La responsabilità della RSA nell'ipotesi di ospite che abbia contratto il COVID all'interno della struttura
25 Febbraio 2021
Caio è accolto nella RSA X a fine febbraio del 2020 per sottoporsi ad un periodo di riabilitazione in seguito ad una caduta e conseguente frattura del femore ed all'ingresso le sue condizioni di salute – tenuto conto dell'età di anni 70 – sono complessivamente ottimali e non ha altre patologie; a marzo del 2020 la RSA X è individuata tra le strutture extra ospedaliere idonee ad accogliere malati COVID dimessi dalle strutture sanitarie pubbliche e che richiedano assistenza nella fase post acuta e/o riabilitativa; il 20 marzo 2020 la RSA X accoglie alcuni malati COVID destinando alla loro ospitalità alcune stanze ubicate nello stesso piano della struttura ove sono ricoverati altri ospiti con altre patologie e tra questi Caio; il 25 marzo 2020 – in seguito a tampone – viene riscontrata la positività al COVID di alcuni infermieri che sono stati impiegati dalla struttura in maniera promiscua, ossia per la assistenza dei malati COVID e degli altri pazienti; il 28 marzo 2020 Caio manifesta sintomi influenzali e – sottoposto a tampone – risulta positivo al COVID.
Le residenze sanitarie assistenziali (RSA) di cui all'art. 20, l. 11 marzo 1988, n. 67 sono disciplinate dal DPCM 22 dicembre 1989 n. 3500, che le definisce strutture extraospedaliere finalizzate a fornire accoglimento, prestazioni sanitarie, assistenziali e di recupero di persone anziane prevalentemente non autosufficienti. Le Linee Guida del Ministero della Sanità gennaio 1994 n. 1, “indirizzi sugli aspetti organizzativi e gestionali delle residenze sanitarie assistenziali”, stabiliscono che l'assistenza residenziale extraospedaliera si concretizza in una gamma di residenze che offrono diversi gradi di assistenza sanitaria (nelle sue componenti mediche, infermieristiche e riabilitative), accompagnata da prestazioni di tipo socio-assistenziale atte a facilitare il collegamento ed il successivo, in alcuni casi solo potenziale, reintegro nell'ambiente di provenienza. In particolare, mentre le Strutture di riabilitazione per soggetti affetti da minorazione fisica, psichica e sensoriale debbono offrire un alto livello di tutela sanitaria, le RSA realizzano un livello medio di assistenza sanitaria integrato da un livello alto di assistenza tutelare ed alberghiera. Sempre le Linee Guida stabiliscono che le RSA siano organizzate per “nuclei” per potere accogliere nella medesima struttura gruppi di ospiti di differente composizione senza determinare interferenze, stante la relativa autonomia dei servizi di nucleo, e così da garantire agli ospiti la migliore assistenza anche sotto il profilo gestionale. Infine, le Linee Guida elaborate dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria chiariscono che le RSA debbono offrire una sistemazione residenziale, tutti gli interventi medici – infermieristici – riabilitativi e un'assistenza individualizzata orientata alla tutela ed al miglioramento dei livelli di autonomia, al mantenimento degli interessi personali ed alla promozione del benessere. Le dette Linee Guida definiscono i “criteri di qualità” e tra questi i “criteri gestionali e di processo”, la cui osservanza richiede – tra l'altro – la verifica della validità delle procedure soprattutto in merito ad accoglienza – gestione dei bisogni assistenziali – gestione dei bisogni sanitari – gestione dei bisogni di relazione e comunicazione – gestione del personale.
Tanto premesso, sembra innanzitutto di poter sostenere che le RSA non si identifichino esattamente con le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private di cui alla l. n. 24/2017 almeno laddove le prestazioni residenziali ed assistenziali siano prevalenti rispetto a quelle squisitamente sanitarie. Ai fini pratici, la affermata natura extraospedaliera e comunque a prevalente finalità residenziale – assistenziale della RSA potrebbe avere riflessi unicamente sui criteri di liquidazione del danno (esulando le RSA dall'ambito di applicazione della l. n. 24/2017 non sarebbero utilizzabili quelli previsti dagli artt. 138 e 139 C.d.A. ma unicamente le Tabelle Milanesi) e sul rito (che in materia di responsabilità sanitaria è quello delineato dall'art. 8, l. n. 24/2017).
