Prognosi di futura condanna a pena superiore a tre anni in sede di applicazione di misure cautelari personali e sua rivalutazione in fase dinamica

01 Marzo 2021

In materia di misure cautelari personali, l'impossibilità di applicare la custodia in carcere laddove sia pronosticabile l'irrogazione di una pena non superiore a tre anni di reclusione, di cui all'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., costituisce una regola di valutazione della proporzionalità della custodia in carcere...
Massima

In materia di misure cautelari personali, l'impossibilità di applicare la custodia in carcere laddove sia pronosticabile l'irrogazione di una pena non superiore a tre anni di reclusione, di cui all'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., costituisce una regola di valutazione della proporzionalità della custodia in carcere di cui va tenuto conto, ai sensi dell'art. 299, comma 2, c.p.p., anche nella fase dinamica della misura cautelare, in particolare allorché sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite, evenienza che impone la sostituzione della custodia in carcere con altra misura meno afflittiva.

Il caso

In un procedimento penale per plurimi episodi di furto aggravato, il G.I.P. ha disposto la misura cautelare della custodia in carcere.

Avverso tale ordinanza, confermata dal Tribunale del Riesame, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo che non fosse stata data adeguata motivazione sulla prognosi di condanna superiore a tre anni imposta dall'articolo 275 comma 2-bis c.p.p.

Nelle more della decisione del ricorso, l'imputato è stato condannato, in seguito a giudizio abbreviato, alla pena di due anni e quattro mesi.

La difesa ha prodotto la sentenza a dimostrazione della fondatezza del ricorso.

La Corte di Cassazione ha annullato il provvedimento impugnato.

In motivazione - L'articolo 275 comma 2-bis del codice di procedura penale statuisce che la custodia cautelare in carcere non possa essere applicata qualora il giudice ritenga che, all'esito del processo, sarà irrogata una pena inferiore a tre anni di reclusione, fatta eccezione per alcune ipotesi particolari che in questa sede non rilevano.

Sul punto la sentenza in esame rileva in primo luogo che “la valutazione predittiva circa la condanna a pena superiore ai tre anni si colloca nella fase genetica della misura cautelare: l'obbligo ad essa relativo impone al Giudice della cautela di valutare, nella scelta della custodia in carcere piuttosto che di altre misure, se l'imputato potrà essere destinatario di una condanna a pena ultratriennale. Solo nel caso in cui questo vaglio si concluda con esito positivo, il Giudice investito della richiesta del pubblico ministero potrà applicare, nella ricorrenza degli altri presupposti di legge, la misura di massimo rigore”.

Poiché si tratta di un passaggio dell'iter delibativo sulla richiesta della massima misura, esso deve trovare riscontro nella motivazione, nella quale il Giudice della cautela dovrà dare atto di avere svolto la prognosi in parola.

Ed infatti, nel caso di specie, il ricorso per Cassazione ha censurato proprio la mancanza di motivazione sul punto. Tale motivo di ricorso ha trovato accoglimento da parte dei giudici aditi, aggiungendo che “a tale dovere argomentativo ulteriormente consegue che l'ordinanza genetica può essere censurata ex art. 309 codice di rito laddove la motivazione sul punto manchi e che il Tribunale del riesame deve dare luogo al vaglio di competenza, anche eventualmente utilizzando i propri poteri integrativi”.

Nel procedimento penale da cui è scaturito il gravame oggetto della pronuncia in commento, il sopravvenire nelle more del giudizio della Corte di cassazione di una condanna - nel giudizio di primo grado - a pena inferiore a tre anni ha imposto ai giudici un approfondimento ulteriore: la Corte ha dovuto infatti valutare se l'accadimento processuale sopravvenuto potesse o dovesse avere un peso nell'odierno vaglio circa il perdurare del vincolo cautelare massimo.

La questione

La questione in esame è la seguente: la prognosi sulla futura condanna alla pena di tre anni di reclusione condiziona solo il momento genetico dell'ordinanza cautelare o l'esito processuale, ancorché non definitivo, impone una rivalutazione della misura adottata, con conseguente obbligo di sostituzione della custodia in carcere in caso di condanna in primo grado a pena inferiore?

Le soluzioni giuridiche

Sul punto si registra un contrasto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Secondo una prima interpretazione, la condanna a pena inferiore a tre anni importa la caducazione automatica della misura cautelare della custodia in carcere.

È stato infatti osservato che “in materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, previsto dall'articolo 275 comma 2-bis c.p.p., opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell'esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite” (Cass. pen, sez. F., 13 agosto 2020, n. 26542; Cass. pen., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 20540).

