmente su una testimonianza non assunta nel contraddittorio delle parti.

Le soluzioni giuridiche

I giudici europei esordiscono illustrando i principi che regolano la materia, così come enucleati dall'art. 6 § 3 d) della Convenzione, e correntemente applicati nella giurisprudenza della Corte: perché un soggetto accusato possa essere dichiarato colpevole, in via generale, è necessario che tutti gli elementi a carico siano prodotti dinanzi a lui in pubblica udienza, in vista di un dibattimento in contraddittorio.

Tuttavia il principio può subire delle eccezioni, accettabili solo se vengono rispettati i diritti della difesa.

E a tal proposito la Corte ha elaborato i criteri che permettono di valutare la compatibilità con l'art. 6 di un processo nel quale una testimonianza sia stata ammessa come prova, malgrado l'accusato non abbia avuto la possibilità di interrogare o fare interrogare il dichiarante.

La Corte infatti deve:

  • innanzitutto assicurarsi che l'assenza del testimone nel corso del processo sia giustificata da un motivo serio;
  • in secondo luogo cercare di stabilire se la condanna del ricorrente sia fondata esclusivamente o in misura determinante sulla deposizione del testimone assente;
  • in ultimo, determinare se vi siano elementi compensatori, ovvero solide garanzie processuali, sufficienti a controbilanciare gli inconvenienti derivanti alla difesa dall'ammissione di una tale prova, e sufficienti ad assicurare l'equità della procedura nel suo insieme.

Sotto il primo profilo, la Corte osserva che la persona offesa non è stata escussa nel corso del processo perché è deceduta prima che esso iniziasse, cosicché la sua deposizione, resa in fase di indagini preliminari, è stata letta in udienza e ritenuta quale prova in giudizio, come consentito dal diritto interno bulgaro. Il decesso del testimone, osserva la Corte, costituisce «ragione seria», nel senso della propria giurisprudenza, per non escutere il testimone e ammettere come prova la deposizione da questi resa quando era in vita.

Aggiunge poi la Corte che la circostanza che i due ricorrenti non abbiano assistito alla deposizione nel corso delle indagini non basta – da sola – a integrare la violazione dell'art. 6 § 3 d) della Convenzione, atteso che D. era stato comunque avvisato dell'incombente; M., a sua volta, non era ancora formalmente incriminato, sicché non vi era alcun obbligo di avviso nei suoi confronti, secondo il diritto interno.

Vero è che il difensore dei due aveva poi chiesto un confronto con la persona offesa, richiesta rigettata in quanto il confronto era stato ritenuto non obbligatorio e non necessario per l'accertamento dei fatti. Ma non può trascurarsi, sottolinea la Corte, il tipo di reato per cui si procede: un'aggressione sessuale particolarmente grave, e cioè una violenza sessuale accompagnata da violenze fisiche. Le vittime di tali fatti si trovano spesso in uno stato psicologico fragile, sicché le autorità che svolgono le indagini devono prestare loro particolare attenzione, soprattutto quando si tratta di raccoglierne la deposizione e procedere al confronto con i loro presunti aggressori.

A ciò si aggiunga che nel caso di specie la vittima era anche affetta da una grave malattia e aveva già subito delle pressioni per ritirare la denuncia e modificare la propria deposizione: tutto ciò considerato, le autorità procedenti non possono essere rimproverate per non aver dato luogo, nel corso delle indagini, al confronto della denunciante con i due ricorrenti.

Da ultimo, aggiunge la Corte, pur essendo la giovane molto malata, nulla indica che gli inquirenti sapessero che rischiava di non arrivare al processo, anche perché nel corso della deposizione, dinanzi al procuratore, la ragazza aveva dichiarato di avere un tumore, ma di sentirsi bene.

Sotto il secondo profilo, la Corte osserva che la deposizione della giovane costituiva effettivamente la prova determinante per la condanna dei due uomini. Ma non era l'unica, poiché vi erano anche altre prove a corroborare tale testimonianza, e cioè le deposizioni dei poliziotti che avevano raccolto la denuncia; i risultati degli esami e delle perizie mediche; gli elementi emergenti dai verbali d'ispezione dei luoghi.