Comunque, e a prescindere dall'inquadramento delle RSA nell'ambito di applicazione della l. n. 24/2017, dalla accoglienza nella struttura di un soggetto non autosufficiente discendono una serie di obblighi e di doveri verso l'ospite che non possono esaurirsi nella mera prestazione alberghiera o sanitaria - assistenziale. Tra gli obblighi della RSA vi è certamente quello di assicurare ai propri ospiti – tendenzialmente soggetti estremamente fragili sia perché normalmente anziani sia perché non autosufficienti e spesso con elevati livelli di comorbilità - un elevato standard di protezione da ogni genere di agente dannoso interno o esterno. In altri termini, dovrebbe valere per le RSA quanto affermato dalla Suprema Corte per una struttura ospedaliera, che non può limitarsi all'obbligo di assicurare al paziente le cure mediche più appropriate al trattamento della patologia ma deve adoperarsi anche al fine di salvaguardarne la incolumità fisica (Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28989). Non si può invero prescindere, nel valutare la esattezza di una qualunque prestazione contrattuale, dall'osservanza – da parte del debitore della medesima prestazione – dei doveri di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175, 1374 e 1375 c.c., interpretati dalla giurisprudenza (Cass. civ., Sez. III, 13 ottobre 2017 n. 24071) nel senso che agli obblighi nascenti dal contratto si affiancano una serie di ulteriori doveri c.d. di protezione la cui eventuale inosservanza può essere fonte di responsabilità.
Tanto premesso, sarebbe stato ragionevole esigere dalla direzione sanitaria di una RSA, che avesse dato la propria disponibilità ad accogliere all'interno della propria struttura pazienti COVID, una particolare attenzione nel trattamento di soggetti che erano venuti a contatto con un virus estremamente contagioso e con tassi elevati di mortalità. E che il patogeno fosse particolarmente aggressivo era già noto a gennaio, quando il Governo italiano aveva dichiarato lo stato di emergenza sanitaria ed il Ministero della Salute aveva adottato alcuni provvedimenti che prescrivevano precise regole comportamentali per prevenire il contagio, ed a maggior ragione a marzo, quando la Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dichiarato la pandemia.
In particolare, per ciò che concerne i provvedimenti governativi, già il 22 gennaio 2020 il Ministero della Salute aveva diramato una propria circolare – la n. 1997 – con la quale prescriveva gli accorgimenti cui attenersi nel trattare i casi sospetti di COVID. Si legge in detta circolare, infatti, che si raccomanda: a) che i casi sospetti debbano essere visitati in un'area separata dagli altri pazienti e ospedalizzati in isolamento in un reparto di malattie infettive, possibilmente in una stanza singola; b) che il personale adibito alla cura ed alla assistenza dei pazienti COVID sia impiegato esclusivamente in tale ambito al fine di ridurre il rischio di trasmissione; c) che il personale sanitario adotti le misure standard di biosicurezza. Ed è evidente che siffatte regole comportamentali sarebbero state ancora più cogenti non in presenza di casi sospetti di COVID, bensì conclamati come quelli trasferiti nella fase post acuta nelle RSA. Ulteriori regole comportamentali ha raccomandato il Ministero della Salute con successive circolari, in particolare la circolare 22 febbraio 2020 n. 5443 ove si ribadisce la necessità di adottare tutti gli accorgimenti indispensabili al contenimento della diffusione del virus. Peraltro, poiché il COVID è un virus che si trasmette per via aerea, al pari dei più diffusi virus influenzali, sarebbe stato normale attendersi la osservanza – tanto più da parte di soggetti qualificati che hanno la responsabilità di pazienti anziani e particolarmente fragili – di quelle regole precauzionali oramai raccomandate da molti anni dal Ministero della Salute ed anche dalle linee guida sulla gestione della sindrome influenzale.
Invero, solo a titolo esemplificativo valga qui richiamare le raccomandazioni del Ministero della Salute per la stagione influenzale 2017 – 2018, le quali avvertono che le epidemie influenzali rappresentano un serio problema di Sanità Pubblica, sono spesso associate a elevata morbosità e mortalità e che i casi severi e le complicanze sono più frequenti nei soggetti al di sopra dei 65 anni di età e con condizioni di rischio: cioè proprio coloro che fanno abitualmente ricorso all'assistenza delle RSA. Ed allora sarà difficile escludere la inesatta esecuzione della prestazione tutte le volte in cui un ospite di una RSA si sia ammalato di COVID dopo che all'interno della medesima struttura erano stati accolti pazienti dimessi dalle strutture sanitarie pubbliche con diagnosi di COVID. E dovrebbe essere sufficiente, affinché sia affermata la responsabilità della RSA, che l'ospite alleghi e dimostri di essere stato ricoverato all'interno della struttura residenziale e di avere contratto colà la malattia dopo che nella medesima struttura erano stati ricoverati pazienti COVID. Non sarebbe necessario dimostrare anche la inosservanza di concrete regole di condotta (ad esempio che i pazienti COVID non sono stati ospitati in un reparto adeguatamente isolato dai luoghi frequentati dagli altri pazienti e che le loro cure non sono state affidate a personale sanitario ed infermieristico assegnato in maniera esclusiva al “reparto COVID”) che la situazione sanitaria avrebbe dovuto suggerire.