Secondo altre pronunce, invece l'obbligo di limitare la custodia in carcere ai soli casi in cui si prevede la futura irrogazione della condanna a pena superiore a tre anni di carcere opera solo nel momento genetico della misura e resta irrilevante nella fase successiva della stessa, lasciando il giudice libero di mantenere il vincolo custodiale più severo anche nel caso di condanna a pena inferiore.

In particolare, secondo questo orientamento, “il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere (…) deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini della perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell'art. 299 c.p.p.” (Cass. pen., sez. IV, 25 giugo 2020 n. 21913; Cass. pen., sez. IV, 26 marzo 2015, n. 13025; Cass. pen., sez. VI, 5 novembre 2015, n. 47302).

Osservazioni

Va ricordato che la modifica del d.lgs. n. 92/2014, che ha introdotto l'obbligo di limitare la custodia cautelare in carcere ai casi in cui si prevede una condanna superiore a tre anni di reclusione, oltre che funzionale allo svuotamento delle carceri imposto dalla Corte Europea, risponde all'ulteriore esigenza di armonizzare il sistema cautelare con la fase esecutiva di espiazione della pena, come emerge esplicitamente dallo stresso preambolo del decreto legislativo menzionato.

Il punto di partenza imprescindibile è dato dalla considerazione che non sempre alla condanna espressa in sede giurisdizionale ad una pena detentiva segue l'effettiva esecuzione della pena.

Ai sensi dell'articolo 656, comma 5, c.p.p., infatti, la pena irrogata con sentenza passata in giudicato viene sospesa se inferiore a tre anni di reclusione: ciò vuol dire che anche dopo l'accertamento definitivo ed incontrovertibile della responsabilità per la commissione di un reato, il reo non è sempre chiamato a risponderne con la effettiva perdita della libertà personale ma solo nei casi più gravi.

Il principio della ineseguibilità delle pene detentive inferiore a tre anni comporta come conseguenza implicita che anche le misure cautelari non devono essere irrogate se la pena finale è inferiore a tale limite, essendo illogico e sostanzialmente ingiusto che l'indagato sia privato della libertà nel corso dell'accertamento di un reato per il quale, in caso di condanna, la privazione della libertà è avvertita come sanzione eccessiva.

Il legislatore ha pertanto negli ultimi anni compiuto un percorso di adeguamento della disciplina delle misure cautelari personali a questo principio, dapprima con l'inserimento di un primo limite generale all'applicazione delle misure cautelari personali custodiali nel caso in cui si prevede che all'esito del giudizio sarà irrogata una pena sospesa condizionalmente, e poco dopo con l'ulteriore precisazione che la misura cautelare della custodia cautelare in carcere non sarà comunque possibile in caso di pena inferiore a tre anni di reclusione.

In entrambi i casi si fa carico al giudice della cautela di prevedere gli esiti verosimili del giudizio di merito, evitando di emettere un'ordinanza che di fatto anticipa gli effetti di una pena laddove tali effetti, per il combinato disposto degli artt. 163 c.p. e 656 c.p.p., non si verificheranno.

In casi siffatti, la misura cautelare andrebbe al di là dell'effetto indiretto di anticipazione della pena (desumibile dal principio del cosiddetto “presofferto”) per divenire l'unica pena effettivamente scontata dal condannato, contraddicendo peraltro il principio generale nel tempo affermatosi secondo cui la pena detentiva deve essere considerata estrema ratio e riservata ai soli casi di maggiore allarme sociale.

A questo principio risponde dunque il disposto dell'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., che impone al giudice di avere presente anche gli esiti del futuro processo, con valutazione prognostica che investa l'effettività della pena.

Lo scopo è di evitare di applicare per via cautelare la privazione della libertà personale nei casi in cui si ritiene che all'esito del giudizio la sanzione applicata non potrà refluire sulla libertà.

Immediatamente dopo l'introduzione della norma ci si è chiesti se il divieto di adottare la custodia in carcere nel caso previsto dalla norma in esame valga anche dopo la sentenza di primo grado, se il giudice ha condannato l'imputato ad una pena inferiore a tre anni di reclusione.

L'entrata in vigore della norma ha infatti posto i giudici di fronte alla scelta di mantenere la custodia in carcere per tutti i detenuti in custodia cautelare per i quali era intervenuta condanna inferiore al limite dei tre anni o provvedere immediatamente alla scarcerazione.