In altri termini, la condanna dei ricorrenti riposava su un insieme di prove in cui la deposizione della ragazza deceduta non figurava come un elemento isolato.

Sotto il terzo profilo, quello riguardante l'esistenza di solide garanzie processuali in grado di controbilanciare l'ammissione di una prova non assunta in contraddittorio, la Corte rileva che occorre verificare il modo in cui i giudici hanno valutato la testimonianza, nonchè gli altri elementi a carico dei ricorrenti, e quali contromisure abbiano adottato per compensare l'impossibilità del controesame.

Il giudice di primo grado, osserva la Corte, ha scartato la gran parte della deposizione, mentre il giudice di secondo grado, il tribunale regionale, l'ha ritenuta nella sua totalità; tale ultima soluzione è stata condivisa dalla Corte di cassazione, sicché occorre analizzare l'approccio del giudice di secondo grado alla prova in questione.

A tal riguardo, rileva la Corte, il tribunale regionale ha esaminato la testimonianza sotto molteplici aspetti: quello degli eventuali motivi di rancore della denunciante nei confronti dei ricorrenti, escludendoli; ha confrontato la testimonianza con gli altri elementi di prova, ritenendo che la deposizione della vittima ne risultasse rafforzata e fosse quindi attendibile; ha anche osservato che, nonostante fossero passati due anni dal fatto, la deposizione era stata particolarmente dettagliata; ha poi spiegato il cambiamento di versione nel corso delle indagini con le pressioni esercitate sulla persona offesa dai ricorrenti e dai loro familiari; infine, ha esaminato e respinto gli argomenti dei ricorrenti che miravano a togliere credibilità alla persona offesa, attribuendole un comportamento amorale; ha invece dato credito alla deposizione dell'ex marito, che ne aveva fornito un ritratto positivo.

Alla luce di tali considerazioni, afferma la Corte, l'esame del tribunale regionale è stato approfondito, oggettivo ed esaustivo, sicché la conclusione di ritenere credibile la deposizione della denunciante nella sua totalità, e la decisione conseguente di ritenerla come prova principale contro i ricorrenti, sono state ampiamente motivate.

Tra l'altro, ricorda la Corte, il tribunale regionale disponeva anche di ulteriori elementi di prova a carico, che hanno rafforzato la testimonianza principale, per cui la condanna dei ricorrenti riposa su un insieme di prove in cui la deposizione in oggetto non figurava come un elemento isolato.

Infine, non può trascurarsi che i due ricorrenti hanno attivamente partecipato al processo e attraverso i loro difensori hanno avuto modo di contestare l'ammissibilità e l'attendibilità della testimonianza della vittima, anche invocando prove a discarico.

Tutto ciò permette di concludere che non vi è stata alcuna violazione dell'art. 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione.

Osservazioni

L'art. 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione Edu, come sopra ricordato, stabilisce il principio secondo il quale l'imputato ha diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni a suo carico (nonchè ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico).

Ciò significa, secondo l'interpretazione corrente della Corte Edu, che la dichiarazione resa dal teste nella fase delle indagini preliminari, per costituire prova compatibile con il diritto al contraddittorio, deve ordinariamente essere seguita da una occasione in cui l'imputato possa contestarla e interrogare il suo autore; ove manchi tale possibilità, la dichiarazione non può costituire fonte unica o preponderante della prova della responsabilità, perché ne deriverebbe un processo non equo, a meno che il sistema interno non preveda garanzie processuali tali da controbilanciare tale inconveniente.

Di conseguenza, la Corte dichiara l'esistenza di una violazione dell'art. 6 della Convenzione qualora un esame globale dei fatti processuali riveli che la condanna è stata fondata in misura esclusiva o anche solo decisiva su prove assunte in violazione di uno o più canoni dell'equo processo (C. VALENTINI, La Corte edu ed il diritto alla prova, in Processo penale e giustizia, n. 6/2014).