Invero, poiché la menomazione della salute (e cioè l'avere contratto il virus) non sarebbe diretta conseguenza della inesatta esecuzione di una prestazione sanitaria bensì l'effetto della inosservanza del dovere di assicurare agli ospiti un soggiorno all'interno della RSA in sicurezza – e dunque mettendo in atto tutte le misure organizzative che nella specie avrebbero scongiurato il contagio dei residenti della struttura – non dovrebbe essere richiesto quanto recentemente affermato dalla Cassazione (Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28992) in materia di responsabilità sanitaria (e cioè che è onere del paziente dimostrare il nesso causale tra la condotta del sanitario e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia) ma dovrebbe essere sufficiente la generica allegazione dell'inadempimento, gravando sulla RSA l'onere di dimostrare che, a mente dell'art. 1218 c.c., l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa ad essa non imputabile.
Quanto agli aspetti processuali, non dovrebbero esservi ragioni ostative alla possibilità per il danneggiato – in luogo del giudizio di cognizione ordinaria - di ricorrere alla consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 696 bis c.p.c.: e ciò anche se la RSA non fosse assimilabile ad una struttura sanitaria e quindi se non si potesse applicare il rito previsto nei casi di responsabilità sanitaria, stante la generalizzata ammissibilità del procedimento disciplinato dall'art. 696 bis c.p.c. tutte le volte in cui debbano essere accertati e determinati i crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali (e sarebbe questo il caso) o da fatto illecito. Giova tuttavia segnalare che non del tutto pacifica è in giurisprudenza la indifferenziata ammissibilità della consulenza tecnica preventiva (alcuni giudici - ad esempio Trib. Salerno 3 aprile 2017 - ritengono che questo strumento processuale sia precluso quando la controversia implica la soluzione di questioni giuridiche riservate al giudice del merito), ma sembra più aderente al dato normativo ed alla finalità della norma quell'altro orientamento meno rigoroso che ammette la consulenza tecnica preventiva anche quando la controversia verta sull'an debeatur, con l'unico limite che il resistente non metta in discussione lo stesso rapporto da cui trarrebbe origine il credito da accertare (Trib. Roma 17 febbraio 2020). E nella specie ben difficilmente potrebbe essere contestata la sussistenza del rapporto contrattuale, che sarebbe dimostrabile attraverso la scheda di ricovero ed accettazione nella RSA.
Infine, e venendo al caso concreto, Caio dovrebbe chiedere al Giudice di nominare un consulente d'ufficio (magari affiancando al medico legale uno psichiatra forense o uno psicologo giuridico) al quale affidare il mandato di stabilire: a) se sussiste il nesso di causalità tra il trattamento promiscuo all'interno della RSA X di ospiti comuni ed ospiti COVID ed il suo successivo contagio; b) se la lunga degenza ospedaliera conseguente al contagio ha inciso sulle capacità di recuperare la piena funzionalità dell'arto inferiore fratturato e per la cui riabilitazione aveva fatto ricorso alle cure della RSA, indicando – in caso affermativo – il grado di invalidità permanente; c) se è suscettibile di valutazione medico legale la sofferenza soggettiva consistente nell'avere vissuto la degenza ospedaliera con nitida lucidità e nel terrore – nella totale solitudine e lontano da ogni affetto e conforto familiare – di non riuscire a sopravvivere nonostante le cure, indicando – in caso affermativo – il grado di invalidità permanente e temporanea; d) se è suscettibile di valutazione medico legale la attuale condizione di Caio che, dopo essere guarito dal COVID, non riesce più a relazionarsi con il prossimo vivendo nel terrore di un nuovo contagio e temendo di rivivere il trauma della ospedalizzazione ed anche di non sopravvivere, indicando – in caso affermativo – il grado di invalidità permanente e temporanea; e) se il sig. Caio, ammalandosi di COVID, ha comunque vissuto uno stravolgimento emotivo della propria esistenza valutabile alla strega di danno morale, indicandone il grado. |