Se da un lato la nuova norma impone, come si è visto, un divieto di anticipazione degli effetti della pena nei casi in cui questa non verrà scontata effettivamente, dall'altro è altrettanto evidente che l'art. 275, comma 2-bis, c.p.p. secondo periodo si riferisce al momento dell'adozione della misura cautelare, mentre nulla ha detto il legislatore sulla fase successiva, di pertinenza dell'articolo 299 c.p.p. (norma lasciata inalterata dalla riforma legislativa in esame).

Sul punto, come si è visto, si sono registrate pronunce di diverso tenore.

In un primo momento, si era affermata la interpretazione più restrittiva, ciò che ha consentito di evitare l'effetto immediato di procedere a centinaia di revoche di misure cautelari in corso di esecuzione.

Pian piano l'orientamento contrario sembra affermarsi nelle decisioni di merito e di legittimità, ove sempre più spesso, come si è visto, si registrano pronunce impositive della prognosi dell'esito del futuro processo anche in sede di istanza di revoca della misura cautelare a suo tempo irrogata.

La sentenza che qui si commenta aderisce a questo ultimo orientamento, pervenendo alla esplicita conclusione che, pur in assenza di esplicita previsione legislativa, il divieto di custodia cautelare in carcere nel caso di prognosi di condanna inferiore a tre anni debba essere osservato non solo al momento della irrogazione della misura ma per tutta la durata della stessa, imponendo al giudice che procede un adeguamento costante della misura ai mutamenti della situazione di fatto.

Di fronte ad una pronuncia di condanna da parte del giudice di primo grado – o ovviamente, a fortiori, di quello di Appello – a pena inferiore a tre anni la prognosi sul futuro esito del giudizio non sarà più affidata al solo giudizio astratto del giudice della cautela ma avrà a disposizione dati concreti da cui sarebbe illogico prescindere.

La Corte parte dal principio generale espresso dal comma secondo dell'art. 275 c.p.p., secondo cui la scelta della misura da applicare deve tenere conto non solo della specifica idoneità della misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, ma altresì del criterio di proporzionalità secondo cui “ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata”.

Il disposto dell'art. 275, comma 2-bis, c.p.p. è stato introdotto proprio per fornire dei criteri concreti di applicazione del suddetto principio di proporzionalità, delle regole di dettaglio per guidare il giudice nello scrutinio a farsi.

Tanto premesso, appare evidente che l'ambito primario di applicazione della norma si colloca nel momento genetico dell'ordinanza cautelare: l'obbligo ad essa relativo impone al Giudice della cautela di valutare, nella scelta della custodia in carcere piuttosto che di altre misure, se l'imputato potrà essere destinatario di una condanna a pena ultratriennale.

Tuttavia, nel caso non infrequente in cui nel corso dell'esecuzione della misura cautelare il processo si concluda con una sentenza (di primo grado) di condanna a pena inferiore a tre anni, la prognosi fatta a suo tempo dal giudice che ha emesso l'ordinanza viene ad essere smentita nei fatti dal pronunciamento del giudice di merito.

Il passaggio in giudicato della sentenza comporta de jure il venir meno degli effetti della misura cautelare e la sua sostituzione con la pena da espiare. Ma prima di questo momento l'ordinanza continua a spiegare legittimamente i suoi effetti, anche se è venuto meno uno dei presupposti in base al quale era stata emanata, non potendo più il giudice affermare che la pena che si presume sarà irrogata all'esito del processo sarà superiore a tre anni.

Al contrario, proprio il riscontro giurisdizionale in senso contrario alla prognosi impone la revisione della stessa, per la restante parte della sua efficacia.

Pertanto, non potrà che giungersi ad una rideterminazione del giudice in ordine alla misura cautelare a suo tempo emessa.

Ne discende che la valutazione della proporzionalità della misura cautelare va operata non solo nella fase genetica della misura cautelare, ma anche in quella dinamica.

In merito deve essere considerato valido parametro di riferimento il principio sancito dalla Cassazione a Sezioni Unite Khalil (Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 16085), laddove è stato chiaramente stabilito che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.

Acquisita la necessità di una valutazione di proporzionalità da ripetersi nel tempo, ne deriva altresì che laddove intervenga un nuovo accadimento di ordine processuale, lo scrutinio non può non tenerne conto, in particolare essendo necessario che il Giudice della cautela si adegui alle valutazioni della pronunzia di merito sulla re giudicanda, anche quanto alla sanzione inflitta.

Né è di ostacolo la mancata previsione in tal senso di una esplicita norma, corrispondente a quella introdotta al comma 2-bis dell'art. 275 c.p.p., nell'articolo 299 c.p.p.