In tale disamina essa segue alcune linee guida ormai consolidate: innanzitutto verifica l'esistenza di un serio motivo per la mancata partecipazione del testimone al processo; in secondo luogo, anche in presenza di questo primo presupposto, laddove una condanna sia stata fondata esclusivamente o in misura determinante sulle dichiarazioni rese da una persona che l'accusato non ha avuto la possibilità di esaminare, verifica se i diritti della difesa siano stati limitati in misura incompatibile con le garanzie di cui all'art. 6 della Convenzione.

Nel caso di specie, i giudici europei non sembrano discostarsi da questa giurisprudenza ormai consolidata: essi hanno considerato ragione seria (motif serieux) per la mancata escussione del testimone in giudizio, il suo decesso prima dell'inizio del processo; hanno osservato che la decisione dei giudici interni si è basata principalmente, ma non esclusivamente, su tale testimonianza, essendo sostenuta da un insieme di dati probatori, in cui la deposizione della vittima non rappresentava un elemento isolato; infine, ha verificato che i due imputati hanno fruito di garanzie processuali sufficienti perché fosse loro assicurato un equo processo.

Sembra soprattutto confermato il mutato atteggiamento – inaugurato con la sentenza della Grande Camera del 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito - nei confronti della prova «sola o determinante»: se sola significa esclusiva, il termine determinante va inteso in senso stretto, come relativo a una prova la cui importanza è tale da comportare la soluzione del caso; più precisamente, se la deposizione di un teste assente è supportata da altre prove, l'apprezzamento del suo carattere determinante dipenderà dalla forza probante di quelle altre prove; più queste sono significative, meno la deposizione del testimone assente sarà suscettibile d'essere considerata come determinante (F. ZACCHÈ, Rimodulazione della giurisprudenza europea sui testimoni assenti (Working paper), in dir. pen. cont.).

E ciò diversamente dal passato in cui la Corte Edu più volte, di fronte a condanne basate su prove acquisite in assenza dell'accusato, e divenute oggettivamente impossibili in giudizio per morte, irreperibilità, inabilità a deporre del testimone, aveva ritenuto la violazione dell'art. 6 della convenzione (v. Kolcakuc c. Italia, sentenza dell'8/02/2007; Craxi c. Italia, sentenza del 5 dicembre 2002).

Quanto al versante del diritto interno, in Italia è in corso da tempo una riflessione sul tema, alla luce dell'elaborazione giurisprudenziale della Corte Edu: le Sezioni Unite hanno infatti affermato che l'acquisizione come prova di dichiarazioni assunte senza contraddittorio non è di per sé in contrasto con l'art. 6 della convenzione, ma la loro utilizzazione probatoria è alquanto limitata, poiché l'imputato non può essere condannato sulla base esclusiva o determinante di esse. Pertanto, l'ammissibilità di una prova testimoniale unilateralmente assunta dall'accusa può anche risultare conforme al dettato dell'art. 6 ma affinché il processo possa dirsi equo nel suo insieme, in base ad una lettura congiunta dell'art. 6, §§ 1 e 3 d) della Convenzione, una condanna non deve fondarsi esclusivamente o in maniera determinante su prove acquisite nella fase delle indagini e sottratte alla verifica del contraddittorio, anche se differito (Cass. pen., Sez. unite, n. 27918/2011).

In sostanza, dall'art. 6, discende una norma specifica e dettagliata, una vera e propria regola di diritto – recepita nel nostro ordinamento tramite l'ordine di esecuzione contenuto nell'art. 2, l. 4 agosto 1955, n. 848 – che prescrive un criterio di valutazione della prova nel processo penale, nel senso che una sentenza di condanna non può fondarsi, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare, né nella fase istruttoria, né durante il dibattimento.

Più recentemente, le Sezioni unite sono tornate in argomento, applicando tali principi al processo d'appello.

I giudici di legittimità hanno infatti affermato che la previsione pattizia in questione (relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte Edu), costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, ed implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Cass. pen., Sez. unite, n. 27620/2016).

Guida all'approfondimento

C. VALENTINI, La Corte edu ed il diritto alla prova, in Processo penale e giustizia, n. 6/2014.

F. ZACCHÈ, Rimodulazione della giurisprudenza europea sui testimoni assenti (Working paper), in Dir. pen. cont.

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