Sul punto, la Corte di Cassazione nella sentenza in commento statuisce infatti che lo strumento procedimentale attraverso il quale il vaglio di proporzionalità può essere effettuato anche in fase successiva a quella di emissione del titolo è offerto dalla norma generale di cui all'art. 299, comma 2, c.p.p., che prevede che il Giudice sostituisca la misura con altra meno grave quando quella originariamente individuata non appaia più proporzionata alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata; strumento suscettibile di utilizzo a fortiori rispetto alla pena concretamente inflitta, nell'ottica del già precisato dovere del Giudice della misura cautelare di attenersi alla decisione di quello del merito. È attraverso detta norma, dunque, che il sistema trova una sua lettura razionale laddove un'esegesi diversa restituirebbe un meccanismo inspiegabile, secondo il quale la sola prognosi di condanna non ultratriennale impedisce l'applicazione della custodia in carcere e, di contro, la concreta irrogazione di una pena inferiore a tre anni sarebbe ininfluente rispetto al perdurare della misura massima.

È infatti evidente che è compito del giudice verificare costantemente la permanenza delle ragioni che hanno portato all'adozione della misura e adeguare immediatamente lo status libertatis del destinatario della stessa al mutare di quelle, provvedendo alla revoca immediata dell'ordinanza al venir meno dei suoi presupposti.

In applicazione dell'art. 299, comma 2, c.p.p., dunque, il Giudice che procede, sopravvenuta la condanna a pena non superiore ai tre anni di reclusione, dovrà sostituire la custodia in carcere con misura meno afflittiva.

La conclusione cui giunge la sentenza poggia indubbiamente su solide basi giuridiche costituite dai principi di diritto cui si è fatto riferimento poc'anzi (in special modo, oltre al comma 2-bis, il comma 2 dell'art. 275 c.p.p. e l'art. 299, comma 2, c.p.p.).

Tuttavia, desta qualche preoccupazione il principio generale a cui le predette norme, interpretate congiuntamente, sembrano ispirarsi.

Sembra infatti affermarsi un generale divieto di privare taluno della libertà personale al massimo livello (custodia in carcere) se non nei casi in cui il giudice sia ragionevolmente sicuro che l'indagato sconterà comunque in futuro una effettiva privazione della libertà personale.

Questo ulteriore passo avanti sembra preludere ad un'eccessiva svalutazione, se non propriamente ad un vero e proprio abbandono, delle finalità cautelari previste dagli articoli 272 e seguenti che finirebbe con lo scardinare del tutto il sistema cautelare.

Va infatti ricordato che la misura cautelare non costituisce anticipazione della pena ma asserve a funzioni profondamente differenti.

Il principio costituzionale della presunzione di innocenza impone infatti che non è possibile alcuna compressione della libertà personale assimilabile alla detenzione prima che si sia compiuta la fase processuale con una sentenza di condanna non più impugnabile.

Pertanto, l'adozione di una ordinanza cautelare trova legittimazione nel nostro sistema esclusivamente in funzione di cautela delle esigenze di ricerca della prova o di tutela dall'allarme sociale provocato dalla commissione del reato in fase di accertamento, nonché per scongiurare l'eventualità che il reo si sottragga agli effetti della eventuale futura condanna con la fuga.

Agire in funzione di cautela significa comprimere il diritto inviolabile della libertà personale in assenza della certezza processuale della responsabilità penale, sicché l'emissione di un'ordinanza cautelare deve costituire il punto di equilibrio tra esigenze delicatissime e tutte di primaria importanza.

È chiaro il motivo per cui, quanto più ci si avvicina a questa certezza processuale, tanto meno si deve motivare sulla sussistenza di esigenze cautelari (dopo la sentenza di condanna di primo grado, e ancor di più di quella di appello, la motivazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari diviene meno pregnante sino ad essere quasi presunta, secondo il disposto dell'art. 275, commi 1-bis e 2-terc.p.p.).

In questo delicato congegno è stato inserito l'obbligo di prognosi del futuro esito del processo di merito da parte del giudice della cautela, che agisce in senso complementare a quello testè menzionato: anche in questo caso si scolorano le esigenze cautelari per avvicinare la misura cautelare ad una anticipazione della pena.

Tuttavia, l'allargamento ulteriore di tale obbligo di prognosi alle fasi successive al momento genetico rischia di togliere al giudice il potere-dovere di valutare, in concreto, la sussistenza di esigenze cautelari di tale significatività da imporre un intervento immediato a tutela delle indagini o della sicurezza pubblica.

In ipotesi siffatte la misura cautelare rischia di perdere la sua funzione propria per ridursi ad una mera, meccanica, anticipazione degli effetti di una pena che presuppone un accertamento processuale non ancora compiutamente definito.

La generalizzazione del principio del necessario collegamento tra misura cautelare ed espiazione della pena porterebbe inoltre ad un'ulteriore paradossale conseguenza: poiché in sede di esecuzione è previsto che se il residuo di pena da scontare è inferiore a tre anni si debba provvedere alla scarcerazione del condannato per proseguire l'espiazione della pena con metodi alternativi (affidamento in prova), ne deriverebbe che anche in sede cautelare il giudice dovrebbe calcolare la pena futura e nel momento in cui, in corso di esecuzione della misura, “residuino” da scontare meno di tre anni, provvedere alla sostituzione della misura (ad esempio, una persona in custodia cautelare condannato in primo grado a tre anni e sei mesi, dovrebbe essere scarcerato decorsi i primi sei mesi di esecuzione della misura).

In merito la Suprema Corte ha rilevato, condivisibilmente, che la lettura congiunta dell'articolo 275 comma 2 bis c.p.p. e 656 commi 5 e 9 c.p.p. implica che la misura cautelare della custodia in carcere non si caduca automaticamente nel caso in cui la pena ancora da espiare, tenuto conto del presofferto cautelare, sia inferiore ai tre anni, perché non sarebbe comunque possibile disporre la sospensione dell'esecuzione della pena inflitta.

Va in merito ricordato infine che ogni meccanismo che leghi la sorte delle misure cautelari al quantum del presofferto in pendenza del processo penale non può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento.

Tale meccanismo, che si era affacciato qualche anno fa nella giurisprudenza di merito, è infatti stato dichiarato illegittimo dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite.

Come è noto, si era infatti diffusa in taluni Tribunali di merito una interpretazione “matematica” del criterio di valutazione del venir meno delle esigenze cautelari, secondo cui l'indagato doveva essere liberato allorquando il tempo trascorso in stato di custodia cautelare superasse una certa percentuale della pena futura, per evitare che la misura cautelare assorbisse interamente o quasi l'espiazione della pena.

Il principio cui si faceva riferimento era quello, già esaminato, della necessaria proporzionalità della misura adottata in riferimento alle esigenze cautelari: si era ritenuto che l'avvenuta esecuzione della misura per un certo lasso di tempo comportasse la sopravvenuta mancanza di proporzionalità tra la protrazione dello stato custodiale e l'entità della pena inflitta all'esito del futuro giudizio.

Questa interpretazione è stata abbandonata dopo la netta presa di posizione negativa della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 16085; in merito si veda altresì Cass. pen., sez. II, 4 febbraio 2015, n. 6510) che ha ribadito, nell'occasione, l'illegittimità di un provvedimento di revoca della misura cautelare basato su meri criteri aritmetici della pena irroganda nel giudizio di merito che prescinda da ogni valutazione della persistenza e della consistenza delle esigenze cautelari che ne avevano originariamente giustificato l'applicazione.

È evidente che tali derive interpretative debbano essere scongiurate, per evitare come detto che il sistema cautelare perda la sua finalità esclusiva che è quella di protezione delle esigenze cautelari e non di anticipazione della pena.

Ovviamente il legame tra misura cautelare e anticipazione della pena è insito nel nostro sistema, stante la identità degli effetti dei due istituti.

Non deve essere obliterata però la fondamentale differenza di scopo che le separa: le limitazioni ai diritti che scaturiscono dalle pene sono in funzione punitiva e general-preventiva, quelle delle misure cautelari sono in funzione protettiva.

In altri termini, le pene guardano al fatto di reato, le misure cautelari guardano al processo.

Le limitazioni dei diritti derivanti dalla pena trovano la loro giustificazione nell'accertamento definitivo e tendenzialmente immodificabile, quelle delle misure cautelari no.

Nelle misure cautelari si agisce quando l'accertamento è giunto ad una fase provvisoria e tutt'altro che modificabile: si sacrifica la certezza in ragione dell'urgenza di provvedere.

Ben vengano dunque le regole che, imponendo al giudice della cautela una prognosi sulla futura conclusione del giudizio di merito, perché servono a ridurre l'eventualità tragica di una misura cautelare adottata come anticipazione di una pena che lo Stato ha scelto di non irrogare.

Ma attenzione agli automatismi che limitano in radice la possibilità per il giudice del caso concreto di valutare la eventuale sussistenza di esigenze cautelari di particolare pregnanza, la cui pretermissione potrebbe rischiare di compromettere l'esito stesso del processo in corso.

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